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    GOLDRAKE: SFIDA NELL'ALTA SIERRA!

    Sfida-nell-Alta-Sierra


    A volte ci sono delle sorprese che ti fanno pensare: "Ma io questa scena l'ho già vista!". Vi sarà capitato diverse volte. Bè, a me è capitato vedendo un film degli anni '60, dove ho trovato dei riferimenti inaspettati a Goldrake. Solo che l'anime è venuto dopo il film (Goldrake è del 1975), quindi è assai probabile che gli autori di Goldrake abbiano visto "Sfida nell'alta sierra", il film in questione. Infatti, provate a vedere quello che succede nel film, come ho descritto qui sotto, e fate poi le vostre considerazioni. Io personalmente ritengo molto probabile che gli autori di Goldrake abbiano preso spunto dal film.

    SFIDA NELL'ALTA SIERRA

    Sfida nell'Alta Sierra (nell'originale: Ride the High Country, cioè "Cavalcata nelle Terre Alte") è un film western del 1962 diretto da Sam Peckinpah.

    Questa è la trama: il protagonista, l'anziano pistolero Steve Judd (l'attore Joel McCrea), che vive in un paese di confine, incontra il suo vecchio amico Gil Westrum (Randolph Scott), che passava per il paese. Tempo fa, erano stati compagni d'avventura: ora sono avanti negli anni e hanno pochi soldi. Il tempo del West sta finendo.

    Steve propone a Gil di aiutarlo per un'ultima impresa che permetterebbe loro di guadagnare un pò di soldi: si tratta di un lavoro che deve fare per conto di una banca, e un aiuto come quello di Gil gli farebbe comodo. Devono andare in un villaggio di minatori, in mezzo alle montagne (le "Terre Alte" del titolo), per prelevare il loro oro e depositarlo alla banca, facendo la guardia durante il tragitto. Infatti i due, Steve e Gil, sono stati degli abili pistoleri, e le loro capacità sono ancora inalterate. Gil accetta la proposta; insieme a loro, su richiesta di Gil, si aggrega anche il giovane Heck Longtree (Ron Starr), appena conosciuto. Ma la verità è che Gil e il giovane Heck si conoscevano già da prima e il loro obiettivo è rubare l'oro dei minatori, prendendolo da Steve, nel viaggio di ritorno.

    Durante il viaggio di andata, si fermano in una fattoria per trovare riparo. Lì ci vive Joshua Knudsen (R.G. Armstrong), un agricoltore protestante molto religioso, ma di una religiosità superficiale e fanatica. Ha una figlia in età da marito, Elsa (Mariette Hartley). La ragazza è promessa sposa di Hammond, un uomo che lavora nella miniera dove i tre stanno andando, quindi il padre bada al comportamento della figlia. Lei, però, non sopporta che il padre la tenga sempre d'occhio. Con l'arrivo dei tre ospiti, Elsa decide di fuggire da suo padre e di seguire il gruppo, anche perchè tra lei e il giovane Heck è scoccata la scintilla. Comunque, Elsa decide di raggiungere il villaggio dei cercatori insieme a loro, per sposarsi col promesso sposo.

    Una volta arrivati al villaggio e prelevato l'oro, Elsa scopre che il suo futuro marito è in realtà un bruto, e i suoi fratelli sono ancora peggio. Nonostante tutto, lei lo sposa in un matrimonio-farsa: ma, la sera stessa in cui viene celebrato lo sposalizio, Elsa per poco non viene violentata dai fratelli del suo neo-marito. I tre protagonisti, vedendo questo, decidono di salvarla, portandola via con loro. Ma il gruppo dei minatori fratelli (ben cinque) li insegue.

    Durante il viaggio di ritorno, Gil e il giovane Heck cercano di attuare il loro piano, fuggendo con l'oro: ma Steve, che già sospettava qualcosa, se ne accorge e li disarma. Tuttavia, ha bisogno lo stesso di loro, perchè i cinque minatori/fratelli Hammond tra un pò li attaccheranno. Col patto di restituire poi le armi a Steve, i due vengono liberati e riescono, in uno scontro a fuoco, ad uccidere due dei cinque fratelli; gli altri tre scappano.

    Steve riporta Elsa alla fattoria di suo padre. Ma, ad attenderli, ci sono gli altri tre fratelli Hammond, che avevano ucciso il padre di Elsa e avevano preparato un'imboscata. Steve e Gil sfidano a duello i tre fratelli e riescono ad ucciderli. Ma Steve viene ferito a morte e il ragazzo, Heck, è rimasto ferito. Prima che Steve muoia, Gil gli promette che porterà a termine il compito al suo posto, e si allontana con Heck ed Elsa.

    COMMENTO

    Sfida nell'Alta Sierra è del 1962. UFO Robot Grendizer, il nostro Goldrake, è uscito per la prima volta il Giappone nel 1975, tredici anni dopo: quindi è probabile che gli autori abbiano visto il film, viste le somiglianze. Per cominciare, la giovane Elsa è vestita praticamente come Venusia, colori a parte. E lavora in una fattoria come lei.

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    Il padre di Elsa, Joshua, è vestito di nero, ha un cappello nero, è di umore nero. E' ridicolmente "cattivo", proprio come Rigel, il padre di Venusia.

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    Elsa, per far colpo sui tre nuovi arrivati (soprattutto sul più giovane) si veste di rosa. Come Mineo o Naida.

    AOK


    E il padre la guarda MALISSIMO. Come Rigel. ^_^

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    Poi arriviamo al momento clou tra Elsa e il giovane Heck. Tra l'altro, "Heck" sta per "diamine, cavolo, accidenti": insomma, è un'esclamazione, non un nome. A volte significa anche zotico, rozzo, campagnolo. Comunque, "Heck" è il soprannome del ragazzo, non il nome (quindi ha come soprannome un insulto... :huh: ) Va bè, comunque "Heck" ha un nome vero sconosciuto, e qui lo si potrebbe richiamare a Duke Fleed, ma siamo alla parodia... ^_^

    Comunque, Elsa, di notte, si avvicina a Heck per parlargli. E lui è disteso su una balla di fieno. Non vi ricorda niente questa scena? Forse quella dell'episodio 3 di Goldrake? ^_^

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    Heck amoreggia con Elsa, scherzando con lei e mettendole sotto il naso una spiga di fieno. Non vi ricorda niente questa scena? Forse quella del famoso episodio di Naida?

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    Poi arriva Rigel, pardon, il padre di Elsa, Joshua, che li scopre e sta per dare un sacco e una sporta al povero Heck. Proprio come stava per fare Rigel, che, anzi, Actarus lui lo voleva impiccare! ^_^ Nel film arrivano i due compari di Heck e mettono pace alla discussione, calmando gli animi.

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    Poi il film va per la sua strada. Ma queste scene mi erano rimaste impresse, perchè richiamavano letteralmente le stesse scene descritte in Goldrake. D'altra parte, Goldrake è una storia di fantascienza sì, ma ambientata in un contesto western...quindi ci sta che gli autori qualche film western lo avranno visto, per documentarsi un pò. E credo proprio che abbiano visto, tra gli altri, Sfida sull'Alta Sierra, che era arrivato anche in Giappone.. ^_^
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    PARADISO CANTO 15 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - L'AVO CACCIAGUIDA (seconda parte)

    Dante-1
    Il Cielo di Marte dei Combattenti per la fede, dalla Divina Commedia di Nagai.



    CACCIAGUIDA INVITA DANTE A PARLARE

    Quando Cacciaguida - che Dante non ha ancora riconosciuto - nella prima parte di questo Canto ha finito di dire la sua terzina in latino, Dante, sorpreso per le parole dello spirito, si volta verso Beatrice e rimane doppiamente stupefatto: sia per quello che ha detto Cacciaguida nel salutarlo, che per l'ardente bellezza degli occhi della donna, che contengono un sorriso tale da far sprofondare nella beatitudine il poeta.

    Cacciaguida riprende a parlare: ma l'ardore della sua carità, della sua gioia e della sua felicità nel vedere in Paradiso il suo discendente Dante gli fa dire delle cose talmente profonde che Dante non può capire, perchè si tratta di concetti che vanno oltre l'umano. Quando Cacciaguida ha finito di esprimere la sua grande gioia, in quel momento scende al limite della nostra ragione umana e, per prima cosa, loda Dio per quello che vede: "Benedetto sia tu, o Dio uno e trino, che sei tanto cortese verso il mio discendente!" (da notare l'ennesimo richiamo alla Trinità):

    la prima cosa che per me s’intese,
    «Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
    che nel mio seme se’ tanto cortese!».

    Poi Cacciaguida si rivolge a Dante, dicendogli: "Tu, o figlio (cioè "discendente"), hai finalmente esaudito, in questa luce divina in cui ti parlo, il gradito e lontano desiderio che avevo espresso (cioè quello di vederti), leggendo dal gran volume (cioè dalla mente divina), dove ogni cosa è immutabile; e hai esaudito questo mio desiderio, grazie a Beatrice, che ti ha dato le ali per questo alto volo (cioè, ti ha condotto fin qui):

    E seguì: «Grato e lontano digiuno, (e seguì: "(Il mio) gradito e lontano desiderio)
    tratto leggendo del magno volume (che avevo espresso, leggendo dalla mente di Dio (il "magno volume")
    du’ non si muta mai bianco né bruno, (dove non si cambia il bianco nè il bruno (cioè, dove tutto è immutabile)

    solvuto hai, figlio, dentro a questo lume (hai esaudito, o figlio, in questa grande luce)
    in ch’io ti parlo, mercè di colei (in cui ti parlo, (e questo) grazie a colei (Beatrice)
    ch’a l’alto volo ti vestì le piume." (che per l'alto volo ti diede le piume.")

    Cacciaguida continua: "Tu, Dante, ritieni, e giustamente, che il tuo pensiero venga a me da quello divino", cioè: per grazia di Dio, io posso leggerti nella mente, "così come dall'uno, cioè Dio, se lo si conosce, derivano il cinque e il sei". Cioè: se si conosce Dio, l'Uno, da questa conoscenza derivano "il cinque e il sei", cioè tutti gli altri numeri, i pensieri di tutti, in sostanza. E' come dire che, quando si ama Dio, si amano di conseguenza tutti gli altri, tanto da sapere benissimo quello che pensano. Questo è amore, più che telepatia.

    "Per questo" continua l'avo "visto che sai che ti posso leggere nella mente, non mi chiedi direttamente chi sono, nè perché io sembri più felice di tutti gli altri per la tua presenza qui." Ed è vero:

    Tu credi ‘l vero; ché i minori e ‘ grandi (Tu pensi il vero; infatti le anime più e meno beate)
    di questa vita miran ne lo speglio (del Paradiso osservano nello specchio (la mente divina)
    in che, prima che pensi, il pensier pandi; (nella quale, prima ancora che tu pensi, si riflette il tuo pensiero; )

    Tuttavia, Cacciaguida invita lo stesso Dante a parlare con la sua bocca, per fargli quelle domande che lui già sa: così, il suo ardore di carità si manifesterà in modo più completo.

    CACCIAGUIDA SI PRESENTA

    Dante rivolge allora lo sguardo a Beatrice per chiederle se può parlare: lei, naturalmente, sa già la sua richiesta prima ancora che lui lo faccia e gli dà un cenno d'assenso, con un sorriso che fa crescere le ali al suo desiderio di rivolgersi a Cacciaguida.

    Allora il poeta dice al beato che, nelle anime del Paradiso, il sentimento è pari all'intelligenza: Dio, infatti, li ha elevati a una tale altezza che, per loro, conoscere e amare è la stessa cosa. Ma, per i mortali come Dante, che sono ancora imperfetti, non è così: quindi, il poeta dice che può ringraziare lo spirito solamente col proprio cuore per la festosa accoglienza ricevuta, invece che anche con l'intelletto.

    Poi lo supplica di rivelargli il proprio nome, chiamandolo "splendente topazio, che sei incastonato questo prezioso gioiello (la croce)": "vivo topazio / che questa gioia preziosa ingemmi".

    Lo spirito risponde, chiamandolo "O fronda mia", cioè "O mio discendente", e gli dice che è compiaciuto di lui mentre lo aspettava. Si presenta innanzitutto come suo antenato: anzi, come il capostipite della sua famiglia ("io fui la tua radice"). Quindi, fu con Cacciaguida che iniziò la dinastia illustre degli Alighieri.

    Poi continua parlando di suo figlio, Alighiero I, bisnonno di Dante (Cacciaguida infatti è il trisavolo, o trisnonno, di Dante), da cui era iniziato il nome della sua dinastia. Cacciaguida dice che suo figlio Alighiero I, da tempo, si trova in Purgatorio (Dante, curiosamente, non l'aveva incontrato) e gli chiede di pregare per lui: "Colui dal quale deriva il tuo cognome e che gira da più di cent'anni nella I Cornice del Purgatorio, fu mio figlio e tuo bisnonno: è opportuno che tu abbrevi la sua lunga fatica con le tue preghiere."

    Enea
    Enea incontra Anchise, suo padre, nell'Aldilà: è stato il modello dell'incontro tra Dante e Cacciaguida.



    IL DIVERSO DESTINO DEI PARENTI DI DANTE

    E' da notare che nella Divina Commedia Dante ha: un parente all'Inferno, Geri del Bello; un altro in Purgatorio e appena descritto qui, Alighiero I; e appunto il parente in Paradiso, Cacciaguida.

    Geri del Bello è nell'Ottavo Cerchio (detto Malebolge) dell'Inferno, quello dei Fraudolenti: più precisamente, è nella Nona Bolgia, quella dei Seminatori di discordie, ed è accennato nel Canto 29 dell'Inferno. Dante nemmeno parla con Geri del Bello, quindi non è facile ricordarselo. Inoltre, Geri non saluta nemmeno Dante, come fa Cacciaguida: invece, lo accusa puntandogli contro il dito, senza dir nulla, perchè Dante non ha vendicato la sua morte. Infatti, nell'Inferno c'è solo l'accusa: senza contare che qui Dante condanna anche la vendetta per l'uccisione dei parenti. Geri del Bello era il cugino di Alighiero II, il padre di Dante: fu accusato di rissa e percosse in un processo a Prato (infatti Geri è tra i seminatori di discordie). Sembra che l'assassino di Geri sia stato un certo Brodaio dei Sacchetti (il nome della famiglia), e la sua morte fu vendicata trent'anni dopo, con l'omicidio di uno dei Sacchetti. La riconciliazione tra gli Alighieri e i Sacchetti avvenne solo molti anni dopo per volontà delle autorità, tanto furono lunghi e profondi gli odi familiari.

    Alighiero I, figlio di Cacciaguida e bisnonno del poeta, come abbiamo detto, da più di un secolo è nella Prima Cornice del Purgatorio, cioè quella dei Superbi. Il suo nome, che poi divenne il cognome di Dante, deriva da quello degli Aldighieri, che era la famiglia della moglie di Cacciaguida.

    CACCIAGUIDA RIEVOCA LA FIRENZE ANTICA

    Successivamente, prima ancora di dire il suo nome, Cacciaguida descrive a Dante la Firenze in cui era vissuto ai suoi tempi:

    Fiorenza dentro da la cerchia antica, (Ai miei tempi) Firenze era ancora racchiusa nell'antica cinta muraria,)
    ond’ella toglie ancora e terza e nona, (da dove sente ancora le ore canoniche (dalla chiesa di Badia)
    si stava in pace, sobria e pudica. (e se ne stava in pace, sobria e morigerata.)

    Cacciaguida dice che Firenze ai suoi tempi era ancora circondata dalla vecchia cinta muraria, che risale all'anno 900-1000 ed era assai più ristretta di quella dei tempi di Dante (1300), realizzata nel 1173, dopo la morte di Cacciaguida. La "terza" (ore 9 del mattino) e "nona" (ore 15 del pomeriggio) erano le ore canoniche, cioè le ore della preghiera in comune. Cacciaguida fa riferimento all'antica chiesa di Badia. E perchè Cacciaguida ricorda proprio queste due ore? Perchè erano le ore della giornata in cui si iniziava e si finiva il lavoro.

    CHIESA DI BADIA

    Chiesa-Badia


    Si tratta dell'abbazia benedettina di Santa Maria a Firenze, meglio conosciuta come Badia Fiorentina. E' un importante luogo di culto cattolico del centro storico di Firenze; è intitolato alla Vergine Maria. "Badia" è una contrazione popolare della parola "abbazia". A Firenze e dintorni sono esistite cinque abbazie benedettine, situate come ai punti cardinali della città: a nord la Badia Fiesolana, a ovest la Badia a Settimo, a sud l'abbazia di San Miniato, a est la Badia a Ripoli e al centro, appunto, la Badia Fiorentina, l'abbazia per eccellenza di Firenze, frequentata anche da Cacciaguida. Proprio qui, secondo la Vita Nova, Dante vide Beatrice per la prima volta, durante una messa. In seguito, dopo la pubblicazione della Commedia, Boccaccio tenne nell'aula di Santo Stefano, nella Badia Fiorentina, la prima delle celebri letture della Divina Commedia.

    CACCIAGUIDA LODA LA FIRENZE DI UN TEMPO

    Le donne della Firenze dei suoi tempi, continua Cacciaguida, non esibivano sfarzi esagerati come le catenelle, le corone, le gonne ricamate, le cinture, che diventavano più appariscenti della persona ("che fosse a veder più che la persona."). Le figlie, nascendo, non facevano paura al padre per l'uso di sposarsi precocemente e per l'ampiezza della dote (cioè: non facevano dei matrimoni sfrenati oltre ogni misura, nè ridicolaggini e sfarzi ostentati in modo volgare):

    Non faceva, nascendo, ancor paura (La figlia, nascendo, non faceva ancora paura al padre,)
    la figlia al padre, che ‘l tempo e la dote (poiché l'età delle nozze e l'entità della dote)
    non fuggien quinci e quindi la misura. (non erano ancora sproporzionate (oggi le ragazze si sposano presto e con dote eccessiva).

    Inoltre, in città non c'erano case troppo grandi e vuote per il lusso, né i cittadini si davano alla lussuria imitando Sardanapalo1 come invece fanno nella Firenze attuale. Cacciaguida continua coi suoi paragoni, dicendo che il monte Uccellatoio, che sorge alle porte di Firenze, non aveva ancora sormontato il Monte Mario a Roma: questo monte, coi suoi 140 metri d'altezza, è il rilievo più imponente di Roma e uno dei punti più panoramici della città.

    Cacciaguida vuole dire che Firenze, a quei tempi - simboleggiata dal monte Uccellatoio - non aveva ancora raggiunto il grande fasto e decadenza che ha avuto Roma, simboleggiata dal Monte Mario. All'imponenza della Firenze di adesso, cioè quella dei tempi di Dante, seguirà un rapido declino, proprio come accadde a Roma:

    Non era vinto ancora Montemalo (Monte Mario a Roma non era ancora superato)
    dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto (dal vostro monte Uccellatoio, il quale sarà superato)
    nel montar sù, così sarà nel calo. (sia nel crescere sia nella rapida decadenza (Firenze declinerà in fretta come l'antica Roma).

    Cacciaguida vide Bellincione Berti, illustre fiorentino di allora, andare in giro vestito in modo semplice, mentre sua moglie non si ricopriva certo il volto di belletti; altri illustri cittadini (i Nerli e i Vecchietti) si accontentavano di vesti di pelle, mentre le loro spose stavano in casa a lavorare al telaio. Le donne di Firenze a quel tempo erano certe di non morire in esilio, ma in patria; nemmeno erano abbandonate dai mariti, che non andavano fino in Francia a commerciare come i mariti della Firenze attuale. Si dedicavano ad allevare i figli, a filare la lana, a raccontare le leggende della fondazione di Firenze da parte dei Romani.

    A quei tempi antichi, conclude Cacciaguida, tutti sarebbero rimasti stupiti da certe sfacciate donne fiorentine dei tempi di Dante (come Cianghella, famosa per la sua vita dissoluta, e Lapo Salterello, giurista di corrotti costumi). Proprio come oggi i fiorentini depravati dei tempi di Dante rimarrebbero sconvolti davanti a persone di grande virtù come furono Cincinnato (il celebre dittatore romano che vinse gli Equi e poi tornò ad arare il suo campo) e Cornelia (figlia di Scipione l'Africano e madre dei Gracchi, esempio di virtù e onestà per le donne di Roma: Dante, anzi, la mette tra gli "spiriti magni" del Limbo (Quarto Canto dell'Inferno)

    CACCIAGUIDA RIVELA IL SUO NOME E LA SUA STORIA

    Infine, Cacciaguida rivela il suo nome: dice di essere nato in quella bella città di allora, partorito dalla madre, che nelle doglie invocava il nome di Maria, poi fu battezzato nel Battistero di Firenze col nome di Cacciaguida. Si pensa che Cacciaguida sia nato nel 1091 e la sua morte avvenne nel 1148, durante la Seconda Crociata.

    A così riposato, a così bello (In una convivenza così pacifica e bella,)
    viver di cittadini, a così fida (in una comunità così unita di cittadini,)
    cittadinanza, a così dolce ostello, (in una così bella dimora)

    Maria mi diè, chiamata in alte grida; (mi fece nascere mia madre, invocando Maria nelle grida del parto; )
    e ne l’antico vostro Batisteo (e nel vostro antico Battistero di S. Giovanni (di Firenze)
    insieme fui cristiano e Cacciaguida. (fui battezzato col nome di Cacciaguida.)

    Cacciaguida presenta anche la sua famiglia: ebbe due fratelli, Moronto ed Eliseo, e sposò una donna proveniente dalla Val Padana, il cui cognome, Alighieri, è quello ora portato da Dante. Secondo alcuni studiosi, la moglie di Cacciaguida veniva da Ferrara e apparteneva alla famiglia degli Aldighieri. Non si sa perchè il cognome della moglie fu poi trasmesso ai figli.

    In seguito, Cacciaguida seguì l'imperatore Corrado III2 nella Seconda Crociata (1147-1149), dopo che il sovrano lo aveva investito cavaliere, per il suo retto operare. Andò dunque a combattere contro gli infedeli in Terrasanta, usurpata dai popoli islamici a causa della trascuratezza dei papi. Dagli infedeli fu poi ucciso in battaglia (probabilmente nella battaglia campale di Dorileo, in Turchia) e da quella morte giunse alla pace del Paradiso.

    Poi seguitai lo ‘mperador Currado; (Poi seguii l'imperatore Corrado III;)
    ed el mi cinse de la sua milizia, (ed egli mi fece cavaliere,)
    tanto per bene ovrar li venni in grado. (a tal punto gli piacqui con il mio retto operare.)

    Corrado-III
    Re Corrado III di Svevia: fu il re sotto il quale Cacciaguida combattè. Aveva anche il titolo di Imperatore ("lo 'mperador Currado"), ma non gli fu mai riconosciuto.


    Dietro li andai incontro a la nequizia (Lo seguii in Terrasanta, contro la malvagità)
    di quella legge il cui popolo usurpa, (di quella religione (l'Islam) il cui popolo usurpa quei luoghi,)
    per colpa d’i pastor, vostra giustizia. (a causa della trascuratezza dei pontefici.)

    Come si vede, Cacciaguida, essendo stato combattente, non ci va leggero coi musulmani: parla di "religione malvagia", perchè ostacola quella vera di Cristo, e dell'usurpazione dei luoghi santi (infatti furono i cristiani i primi ad abitare in Terra Santa, non i musulmani: quindi la loro fu effettivamente un'usurpazione). Inoltre, Cacciaguida critica il Papa (non quello dei suoi tempi, ma quello dei tempi di Dante, Bonifacio VIII) perchè ha abbandonato l'idea di riconquistare la Terra Santa, istituendo il Giubileo nel 1300: in questo modo, il pellegrinaggio a Gerusalemme fu sostituito per sempre col pellegrinaggio a Roma. Era come dire che ormai Gerusalemme è da considerare inespugnabile e consegnata per sempre in mano ai musulmani. Non si ha l'idea della sensazione di disfatta e sconfitta che provarono i cristiani di allora, come Dante, nel sapere questa triste verità, alla quale dovettero rassegnarsi: Gerusalemme non era più cristiana.

    Quivi fu’ io da quella gente turpa (Lì quella gente maledetta)
    disviluppato dal mondo fallace, (mi strappò dal mondo fallace (mi uccise),
    lo cui amor molt’anime deturpa; (il cui amore svia molte anime;)

    Cacciaguida attacca ancora i musulmani, chiamandoli "gente turpa", cioè "maledetta", dice il traduttore, che però è un eufemismo. "Turpe", infatti, significa: moralmente vergognoso, che offende gravemente la dignità, l’onestà e il pudore; sconcio, sozzo, ributtante (per esempio: un’azione turpe; parole, atti, gesti turpi; una turpe proposta; voleva così soddisfare le sue turpe voglie; uomo, donna di turpi costumi; un turpe individuo; "un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia" (Manzoni). Sono termini pesanti, quelli che usa Cacciaguida, che però richiamano la violenza guerresca che c'era a quei tempi. Lì si combatteva sul serio e si moriva sul serio. Quindi non c'erano eufemismi tra di loro. Anche i musulmani non ci andavano leggeri coi cristiani, definendoli "giaurri", cioè "sporchi infedeli".

    e venni dal martiro a questa pace». (e venni da quel martirio direttamente a questa pace».)

    Nella morte violenta per amore di Cristo, vengono espiati tutti i peccati e si raggiunge subito il Paradiso, senza passare per il Purgatorio: è quello che è successo a Cacciaguida e a tutti i martiri per la fede.

    COMMENTO

    Il Canto apre il «trittico» dedicato al personaggio di Cacciaguida e inaugura l'importante discorso relativo alla missione civile e poetica di Dante, non a caso collocato in posizione centrale nella Cantica e nell'intero poema.

    In particolare, questo Canto è caratterizzato da un linguaggio solenne e stilisticamente prezioso, con una fitta serie di rimandi alla classicità e al testo biblico che innalzano notevolmente il tono del dialogo fra il poeta e il suo avo.

    E' evidente il parallelismo tra Anchise e Cacciaguida, che infatti saluta il suo discendente con l'espressione latina sanguis meus, che è ripresa letteralmente dall'Eneide.

    Nel prossimo Canto 17, Cacciaguida profetizzerà a Dante il suo futuro esilio, investendolo quindi della sua missione, proprio come Anchise fa col figlio Enea, che dovrà fondare Roma.

    L'incontro fra Dante e Cacciaguida ha quindi un'importanza che va al di là dell'ambito personale e familiare, in cui potrebbe sembrare circoscritto, e investe la sostanza stessa del poema, con la definizione della missione sacrale di cui il poeta si sente investito e la cui dichiarazione solenne affida all'anima di questo suo oscuro antenato, scelto in quanto martire morto combattendo per la fede e vissuto in una Firenze molto diversa da quella attuale, da cui Dante sarà esiliato.

    La rievocazione della Firenze ideale di Cacciaguida richiama l'accusa di Forese Donati (canto 13 del Purgatorio).

    Il paragone tra Firenze e Roma è significativo, perchè Dante riteneva che gli abitanti della sua città di sangue «puro» discendessero proprio dai Romani, mentre quelli venuti da Fiesole, e in seguito inurbatisi dal contado, avevano contaminato questa originaria purezza, portando in città l'avidità di guadagno, che tutto aveva corrotto. E' anche la tesi sostenuta da Brunetto Latini nel Canto 15 dell'Inferno.

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xv.html

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    1 Sardanapalo: Re di Assiria del quale favoleggiarono i Greci, identificato con Assurbanipal. La leggenda di Sardanapalo è riferita da numerosi scrittori greci: per esempio, secondo Diodoro, egli sarebbe stato l'ultimo di una serie di trenta re dell'Assiria, e anche il più depravato di tutti. Infatti, Sardanapalo sarebbe vissuto anche come una donna, dedito ai piaceri della gola e della lussuria. Dopo esser riuscito a vincere ripetutamente i numerosi ribelli, fu alla fine assediato nella capitale: si fece bruciare insieme ai familiari e ai suoi tesori. La sua iscrizione funeraria invitava i passanti a mangiare, bere e amare, cioè a godersi la vita senza alcun freno. Visse nel lusso più sfrenato, circondato da comodità, mollezze e piaceri.

    Sardanapalo
    La morte di Sardanapalo, di Eugene Delacroix. Una volta resosi conto della sconfitta imminente, Sardanapalo preferì morire insieme a tutti i suoi averi, piuttosto che consegnarsi ai rivoltosi che stavano assediando il suo palazzo. Le donne dell'harem sono disperate e stanno per essere uccise senza pietà da alcuni uomini al servizio del re; una concubina, accasciata sul letto dove siede Sardanapalo, è già morta. Neanche il cavallo prediletto dal re riesce a sfuggire alla morte. Anche la morte fu un eccesso per lui.


    2 Corrado III: "Lo 'mperador Currado", come lo chiama Cacciaguida, è il re tedesco Corrado III di Svevia (o di Hohenstaufen): regnò tra il 1138 e il 1152. Nel 1146 ascoltò San Bernardo di Chiaravalle predicare la Seconda Crociata (a quei tempi, Gerusalemme era assediata dai Turchi musulmani, che volevano espugnarla, sterminare lì tutti i cristiani, distruggere tutte le chiese, compreso il Santo Sepolcro, ed edificarci al loro posto le moschee per adorare Allah). Corrado partì col re francese Luigi VII per la Terrasanta. Tuttavia, fu sconfitto dai Turchi a Dorileo, in Turchia. Corrado sopravvisse e riuscì a raggiungere Gerusalemme, nonostante l'assedio dai Turchi. Insieme con gli altri crociati, cercò di espugnare Damasco, la roccaforte dei Turchi: ma l'impresa non riuscì e la Seconda Crociata finì con un fallimento. Corrado ritornò in Germania, dove morì.

    Edited by joe 7 - 9/3/2024, 21:43
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    33 - IL CUGINO DI PELINE

    Si vedono gli altiforni della fabbrica, alle prime luci del mattino. Peline va al lavoro e dice a Barone di stare a guardia della casa. Ma il cane, stavolta, insiste a seguire Peline, anche se lei continua a dirgli di non farlo e di tornare a casa.
    "Cosa c'è, Aurelie?" chiede Rosalie, che stava arrivando.
    "Non lo so. Barone continua a seguirmi, anche se gli dico di non farlo. E' strano, non ha mai fatto così."
    "Sarà stanco di stare sempre da solo tutto il giorno."
    "Può darsi."
    Alla fine, Barone si allontana e Peline, sollevata, va alla fabbrica.

    a6 b2


    Intanto, Theodore, il nipote di Pandavoine (e cugino di Peline, anche se lui non lo sa), corre di nuovo, perchè è ancora in ritardo per il lavoro, e, nella fretta, lascia cadere per strada il suo portafoglio. Barone lo raccoglie e lo porta via. Theodore entra in fabbrica di nuovo in ritardo.

    Rosalie riprende il suo lavoro e Peline ricomincia col lavoro al carrello. Intanto, l'ingegner Fabry dice a Theodore, che sta visitando la fabbrica, che bisognerebbe prendere delle macchine nuove: alcune sono così vecchie che si rompono in continuazione. Ma Theodore non ne è convinto. Osservano i filari 1 e 6, che rendono poco, perchè si guastano facilmente.
    "Erano stati i primi ad essere installati" spiega Fabry "Ora sono troppo vecchi."
    Theodore non ne è impressionato e pensa che potrebbero funzionare ancora, anziché spendere soldi inutilmente.
    "Ma così si rallenta la produzione!" protesta Fabry.

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    Peline chiede a Fabry come sta il signor Bendit, il traduttore che lei aveva portato in ospedale.
    "Sta migliorando, grazie, ma dovrà ancora stare lì per dei mesi."
    Quando Peline se ne va, Theodore, seccato, pensa di licenziare Bendit, visto che adesso non serve più.
    "Ma non è una cosa giusta da fare, signor Theodore! Il signor Bendit ha sempre lavorato qui..."
    "Nessuno è indispensabile, ingegner Fabry. Neanche lei, se lo tenga bene in mente."

    Ad un certo punto, Theodore si mette la mano in tasca per prendere il portafoglio e si rende conto che non ce l'ha più: in quel momento, Barone lo sta mordendo sull'erba della casetta di Peline.

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    Theodore fa controllare tutti gli operai per trovare il portafoglio, e, visto che nessuno di loro ammette di averlo preso, ordina di perquisirli a uno a uno. L'ingegner Fabry va da Toluel, il direttore della fabbrica, a protestare:
    "Non potete trattare gli operai come se fossero una banda di delinquenti!"
    "Non poso farci niente."
    "Parlerò col signor Pandavoine, allora!"
    "Si occupi delle proprie cose, ingegnere."
    Ma arriva Vulfran Pandavoine in persona.
    "Cosa sono questi schiamazzi? Li sento anche fuori. Toluel, si spieghi."

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    Intanto, Theodore ordina a Peline di perquisire le operaie per conto suo: ma lei si rifiuta di farlo.
    "Bè, allora sarai licenziata" risponde lui.
    Il capomastro Oreux cerca di convincere Peline, ma non ci riesce. Ad un certo punto, Toluel va da Theodore e gli dice:
    "Signor Theodore, lei deve andare dal signor Pandavoine, subito!"
    "Va bene, dopo che avrò fatto perquisire gli operai."
    "No. Adesso. Subito. Il signor Pandavoine ha detto di lasciar stare gli operai."
    "Eh?"
    Theodore è sorpreso, ma va con Toluel. Oreaux dice agli operai di tornare al lavoro, e gli altri, seccati per il trattamento ricevuto, tornano con poco entusiasmo al posto di lavoro.

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    Dopo il lavoro, Rosalie brontola con Peline:
    "Se Theodore prenderà il posto del signor Pandavoine, sarà un disastro."
    "Ma lui chi è? Un parente del signor Pandavoine?"
    "Sì, è il nipote. E' il figlio della sorella del signor Pandavoine. E' anche il cugino di Edmond, il figlio di Pandavoine."
    Cioè il padre di Peline. Quindi, Theodore è il cugino di secondo grado di Peline.

    Peline saluta Rosalie e torna alla sua casetta, dove saluta Barone. Inizia a pescare, mentre Barone dà ancora la caccia agli aironi. Arriva l'ingegner Fabry:
    "Per quello che hai fatto l'altro giorno per il signor Bendit, ti vorrei regalare questa lampada. E anche questo libro."
    Si tratta dei "Miserabili", che Fabry aveva mostrato a lei e a Rosalie.
    "E' un bellissimo regalo, ingegner Fabry, grazie. Stasera lo leggerò subito!"
    "Posso pescare io? A pesca sono un campione."
    "Va bene. Volete cenare con me?"
    "OK, io intanto penserò al pesce."
    "Stasera potrò leggere questo bel libro."

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    Iniziano a mangiare il pesce.
    "Volete dare a me il pesce che avete pescato?" chiede Peline.
    "No, è troppo piccolo."
    "Va bene così, non ho tanta fame."
    "Se possibile, potrei sapere perchè sei venuta a Maraucourt? Potrei darti una mano."
    "Ecco, è una storia lunga."
    "Con chi hai viaggiato?"
    "Beh, coi miei genitori."

    Mentre Peline inizia a raccontare, a casa di Vulfran Pandavoine, il maggiordomo Barton serve il padrone, ma lui non ha molto appetito.
    "Ma, signor Vulfran, dovreste mangiare qualcosa, vi farà bene."
    "Sarebbe meglio mangiare in compagnia."
    "Volete cenare col signor Theodore?"
    "Idiota!" sbotta lui.
    "Mi scusi."
    "Ma no, non mi riferivo a te, Barton. Parlavo di mio nipote. Preferirei cenare con una scimmia piuttosto che con lui."

    Vulfran Pandavoine si alza e percorre le scale per andare in camera sua. Si ferma davanti al quadro di suo figlio Edmond: anche se è cieco, sa dove si trova.
    "Figlio mio, chissà dove ti trovi? Ormai ti ho perdonato, torna da me."

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    Intanto, Peline finisce il racconto.
    "Quindi, tu cercavi un parente qui a Maraucourt, e pensi che non possa accoglierti bene, per via del fatto che lui era in conflitto coi tuoi genitori?" riassume Fabry.
    "E' così" annuisce Peline.
    "Secondo me, dovresti almeno parlargli. Qui ti trovi bene perchè siamo ancora nella bella stagione, ma poi arriverà l'autunno e poi l'inverno. Farà freddo e, tra l'altro, arriveranno qui i cacciatori: ti troverai senza una casa. Dovresti andare dal tuo parente: se ti dovesse trattar male, ti aiuterò."
    "Grazie, ingegner Fabry, ci devo pensare bene. Le farò sapere."

    Mentre Fabry sta per andarsene, trovano il portafoglio di Theodore e capiscono che l'aveva portato lì Barone.

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    Riportano il portafoglio a Theodore. Lui lo apre e controlla con diffidenza le banconote.
    "Hmm...sembra che non manchi niente. E' bagnato, però" dice lui.
    "L'aveva preso il mio cane."
    "Oh, il tuo cane ruba?"
    "Non dica sciocchezze, signor Theodore. Dovreste invece ringraziare la signorina Aurelie che le ha riportato il portafoglio" protesta Fabry. "Ma che state a dire, ingeger Fabry?"
    Stanno per venire alle mani, ma Peline si mette di mezzo:
    "Si calmi, ingegner Fabry. Abbiamo riportato i soldi, ora è tutto a posto, possiamo andare."
    Fabry si allontana seccato e Theodore grida loro dietro:
    "Ricordatevi di chiudere il cancello!"
    Fabry lo chiude con forza, sbattendolo, senza nemmeno voltarsi.

    Fabry e Peline si salutano:
    "Domani dovrò andare in Inghilterra per 15 giorni" dice lui.
    "Mi dispiace, faccia buon viaggio."
    "Grazie" e si allontana.

    Ormai siamo quasi in autunno: Peline dovrà lasciare il padiglione e dovrà parlare col nonno. E' indecisa. Torna nella sua casa e si addormenta.

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    COMMENTO

    La somiglianza fisica di Theodore con Totò è impressionante: non ho gli elementi per dirlo, ma credo che sia probabile che Shuichi Seki, il character designer, si sia basato su di lui per realizzare il personaggio. La documentazione sull'ambiente delle fabbriche di fine '800 è notevole. Avranno fatto molte ricerche e accumulato molta documentazione per ottenere delle immagini così precise.

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  4. .
    25 - TANTI PANINI BIANCHI

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    Heidi sogna Peter, la nonna e Brigida che mangiano i panini bianchi che Heidi le porta in continuazione su una tavola imbandita in mezzo al prato. Anche Nebbia e gli altri animali li mangiano. All'improvviso sente bussare: è Tinette, che la chiama per la colazione. E aggiunge:
    "La signorina Rottenmeier è di pessimo umore da quando lei è scappata e questo si riflette su di noi."
    Dopo che se n'è andata, Heidi contempla i panini bianchi che ha messo di nascosto in fondo all'armadio.

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    Intanto, la Rottenmeier parla col maestro a proposito di Heidi:
    "Non capisco, per me quella bambina non è normale."
    "E' intelligente" commenta il maestro "ma è strano che non conosca l'alfabeto."
    "Ho paura che lei non sia adatta come compagnia per la signorina Clara. Le rovinerà l'educazione" e sta per piangere: il maestro cerca di calmarla.
    Poi lei beve il caffè, ma fa subito una smorfia di disgusto: parlando aveva continuato a mettere lo zucchero dentro, trasformando il caffè in una brodaglia dolce.

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    Durante la lezione, il maestro prova ad insegnare l'alfabeto ad Heidi, senza ottenere dei grandi risultati. Il maestro fa leggere ad Heidi una lettera dell'alfabeto, chiedendole di provare a scriverle sul quaderno. Heidi, nel provare a scriverle, fa una lettera R che somiglia ad uno stambecco. Inizia a fantasticare e la vede volare via e lei insieme a lui, insieme alle altre lettere, che volano lontano da Francoforte in mezzo al cielo e vanno verso i monti: li raggiunge e scende, osservando i veri stambecchi. Poi saluta le lettere che si allontanano, ringraziandole. E si trova in piedi sul tavolo da studio, davanti agli occhi stupefatti di tutti. Torna a sedersi e spiega a Clara:
    "Ho sognato."
    "A occhi aperti, e in pieno giorno?"
    "Sì, certo, perchè?"

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    Sebastiano entra e dà una lettera alla Rottenmeier: domani arriverà il signor Sesemann, il padre di Clara. La ragazza è molto contenta e dice a Heidi:
    "Papà ti piacerà, vedrai. E' molto buono. L'ultima volta è restato solo tre giorni. Mi racconta tante storie. Puoi anche raccontargli tu le tue."
    "Tuo padre ti vuole bene come il papà ai figli?"
    Clara è sorpresa dalla domanda e risponde:
    "Certo che mi vuole bene, me lo dice e mi porta dei regali. Ma è perchè io gli voglio bene e lui vuole bene a me."
    "Sono curiosa di conoscere questo tuo papà" risponde Heidi sorridendo.

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    Intanto, la Rottenmeier inizia le preparazioni per l'arrivo del padre di Clara e controlla che tutto sia in ordine: dice a Tinette di pulire le finestre. Vuole anche controllare di persona la camera di Heidi, per sicurezza, visto che la ragazzina per lei è un tipo problematico. Entra e osserva tutto, vede dentro i cassetti e commenta:
    "Almeno è ordinata."
    Poi apre l'armadio e lo richiude soddisfatta. Ma poco dopo sobbalza perchè ha notato qualcosa di assurdo. Riapre l'armadio e vede in basso stupefatta una montagna di panini bianchi: non crede ai suoi occhi.
    "Ma...panini? Una valanga di panini! Tutti duri come sassi!" e sviene.
    Poi chiama Tinette e le dice di portare via tutto.

    Heidi sente le voci, capisce tutto e grida:
    "No, sono i panini della nonna!" e picchia sulla porta.
    Ma è inutile: vengono portati via, mentre la Rottenmeier le dice che lo farà sapere al signor Sesemann. Heidi piange, e Clara cerca di consolarla:
    "Heidi, quei panini erano troppo vecchi e duri...erano diventati immangiabili. Tua nonna non avrebbe mai potuto mangiarli. Stavolta la Rottenmeier aveva ragione: non sarebbero serviti a niente, purtroppo. Ti darò dei panini nuovi quando tornerai a casa..."

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    "Io non tornerò mai a casa!! Sbaglio sempre! Mi tolgono tutto! Non mi lasciano tornare a casa!"
    Heidi corre a piangere sul suo letto. Clara la segue: Heidi piange sotto le coperte.
    "Anch'io piangerei, ma non servirebbe a niente, Heidi...Vuoi dei giocattoli? Ti dò le cartoline che ti piacevano. Ti racconto una storia? Mio padre me ne aveva raccontata una molto bella."
    Heidi continua a piangere. Clara fa per andarsene, ma poi cambia idea e torna indietro.
    "Te la racconto lo stesso. C'era una volta mamma capra e i suoi capretti. Un giorno lei dice ai capretti: "Vado a fare la spesa. Non aprite, potrebbe essere il lupo". Dopo un pò, i capretti sentono bussare e una voce dice: "Sono la mamma." Ma era il lupo. (Heidi non risponde e Clara continua a raccontare)

    I capretti gli dicono di mostrare la zampa: riconoscono quella del lupo e non lo fanno entrare. Allora il lupo si cosparse la zampa di farina e tornò da loro: "Aprite, sono la mamma" "Mostraci la zampa" Il lupo mostrò la zampa bianca e i capretti credettero che fosse la mamma: ma era invece il lupo, che si mangiò tutti i capretti. "Aah, ho la pancia piena" disse e se ne andò. (Heidi non reagisce) Mamma capra tornò e capì cosa era successo: chiamò i capretti, ma nessuno rispose. Comparve solo quello più piccolo, che era scampato dal lupo. (Heidi non risponde) Andarono tutti e due dal lupo che dormiva".
    Clara si ferma. Heidi esce dalla coperta e chiede:
    "E poi?"

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    "Mamma capra sentiva dei rumori dentro la pancia del lupo: i capretti erano ancora vivi lì dentro. Prese delle forbici e tagliò la pancia del lupo, e i capretti uscirono da lì a uno a uno. Mamma capra mise delle pietre al posto dei capretti nella pancia del lupo e gli chiuse la pancia: il lupo non poteva sopportare le pietre e morì."
    Heidi si mette a ridere.
    "Però una capra può fare solo due caprette al massimo" osserva lei.
    "Vieni, andiamo in camera mia" dice Clara.
    "Mi dai davvero le cartoline?"
    "Certo. Allora mi ascoltavi!"
    E vanno nella camera di Clara.

    n6

  5. .
    ZOROBIN EGGHEAD ARC - 10

    Grazie all'utente Carl, posso aggiungere un paio di Zorobin molto interessanti, oltre ai precedenti descritti l'ultima volta: prima di tutto, Zoro e Robin, nelle due covercolor dei capitoli 1081 e 1084, sono gli unici a "portare qualcosa": Zoro, con lo scoiattolo e Robin, con la ragazza Koala (che è il nome di un animale, tra l'altro). Inoltre, sia lo scoiattolo che la ragazza Koala sono gli unici ad avere un'espressione di disagio: lo scoiattolo infatti è nervoso e Koala ha paura. D'altra parte, sono "la coppia demoniaca"...

    1081-dettaglio

    1084-dettaglio



    Inoltre, la posizione della mano di Zoro, addormentato, che accarezza Franky (covercolor cap. 1081), somiglia alla situazione tra Robin e Franky nella covercolor del capitolo 987, la scena famosa del "tradimento di Oda" che avevo descritto. La posizione delle mani e delle teste sono davvero simili: Zoro, insomma, fa la stessa mossa di Robin

    1081-dettaglio-2

    RF1



    Capitolo 1094: "JayGarcia Saturn, la Divinità Guerriera della Difesa Scientifica" - Covercolor
    Zoro qui usa la "En-ou Santoryu Ippyaku Sanjou Hiryu Jikoku", cioè: "Re dell'inferno, tre spade del dragone, le 130 (o 103) passioni del drago volante infernale". I numeri citati sono tre, uno, tre e zero. 3 + 1 + 3 + 0 fa 7, il numero di Robin, e lo zero richiama Zoro. Si veda qui.

    Inoltre, il nonno di Kuina, Shimotsuki Kozaburo, presente in basso a destra, ha un vestito con fiori viola: il fiore e il viola sono i simboli di Robin. E lui aveva anche forgiato Enma, la spada di Oden, che poi Zoro avrà in mano. Inoltre, la sua spada, la Wado Ichimonji, passerà prima alla nipote Kuina e poi a Zoro. Quindi, Kozaburo, qui, che ha due simboli di Robin (il fiore e il colore viola) ha anche dato due spade a Zoro: e due è il numero di Zoro. Inoltre, lo "Zabu" di Kozaburo significa tre, e tre sono le spade di Zoro. E' un personaggio legato a Zoro e a Robin, quindi.

    Come se non bastasse, abbiamo in alto, sopra Shimotsuki Kozaburo, suo figlio, Shimotsuki Koshiro, che ha i capelli neri e lunghi come quelli di Robin, col suo tipico sorriso e un paio di occhiali (che indica la lettura, una caratteristica di Robin). Shimotsuki, inoltre, contiene nel suo nome "Koshiro" la parola "shi", che significa quattro. Quindi, suo padre Kozaburo contiene il tre nel suo nome, e tutti e due insieme, padre e figlio, "3" + "4", fanno il numero 7, che è il numero di Robin.

    Accanto al nonno c'è la famosa nipote Kuina, la ragazza a cui Zoro era legato: un implicito legame a Robin, col quale lui è ora legato. Inoltre, "Kuina" è il nome di un uccello, e l'uccello è il simbolo di Robin.

    Inoltre, le spade presenti in tutta la covercolor sono sette: il numero di Robin.

    Infine, l'utente Carl ha suggerito che Il Colorspread di Zoro è stato rilasciato nel capitolo 1094: se si sommano i numeri (1+0+9 +4) si ottiene 14, e, se si divide 14 per 2 (il numero di Zoro) si ottiene 7 (il numero di Robin). Può apparire cervellotico, ma è nello stile di Oda.

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    Capitolo 1100: "Grazie, Bonney"
    Kuma diventerà il "terrore dei pirati" della Flotta dei Sette, proprio come Zoro diventerà il cacciatore di pirati, ed è temutissimo; e "sette" è il numero di Robin. Ed è stato Zoro ad affrontare Kuma e a salvare, tra gli altri, anche Robin. E' una delle tante connessioni implicite Zorobin diffuse nel manga.

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    Edited by joe 7 - 22/2/2024, 16:46
  6. .
    DR. STONE - VOTO: 8/9 - QUI SI CONCLUDE LA STORIA
    Senku (Dr. Stone): "Al diecimila per cento questo sarà possibile per la scienza!"

    Trama: Richiro Inagaki
    Disegni: Boichi
    Casa editrice: Star Comics

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    Ultimo numero!


    Dr. Stone ci lascia. Nel 2023 sono usciti i volumi dal 22 al 25, e a Gennaio di quest'anno è uscito il volume 26, l'ultimo. E' stata una saga che è durata ben cinque anni (2017-2022) e ha avuto una trasposizione animata (tre stagioni finora).

    Tutte le domande che la serie si poneva, riguardo agli avvenimenti misteriosi che erano accaduti (la pietrificazione improvvisa di tutta l'umanità e il lungo periodo di millenaria assenza umana) hanno avuto una risposta e l'obiettivo di Senku, cioè la salvezza dell'umanità dopo la pietrificazione, è stato raggiunto.

    Ma, più che le risposte e il risultato, è stato assai più interessante il modo con cui si è arrivati fin lì: ogni scoperta e ogni progresso di Senku era già una vittoria di per sè, un passo avanti per uscire dalle condizioni primitive in cui erano sprofondati, lui e l'umanità intera.

    Pure gli altri protagonisti hanno fatto il loro percorso, attraverso scontri, emozioni, riflessioni, sorprese, mosse intelligenti e contromosse: infatti c'era chi voleva usare quelle conoscenze solo per il dominio.

    I disegni di Boichi (vero nome Mujik Park: è di origini sudcoreane e vive e lavora in Giappone. Tra l'altro, è anche laureato in fisica, cosa che lo avrà di certo aiutato nella realizzazione di questo manga "scientifico"...) sono eccezionali e hanno accompagnato in modo egregio un manga con un argomento assai difficile da rappresentare: il mondo primitivo e le scoperte scientifiche raggiunte attraverso la tenacia di Senku.

    Da notare il curioso rapporto tra Senku (la mente) e Kohaku (il braccio), la ragazza del villaggio Ishigami, dove Senku, appena risvegliatosi dalla pietrificazione, si era fermato all'inizio della storia. Anche se non c'è un'esplicita attrazione tra i due, perchè Kohaku non è un tipo romantico, e non lo è nemmeno Senku, che anzi, essendo uno scienziato puro, è assai indifferente al fascino femminile. Eppure i due si combinano perfettamente insieme in ogni circostanza. Si danno persino dei soprannomi: Kohaku lo chiama "Gentiluomo stregone" e Senku la chiama "Leonessa" per via della sua forza eccezionale.

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    Senku e Kohaku: l'omaggio a City Hunter è fin troppo evidente.


    Senku, che a volte sembra uno scienziato pazzo, è il "quasi perfido protagonista": e questo lo rende assai simile a Hiruma di Eyeshield 21, il manga sul football americano realizzato dallo stesso autore, Richiro Inagaki, e con Haru di Trillion Game, sempre dello stesso autore.

    Senku, infatti, si esalta per ogni progetto scientifico che riesce a realizzare, usando le sue capacità di scienziato e stratega, insieme a Gen, il "mentalista", che è il suo "collega di malefatte": infatti Gen è abile a manipolare la gente. Entrambe queste caratteristiche sono tipiche di Hiruma e Haru.

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    Il perfido ma abile Hiruma e il furbo e intelligente Senku: sono quasi fratelli.


    Un'altra somiglianza tra di loro è il fatto di avere entrambi i capelli ritti e sogghignano spesso. L'unica differenza è che Senku sogghigna solo quando pensa a un suo piano, mentre Hiruma sogghigna SEMPRE. E quando Senku fa la faccia "malvagia" somiglia a quella di Hiruma quando compie le sue azioni perfide per la vittoria della sua squadra dei Daimon Devil Bats, mentre Senku lo fa per il "trionfo della Scienza". Ed entrambi hanno la terminologia di "dieci milioni per cento di possibilità / impossibilità".

    Concludendo, Dr. Stone è un ottimo manga che fa capire l'importanza della ricerca scientifica e la fatica che ci vuole per ottenere le cose più semplici che noi abbiamo a portata di mano, come il cibo, il frigorifero, gli antibiotici...

    UNA CARENZA DI FONDO

    In questo manga, tuttavia, non c'è nessuna visione ultraterrena, anzi non se ne parla affatto. Quindi è vista come superficiale, inutile, superflua, persino dannosa per la scienza. Tanto, alla fine, con la scienza, diventeremo tutti immortali, grazie al progresso e alle scoperte scientifiche. E' quello che, in sostanza, dice il manga alla fine.

    Ammesso e non concesso che questo possa accadere davvero...che senso ha diventare immortali, se poi non si sa neanche perchè esistiamo? Se non si sa neanche per quale motivo esistiamo? Se non sappiamo neanche che scopo ha la vita? E' forse quello di mangiare, bere, godere, star bene, insomma, e basta? Una vita simile, e immortale, porta prima alla noia e poi alla pazzia. E' un problema affrontato anche da Rumiko Takahashi nel manga "Il bosco delle sirene", in cui Mana, una ragazza, e Yuta, un ragazzo, hanno mangiato carne di sirena e sono diventati immortali, sempre giovani: eppure, cercano lo stesso un modo per tornare a vivere normalmente, quindi con la possibilità di morire.

    Mermaid-Wood
    L'immortalità è un problema, dicono Mana e Yuta del "Bosco delle sirene", o "Mermaid saga".


    Infatti, noi non siamo fatti per vivere per sempre in questo mondo, ma per un altro, quello dopo la morte. Questo, Senku e gli altri non lo dicono: il loro punto di vista è solo orizzontale, quindi incompleto.

    Eppure, è stata proprio la religione cristiana, col concetto di Dio Creatore, che mette ordine e misura nell'universo, il motore di base per la scienza e le scoperte scientifiche. Escluderla dal nostro orizzonte porterà a un progresso e a una vita senza senso. Anche un progresso che possa essere eccezionale e immenso, senza però un senso per vivere, è un gigante dai piedi d'argilla, che crollerà subito. Senza Dio - e intendo il Dio di Cristo, non un altro - non si va avanti, nemmeno scientificamente.
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    ALFREDO CASTELLI

    Castelli


    La morte di Alfredo Castelli è stata un brutto colpo per me: pensavo che sarebbe stato attivo ancora per molto...

    E' stato un autore eccezionale e una persona che conosceva bene l'animo umano. Tutte le sue storie (Martin Mystere, gli Aristocratici, persino lo Zio Boris e l'Omino Bufo) mostravano la sua ironia verso le assurdità e le contraddizioni nell'uomo: per il ridicolo che può provocare il cambiamento, per esempio, di una sola parola per l'Omino Bufo; per la quotidianità capovolta stile "Addams" dello Zio Boris; la signorilità e l'eleganza unita alla prosaica rapina per gli Aristocratici; un mare di conoscenze su ogni scibile umano, con una logorrea interminabile, e, nello stesso tempo, l'incapacità di scrivere un libro, o almeno un articolo, nei tempi previsti per Martin Mystere.

    CURIOSITA'

    Ci sono anche altre curiosità che ho appena scoperto nel fare questo articolo: per esempio, il nostro Alfredo Castelli si chiamava anche Giuseppe, e questo non lo sapevo per nulla. E questo fa il paio con Martin Mystere, di cui pochi sapevano che si chiamava anche Jacques, Giacomo, un nome ebraico come Giuseppe...

    Per non parlare del vizio di Castelli di presentarsi nelle sue storie, sin dal primo numero di Martin Mystere, dove vediamo un pope ortodosso dalla faccia simile a quella di Castelli (giovane...) che si chiama padre Kastron: un nome greco che significa...castello! Inoltre, il nostro Castelli/Kastron scaccia via in malo modo Martin Mystere e Java, le sue creature, senza far vedere loro neanche un documento tra i mille che ha nella biblioteca del monastero. Cattivissimo. ^_^

    MM
    Ma Castelli, qui io sono solo al numero 1 e tu già mi tratti così?


    Castelli è stato milanese dall'inizio alla fine: nato a Milano il 26 giugno del 1947, e pure Martin Mystere è nato il 26 Giugno. Del 1942, ad essere precisi, come dice la sua (inventata) biografia: quindi, anagraficamente, lo zio Martin era più anziano dello zio Alfredo. Anzi, Martin è il personaggio più ANZIANO della Bonelli: anche questo è un primato, che si aggiunge ai tanti di Castelli, impossibili da elencare tutti qui: ne farò solo cenno su alcuni.

    CASTELLI IL MILANESE

    Tornando a Milano e al Castelli milanese: la Bonelli Editore, dove Castelli ha lavorato per ben cinquant'anni, è di Milano; la Astorina di Diabolik, dove Castelli fece il suo primo lavoro (più o meno), Scheletrino, è di Milano. Pure il Corriere dei ragazzi di Via Scarsellini di Milano ha avuto l'onore di avere dei lavori di Castelli.

    E quando lui, a quei tempi, era un diciottenne appassionato di fumetti, fu il primo a fare una fanzine sull'argomento, nel 1966: a Milano, naturalmente. Si chiamava Comics Club 104. Perchè 104? Ah, non me lo chiedete, questo non lo sa nessuno. Neanche Castelli. Comunque, poi, divenne Comics Club e basta. Fu il primo tentativo di fare un'enciclopedia organizzata sui fumetti, come pure dei servizi sul fumetto, con la primissima presentazione di Will Eisner, Al Williamson, Carl Barks, eccetera.

    Castelli-Club-104
    Accontentatevi dell'immagine: i numeri di questa fanzine sono INTROVABILI.


    Poi realizzò altre riviste di fumetti: Tilt, Horror e altre. Al Corriere dei Ragazzi realizzò i famosi Aristocratici, poi Zio Boris, Otto Kruntz l'inventore pazzo e l'Omino Bufo, scritto e disegnato male per riempire un vuoto in pagina e poi richiesto a gran voce dai lettori. E, per concludere questo breve riassunto, Castelli è morto a Milano ed è stato sepolto a Milano. Insomma, è sempre vissuto all'ombra del Duomo: proprio come Martin è sempre stato a New York (con una breve permanenza in Italia, OK, ma non conta).

    LA MIA CONOSCENZA DI CASTELLI ATTRAVERSO LE SUE OPERE

    Come tutti, io ho conosciuto Castelli soprattutto attraverso Martin Mystere.

    Era un fumetto particolare: avventuroso e ironico, con un sottofondo culturale che si trovava di rado nelle letture dei fumetti. Castelli aveva inserito non solo la cultura nei fumetti, ma anche i fumetti nei fumetti: gli omaggi fumettistici erano numerosi. L'esempio più famoso è stato quello di Martin Mystere 100, con l'omaggio alla storia delle Uova Quadrate di Paperino di Carl Barks.

    Oppure, ricordo bene anche l'omaggio a Quasimodo del "Gobbo di Notre Dame" di Victor Hugo in "Un delitto nella preistoria". Quel libro di Hugo a quei tempi non l'avevo ancora letto, anche se ne avevo sentito parlare: grazie anche alla citazione di Castelli, lo lessi più tardi.

    Oppure, ne "La casa ai confini del mondo", con la presentazione dello scrittore Lovecraft, un altro che non conoscevo. Non l'ho mai letto: non amo l'orrore, ma con quella storia avevo capito chi era questo Lovecraft.

    E altri esempi: la storia del "Lusitania", la nave americana abbattuta dai nazisti e diventata il casus belli per la discesa degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale; l'Etemenanki, il nome della Ziggurat/Torre di Babele; l'esplosione di Tunguska e così via. Oppure, la sfida tra gli scrittori di Ginevra, che aveva permesso la nascita di Frankenstein di Mary Shelley. Tutti argomenti che non conoscevo e che Martin Mystere mi aveva fatto conoscere. E si tratta di una minima parte. ^_^

    MM5
    Tutte storie indimenticabili.


    Sono state notevoli anche le sue storie sul vampiro che racconta il suo passato a Martin Mystere, oppure la storia degli Scanners con un Casertano in stato di grazia, il Flauto di Pan con un Claudio Villa impressionante. E la storia delle zanzare, o quella della reincarnazione di Annabel Lee. E come dimenticare "Tempo Zero" col malefico Mister Jinx? Credo sia stata la storia più emblematica di Martin Mystere e di Castelli, in un certo senso, visto che parla proprio del tempo che scorre e dell'eterna tentazione di fermarlo. Era proprio quello che il diavolo Mefistofele voleva sentirsi dire da Faust. E non è il caso che Mister Jinx (cioè "iettatore": splendido nome, tra l'altro) avesse un non so che di demoniaco...

    Era stata notevole, per me, anche la sua idea di fare uno special annuale di Martin Mystere, con tanto di "libretto dei mysteri" in allegato. Mi ricordo bene il primo, con tutti i misteri elencati in rigoroso ordine alfabetico: il Teschio di cristallo, Stonehenge, Nazca e tutto l'ambaradan che poi sarà ripreso in tante altre storie: non solo quelle di Martin Mystere, ma anche di Top dè Tops di Pezzin e De Vita per la Disney.

    Lo speciale annuale di Martin Mystere fu un appuntamento costante che si ripeteva ogni anno, con l'immancabile coppia di Dee e il "miserabile verme" Kelly, la svampita Angie e il capo di "Altrove" Chris Tower, che si davano appuntamento ogni anno per quelle strampalate e divertenti storie.

    Martin Mystere, infatti, oltre alla cultura, introdusse a forza anche l'umorismo nella Bonelli, che era diventato carente, per non dire assente, dopo la dipartita di Nolitta dalle pagine di Zagor.

    MM1-SPECIAL
    Il primo Annuale di Martin Mystere, chiamato allora solo "Numero fuori serie". Con tanto di "Libretto sui Mysteri": fu un'ottima compagnia per l'estate. Rimasi contrariato però nel vedere che, a differenza di quanto mostrato in copertina, accanto a Martin Mystere non c'era Diana, ma una sconosciuta Angie... ^_^


    Inoltre, l'idea di Castelli dell'annuale col libretto fu poi ripresa anche su Mister No, Zagor e Dylan Dog. Curiosamente, su Tex l'annuale col libretto non lo fecero mai. Però Castelli introdusse anche l'Almanacco del Mistero, con fumetti e approfondimenti: e stavolta non solo Dylan Dog seguì l'esempio con l'Almanacco della Paura, ma anche lo stesso Tex con l'Almanacco del West, che sopravvive ancor oggi.

    Nel campo della Bonelli, per me sono stati memorabili anche i lavori di Castelli su Zagor: Molok e Il ritorno del vampiro, per me, sono due capolavori. Le altre storie che fece sullo Spirito con la Scure erano più assurde, ma comunque divertenti: La minaccia verde e la pianta impazzita, La fortezza di Smirnoff, col Conte di Lapalette e le lettere segrete che alla fine non erano poi tanto segrete, Fantasmi, una storia assurda dal principio alla fine: però il Cico che fa Are Karma è memorabile; i piranha dei Piccoli assassini, la strana "Orchidea rossa" con Guitar Jim, il personaggio del Tessitore. E anche la peggiore di tutte quelle che ha fatto, ma comunque memorabile: il ritorno di Supermike, che fu anche il suo ultimo lavoro su Zagor.

    ZMolok
    Castelli sapeva anche spaventare.


    Con Mister No ricordo le storie di Castelli e i suoi personaggi tormentati: la sua "Isola della magia", col vudu; poi "Uno strano alleato" con l'eroinomane perduto, ma eroico, Uriarte e il corrotto fornitore O'Bispo; la terribile prigione di "Accusa di omicidio" col povero Moreno e il perfido Dega; la storia stile "sporca dozzina" di "Intrigo internazionale" col colonnello Connely, una specie di Nick Fury di altri tempi; il crudele regista Ira Burns e il sanguigno Tsalikis di "Cinema crudele"; il contraddittorio criminale Vadinho Moraes di "Quel volo per Rio" e "Nemici per la pelle"; la storia di Ratso, Masulli e Jackie nella "Città del crimine", "I gangsters"; il ritorno della manipolatrice Delia in "L'uomo che sapeva troppo". Poi ci sono i dimenticabili (almeno per me): "La città misteriosa", "La lama d'asfalto", "Minaccia invisibile", "Xavantes", "La fortezza perduta", "I misteri di Atacama", "Allarme a bordo", "Il segreto del diario", "La miniera della paura", "Il faraone dimenticato" (che fu il suo ultimo lavoro per Mister No).

    MN1
    Castelli sapeva anche emozionare.


    Ma di Castelli ricordo anche tanti altri lavori: per esempio, il suo lungo e divertentissimo Pedrito el Drito disegnato da Terenghi per la Bonelli: fu il mio primo incontro con quel personaggio, di cui avevo sentito parlare poco.

    Tra gli altri suoi lavori, metto una menzione d'onore per gli Aristocratici, già citati prima: dei ladri gentiluomini realizzati insieme a Tacconi, coi tipici tormentoni castelliani: By Jove, mio buon amico, direbbe il Conte, il capo della banda; "Non è il mio Mike" direbbe Jean, nipote del Conte, riferendosi a Mike Allen, il capo della polizia sempre alla caccia degli Aristocratici (un richiamo a Occhi di Gatto?). "Dove sono le ragazze?" direbbe Alvaro, l'italiano scassinatore; "Sono ingenui questi inglesi...mi chiedo come hanno fatto a vincere la guerra" direbbe Fritz, il tedesco inventore; "Io lo meno quello lì!" direbbe Moose, l'irlandese barbuto alla Bud Spencer dalle mani pesanti. Tutte storie in genere autoconclusive, realizzate splendidamente e raccontate con ironia.

    COMPLOTTISMO

    C'è da dire che il "complottismo" e le sette segrete sono sempre stati una costante nelle storie serie di Castelli. Soprattutto in Martin Mystere, ma non solo: basterebbe ricordare anche l'Uomo di Chicago, l'Uomo delle nevi, il "Tessitore" delle storie di Zagor e altri esempi.

    Per dire: già nel numero 1 di Martin Mystere, Guido Nolitta in persona aveva fatto finta di essere un lettore e chiedeva ragguagli a Castelli sugli Uomini in Nero, che comparivano per la prima volta proprio nel numero 1, che aveva come titolo "Gli uomini in nero". Curiosamente, nella risposta c'è il termine "eretici" nella risposta: infatti, il capo degli Uomini in Nero, sempre nel primo numero di Martin Mystere, quando il protagonista parla degli Atlantidei e simili, parla subito di "eresia", come se fosse il capo di una religione. Insomma, neanche tanto velatamente, gli Uomini in Nero sembrano essere il simbolo della "Chiesa cattiva".

    MM1


    Un'altra costante di Castelli, infatti, fu quella delle sette segrete sempre buone buonissime e sempre ostacolate da una Chiesa cattiva cattivissima, oppressiva e ignorante, che non capisce mai niente e preferisce tenere tutti nell'ignoranza, anche con l'omicidio.

    Per esempio, in "L'uomo che scoprì l'Europa", Papa Innocenzo, in pieno Medioevo - almeno così dice il fumetto - fece imprigionare e lasciar morire di fame un indiano venuto dall'America, perchè Papa Innocenzo non voleva che si sapesse di terre oltre l'Oceano, perchè questo non era mica scritto sulla Bibbia e quindi è tutta roba eretica.

    Ma l'eresia non riguarda cose non scritte nella Bibbia (questo è il "letteralismo", tipico dei Protestanti e della loro "sola scrittura", ma non c'entra niente con la lettura cattolica della Bibbia). L'eresia riguarda le verità di fede, come Gesù che è Figlio di Dio.

    E non si faceva morire di fame chi non ci credeva: semplicemente, si confutava con argomenti. La violenza contro gli eretici avveniva non per mano della Chiesa, ma per mano dell'autorità, perchè i "pii eretici" erano tutt'altro che pii: invadevano, spadroneggiavano e dominavano, appoggiati da potenti signori ai quali le tesi eretiche facevano comodo per il loro potere.

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    L'errore, storico e di concetto, in "L'uomo che scoprì l'Europa"


    In certe storie, anzi, si parla anche di Gesù che non è Figlio di Dio: nel Martin Mystere Gigante n. 1 l'Ultima Cena sembra un normale incontro esoterico tra Gesù e gli Apostoli, come se fossero i membri di una sorta di massoni illuminati. Si tratta dell' "ipotesi critica" sostenuta soprattutto dagli intellettuali illuministi: un "Gesù figlio di Dio" inventato dagli apostoli, che hanno modificato tutta la storia vera, scrivendo avvenimenti alterati nei Vangeli.

    Senza mai pensare però all'obiezione più ovvia: nessun ebreo direbbe mai che un uomo è Dio, neanche in un Vangelo scritto da lui. Dire questo è il massimo della blasfemia e dell'abominazione per un israelita, sia quelli di ieri che quelli di oggi. Quindi è un'ipotesi che non sta in piedi: tuttavia, è spesso riciclata.

    MMG1
    L'errore teologico in MM Gigante 1



    RIPOSA IN PACE, ALFREDO

    Voglio precisare che nella conclusione ho criticato solo le storie di Castelli, non certo la sua persona.

    Castelli è stato un grande cantastorie, e gli sono grato per tutto quello che mi ha raccontato: mi ha fatto conoscere tante cose, ha raccontato tante avventure appassionanti, ha avuto un sano senso dell'umorismo, che è segno di bontà d'animo.

    Come commemorazione in ricordo di Castelli, il Conte degli Aristocratici, citando il Grande Bardo, direbbe, davanti alla sua tomba: "Un volo d'angeli ti accompagni cantando al tuo riposo" (Amleto).

    gli_aristocratici


    E ogni tanto dite per lui un Eterno Riposo: gli farà bene.
  8. .
    PARADISO CANTO 15 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - L'AVO CACCIAGUIDA (prima parte)

    Cacciaguida
    Dante, con Beatrice, incontra l'avo Cacciaguida tra gli Spiriti Combattenti: infatti morì combattendo da Crociato contro i Musulmani in Terrasanta.


    SILENZIO DEI BEATI E APPARIZIONE DI CACCIAGUIDA

    Dante descrive il silenzio degli spiriti combattenti, che, dopo il loro canto, detto "dolce lira", tacciono per permettergli di parlare:

    Benigna volontade in che si liqua (La volontà di fare il bene ("benigna"), in cui si manifesta ("liqua", da "liquare", "manifestarsi")
    sempre l’amor che drittamente spira, (sempre l'amore ben diretto,)
    come cupidità fa ne la iniqua, (così come la cupidigia si manifesta nella volontà malvagia,)

    silenzio puose a quella dolce lira, (fece stare in silenzio quel dolce canto)
    e fece quietar le sante corde (e fece acquietare le sante corde)
    che la destra del cielo allenta e tira. (che la mano di Dio allenta e tira (cioè: i beati interruppero il canto).

    Infatti, gli spiriti combattenti, presenti nella grandiosa immagine della croce descritta da Dante nel precedente canto, mettono fine alla loro musica melodiosa, spinti dalla volontà di fare il bene e quindi consentire a Dante di esporre i suoi desideri. E Dante osserva che non ha senso pensare che i santi non ascoltino mai le preghiere degli uomini, visto che qui i santi si sono interrotti tutti insieme per poter ascoltare la preghiera del solo Dante.

    Come saranno a’ giusti preghi sorde (Com'è possibile che alle giuste preghiere siano sorde)
    quelle sustanze che, per darmi voglia (quelle anime, visto che per indurmi)
    ch’io le pregassi, a tacer fur concorde? (a pregarle, furono tutte concordi nel tacere?)

    Il poeta conclude severamente che chi preferisce dei beni da nulla - e lo fa fino alla fine, per tutta la sua vita - al posto di questo amore così enorme, così immenso, che lascia senza fiato e senza parole, è giusto che finisca nell'Inferno per una così grande trascuratezza. E' un pò come chi disprezza i grandiosi regali di un ricco che lo ama molto, ma gli preferisce piuttosto le carrube dei maiali, che lo trattano male.

    Bene è che sanza termine si doglia (È giusto che soffra in eterno)
    chi, per amor di cosa che non duri, (colui che, per amore di beni effimeri,)
    etternalmente quello amor si spoglia. (si priva in eterno dell'amore di Dio.)

    COMPARE CACCIAGUIDA

    Dante-Cacciaguida
    Cacciaguida nella rappresentazione di Nagai.


    Allo stesso modo di una stella cadente, che d'improvviso attraversa il cielo sereno (con l'unica differenza che chi guarda la stella cadente non la vede scomparire: le stelle cadenti normali, infatti, alla fine scompaiono), così fa una delle luci dei beati (cioè l'anima di Cacciaguida), che, dall'enorme croce luminosa, si muove, senza però staccarsene. Passa infatti lungo il braccio destro della croce, dall'estremo del braccio verso il centro; poi, scende verso il basso.

    Il beato non abbandona la croce, ma si muove lungo questa, proprio come fa una gemma che resta attaccata al suo nastro. Dante paragona questa luce a un fuoco che è dietro a una parete di alabastro ("che parve foco dietro ad alabastro"). Infatti, le finestre delle chiese tante volte erano fatte di alabastro, un materiale alternativo al vetro, che è capace di lasciar trasparire la luce del sole.

    Dante vede che quella luce, cioè quel beato che gli si avvicina, Cacciaguida, che per adesso lui non riesce a riconoscere e che non si è ancora presentato, si avvicina in un modo talmente devoto, ossequioso, felice, che lui lo paragona all'anima di Anchise, il padre di Enea, che, dopo la sua morte, incontra il figlio Enea, da vivo, nei Campi Elisi (l'aldilà pagano simile al Paradiso), come racconta Virgilio, "nostra maggior musa".

    Cacciaguida ancora non si presenta a Dante, ma, pieno di gioia nel vedere un suo discendente in cielo, gli parla. Le sue prime parole, però, non sono in italiano, ma in latino, un caso unico nella Commedia (tranne negli altri casi particolari e precedenti, di cui parlieremo tra poco):

    "O sanguis meus, o superinfusa ("O mio discendente, o abbondante)
    gratia Dei, sicut tibi cui (grazia divina, a chi come a te fu aperta)
    bis unquam celi ianua reclusa?". (due volte la porta del Cielo?")

    IL LATINO NELLA DIVINA COMMEDIA

    cicerone-senato
    Cicerone parla al Senato Romano e un sacerdote dice la Messa in latino. Essendo totalmente precisa nelle definizioni, e avendo una costruzione sintattica con un ordine rigorosamente matematico, il latino è la lingua solenne per eccellenza. Per questo è sempre stata la lingua ufficiale della Chiesa.


    Nell'INFERNO le parole in latino sono molto poche. Interi canti si succedono, ma solo in volgare. C’è addirittura una frase in lingua “satanica”, famosissima: "Pape Satàn, pape Satàn aleppe!" (Canto 7 dell'Inferno: è stato pronunciato dal cane da guardia Pluto, al Quarto Cerchio (avari e prodighi).

    Non mancano comunque dei latinismi in quantità (il latinismo è una parola presa direttamente dal latino: per esempio, “pulcro”, cioè "bello", da "pulchrus", che significa appunto "bello" in latino). Ci sono anche dei passi ispirati da celebri versi latini.

    Ma in tutto ci sono solo quattro parole latine, e si trovano nel primo e secondo Canto dell'Inferno:
    - "Miserere" (Canto 1), cioè "Abbi pietà di me": Dante lo dice nella selva oscura, non nell'Inferno, quando vede per la prima volta Virgilio;
    - "sub Iulio" (sempre nel Canto 1), "sotto Giulio (Cesare)": lo dice Virgilio parlando della sua vita. Qui siamo sempre nella selva oscura, non nell'Inferno come luogo.
    - "Vas" (Canto 2), termine che Dante usa in riferimento a San Paolo, chiamato Vas d’elezione, cioè "strumento della scelta (divina)".

    Inoltre, nel 34° Canto dell'Inferno, cioè l'ultimo canto, c'è un verso intero in latino: "Vexilla regis prodeunt inferni", che imita l'incipit dell’Inno alla Croce di Venanzio Fortunato: ma è capovolto, mostrando i "vessilli di satana", il re dell'Inferno, non quelli di Cristo, in una sorta di solenne e religioso orrore.

    L’Inferno, infatti, è la cantica del buio, del frastuono e del disgusto, dove il nome di Cristo non è degno di comparire. E tutta la cantica dell'Inferno sembra quasi indegna della lingua latina, che è timidamente attestata all’inizio (fuori dall'Inferno, nella selva oscura) e alla chiusura della cantica.

    Nel PURGATORIO, invece, le parole latine compaiono numerose in tutta la Cantica. Sono riferibili a preghiere, passi evangelici, testi biblici e religiosi in genere. Sono parole singole, o coppie di parole, endecasillabi interi: la lingua latina è costantemente presente, e in misura decisamente superiore rispetto alle altre due cantiche, sia quella del Paradiso che quella dell'Inferno. La sua ricca presenza culmina in una terzina quasi completamente in latino, collocata nell’ultimo canto (il 33°):

    Modicum, et non videbitis me; (Fra poco non mi vedrete)
    et iterum, sorelle mie dilette, (e di nuovo, sorelle mie dilette,)
    modicum, et vos videbitis me. (fra poco voi mi vedrete.)

    Sono parole solenni tratte dal Vangelo di Giovanni (sedicesimo capitolo, versetto 16), con le quali Gesù annuncia la propria morte e risurrezione, auspicio di una Chiesa riformata e corretta. Ho contato la notevole somma di centosei parole latine nel Purgatorio, un numero immensamente superiore a quello dell’Inferno. La lingua latina, come la luce, illumina la lunga strada che deve percorrere il peccatore per redimersi: è lingua nobile, della fede e della preghiera.

    Nella cantica del Purgatorio è presente anche un’altra lingua, il provenzale, cioè il francese di quei tempi (Canto 26), pronunciata dal penitente, e trovatore, Arnaut Daniel:

    El cominciò liberamente a dire: (Lui cominciò volentieri a dire:)
    «Tan m’abellis vostre cortes deman, («La vostra cortese domanda mi piace a tal punto,)
    qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. (che non posso né voglio nascondere la mia identità.)

    Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; (Io sono Arnaut, che piango e vado cantando;)
    consiros vei la passada folor, (preoccupato guardo la mia passata follia d'amore,)
    e vei jausen lo joi qu’esper, denan. (e vedo gioioso la gioia che spero, davanti a me.)

    Ara vos prec, per aquella valor (Ora vi prego, per quella virtù)
    que vos guida al som de l’escalina, (che vi guida alla sommità di questa scala,)
    sovenha vos a temps de ma dolor!». (di rammentarvi al momento opportuno del mio dolore!»)

    Dopo aver detto questo, il Daniel scompare entro le fiamme che lo purificano. Il provenzale non è la lingua “chioccia”, disarmonica, incomprensibile, demoniaca dell'Inferno, ma è nobile come il latino, è poetica e musicale, una piccola tentazione che ricorda la vita terrena. Il latino è ben presente in questa cantica della speranza del Purgatorio: è lingua di consolazione e di solidarietà umana.

    Nel PARADISO la lingua latina ha una buona rappresentanza, ma in misura minore rispetto al Purgatorio. Ho potuto contare solo sessantotto parole, latinismi esclusi. Due intere terzine sono in latino: la prima include due parole ebraiche e si trova all’inizio del settimo canto, ed è cantata dall'imperatore Giustiniano:

    "Osanna, sanctus Deus sabaòth, ("Osanna, o santo Dio degli eserciti,)
    superillustrans claritate tua (che illumini dall'alto con la tua luce)
    felices ignes horum malacòth!". (i beati fuochi di questi regni!")

    "Sabaoth" è un termine ebraico e significa "degli eserciti": appunto "Dio degli eserciti". Oggi il termine è visto come troppo "aggressivo" ed è stato sostituito nella Messa con "Dio dell'Universo". Malacòth è un altro termine ebraico che significa "dei regni": l'originale è "mamlacoth", che Dante ha alterato per farlo "adattare" al poema. Superillustrans, cioè "che illumini dall'alto", è una creazione di Dante: il latino ha solo superillustris, cioè "illustrissimo". Questo canto è un'invenzione dantesca: "Osanna sanctus Deus" riecheggia il Sanctus della Messa, che oggi è detto in italiano, e cioè:

    "Santo, santo, santo il Signore Dio dell’universo;
    i cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
    Osanna, osanna nell’alto dei cieli.
    Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
    Osanna, osanna nell’alto dei cieli."


    La solennità della terzina è aumentata dalla presenza delle parole ebraiche.

    Infine, la seconda terzina, interamente in latino, è proprio quella di Cacciaguida. Ha una caratteristica che la distingue da tutte le altre: non deriva dall’ambito religioso, perché contiene le parole con cui Cacciaguida accoglie il suo discendente:

    "O sanguis meus, o superinfusa ("O mio discendente, o abbondante)
    gratia Dei, sicut tibi cui (grazia divina, a chi come a te fu aperta)
    bis unquam celi ianua reclusa?". (due volte la porta del Cielo?")

    Non ho certo la pretesa di competere con gli studi accurati degli esperti che si sono occupati e si occupano di questi versi latini. A me, però, basta osservare che, in questa terzina, unica in tutta la Commedia, Dante usa la lingua latina pura, senza contaminazioni con altre lingue.

    A mio modesto parere, questa sembra essere stata una scelta linguistica, finalizzata a dare particolare rilievo all’incontro di Dante col suo avo. Sono parole destinate a restare per sempre impresse nella mente di noi lettori, per l’alto valore espresso e per la forma solenne di lezione morale su cui riflettere.

    E qui ci fermiamo. La differente presenza del latino nelle tre Cantiche porta a una conclusione sicura: il latino non è una lingua “da Inferno”: è una lingua nobile, che tace nel mondo della perdizione, ed è invece degna cittadina delle cantiche della salvezza e della beatitudine divina. Come la luce, che, in diversi gradi, accompagna l’uomo nel suo cammino verso le stelle.

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xv.html

    https://www.latinamente.it/notizie/443-la-presenza-della-lingua-latina-nella-divina-commedia.html
  9. .
    SPY X FAMILY n: 10-11; VOTO: 9 - IL PASSATO E GLI SVILUPPI DEL PRESENTE
    Dramma e commedia in una famiglia "normale" di spie, assassini e telepati.

    Autore (sceneggiatura e disegno): Tatsuya Endo

    Spy-x-Family-10-5-20


    Nel 2023 sono usciti solo due volumi di Spy x Family, il 10 e l'11. Il primo presenta un approfondimento del personaggio di Loid Forger, la spia protagonista, che si vede in copertina quando era ancora un bambino. Si rivela qui il suo tragico passato e il suo coinvolgimento nella precedente guerra tra i due paesi nemici di Ostania e Westalis. Per la cronaca, Loid - che non è il suo vero nome, ma nessuno sa quale sia - è di Westalis, mentre la finta moglie Yor è di Ostania, il paese dove Loid appunto fa la spia: quindi, senza saperlo, sono rivali.

    Inoltre, avvengono dei nuovi sviluppi: inaspettatamente, Yor conosce Melinda Desmond, la moglie di Donovan Desmond, il presidente del Partito di Unità Nazionale e obiettivo dell'Operazione Strix (cioè "gufo") e delle indagini di Loid.

    Nel volume 11, Anya, la bambina telepate e finta figlia della coppia, viene presa in ostaggio dai terroristi, che hanno sequestrato un autobus con tutta la scolaresca.

    Anche se si dice che la serie è vicina all'umorismo di "Uno, due, tre", a volte passa ai toni drammatici di "Il ponte delle spie": il passato di Loid infatti è assai triste, e il contesto del rapimento dei bambini nell'autobus, per quanto mitigato dall'umorismo, mostra una situazione molto drammatica. Ci sono anche le storie brevi che permettono l'approfondimento dei personaggi, anche secondari, e delle loro relazioni.

    Complessivamente, sempre un ottimo fumetto.

    ONE PIECE N. 103-106; VOTO: 9. LA SAGA DI WANO E' FINITA!
    Diventerò il re dei pirati!

    Autore (sceneggiatura e disegno): Eichiro Oda

    One-Piece-2023
    Volumi 103, 104, 105 (Wano) e 106 (Egghead)


    Nel 2023, finalmente, in Italia si conclude la lunghissima saga di Wano, che era durata ben quattro anni, 169 capitoli e 16 volumi, dal 90 al 105. Mostruoso. :huh:

    Infatti, è stata la saga più lunga finora di One Piece. Per la cronaca, gli episodi di Wano nell'anime erano stati quasi 200: 191 in tutto!

    Abbiamo così la definitiva sconfitta di Kaido e Big Mom, i due Imperatori, e il passaggio di Rufy da pirata ad Imperatore, e con uno stadio di combattimento superiore: il Gear Fifth. Si tratta di potenziamenti che aveva avuto in passato per affrontare gli avversari più forti: il Gear Second e il Gear Third erano stati usati nella saga di Enies Lobby contro Rob Lucci; il Gear Fourth è stato usato contro Don Quijote Do Flamingo, uno della Flotta dei Sette, nella saga di Dressrosa; e infine abbiamo il Gear Fifth nella saga di Wano contro Kaido. E' improbabile che avvenga un Gear Sixth, visto che qui si tratta del "risveglio" del Frutto del Diavolo di Rufy: ma non si può mai sapere quello che può tirare fuori Oda dal cappello...

    Kaido
    Rufy contro Kaido: uno scontro tra i più potenti in assoluto di One Piece.


    Wano è stata una saga movimentatissima, con 100 o 200 personaggi almeno, e con una complessità da far impallidire "I fratelli Karamazov". Kaido, per quanto poco approfondito psicologicamente, è stato un nemico mostruoso e invincibile (Rufy è stato sconfitto ben tre volte prima di prevalere) e con una valanga di comprimari, tra i quali l'inaspettata figlia di Kaido, Yamato, che diventa alleata di Rufy contro il padre.

    Gli altri due alleati di Rufy, i capitani pirata Trafalgar Law e Eustass Kid, riescono alla fine a prevalere su Big Mom, l'Imperatrice alleata di Kaido, e un mucchio di linee narrative si concludono nell'enorme battaglia di Onigashima, l'Isola dei Demoni e sede di Kaido.

    TOBI ROPPO/GUERRIERI GUIZZANTI

    La stessa Nico Robin diventa un demone per sconfiggere Black Maria, la sua avversaria dei Sei Guerrieri Guizzanti, o Tobi Roppo. Dal più debole al più forte, abbiamo: X-Drake (il tizio con la benda. E' passato dall'altra parte... -_- ) Page One (il tizio col cappello e il ciuffone. Non ha mostrato particolari capacità); Sasaki (il ciccione con i canini grossi all'insù e il cappello da marinaio. L'uomo triceratopo ha fatto un discreto scontro con Franky); Black Maria (La ragazzona in mezzo. Molto potente, ma soprattutto per i suoi inganni; come detto prima, è stata sconfitta da una demoniaca Nico Robin); Ulti (la tizia in mezzo a braccia conserte. Ragazza tosta e fuori di testa, ha affrontato Rufy e persino Big Mom prima di crollare); Who's who (il tizio con l'elmetto rosso da depravato. Ha dato del filo da torcere a Jinbe, che era uno della Flotta dei Sette).

    Tobi-Roppo
    Tobi Roppo/Guerrieri guizzanti. Immagine presa qui.



    LE TRE CALAMITA'

    Tre-Calamit
    Le Tre Calamità (in alto), una fiera Yamato e Kaido, l'Imperatore delle Bestie.


    I tre Generali di Kaido, o Tre calamità, erano, in ordine di potenza, dal più debole al più forte: Jack la siccità, un Uomo-Mammut (il tizio con una grata sulla bocca), battuto da Canespino, uno dei capi dei Mink, gli alleati di Rufy; Queen la piaga (il ciccione pelato col sigaro), battuto da Sanji dopo una lotta sfibrante; King il fuoco, secondo solo a Kaido: alla fine è abbattuto da Zoro.

    NUMEROSI RIFERIMENTI AL GIAPPONE

    Visto che Wano si basa sul Giappone antico e classico, già da tempo Oda voleva inserire questa in One Piece, ma, per vari motivi (tra cui il fatto di Naruto, che, a quei tempi, stava attraversando una storia simile), ha dovuto rimandarla fino ad oggi. Si pensa infatti che tutta la saga di Whole Cake Island, quella in cui Rufy affronta Big Mom, sia stata in pratica un riempitivo (chiamalo RIEMPITIVO! :huh: ) in attesa della saga contro Kaido.

    Non c'è stato un momento in cui Oda non abbia riempito ogni episodio di Wano del suo amore per la tradizione nipponica: shogun, samurai, oiran (prostitute di alto bordo), terme, famosi dipinti come quello dei due draghi (a cui si richiama lo scontro tra Momonosuke e Kaido, diventati entrambi dei draghi), la Grande Onda di Hokusai e così via.

    Il problema è che mettere insieme TUTTI questi fattori, che sono innumerevoli, in una storia già di per sè complessa, rende la narrazione parecchio barocca. Inoltre, mentre si pensava che Wano avrebbe chiarito qualcuno dei molti misteri di One Piece, invece non ha chiarito nulla e ha reso la storia generale ancora più misteriosa di prima. D'altra, parte il mistero è una caratteristica essenziale in One Piece: se si spiegasse davvero tutto, si perderebbe il fascino della storia.

    Per esempio: perchè Kaido voleva cercare di morire? La cosa non viene mai spiegata. Cosa era successo in passato tra Kaido e Big Mom? La cosa non viene mai spiegata. E così via.

    Tra l'altro, è curioso che nella terra dei samurai non ci sia mai stato un duello di spade degno di questo nome. Quello tra Zoro e King, più che un duello di spade, sembrava quasi uno scontro magico tra Saruman e Gandalf.

    Il Reverie, cioè l'incontro tra i potenti del mondo, è stata la minisaga che ha aperto questo kolossal di Wano, che, diversamente dagli altri archi narrativi, si apre e si chiude (con ben tre atti) con un'aperura e chiusura di tende, come si fa a teatro, con una donna che suona lo shamisen (una specie di chitarra) e col volto coperto da una maschera con le fattezze di volpe, che presenta e chiude i vari atti.

    Shamisen



    NIKA, IL SOLE

    In questa saga, in particolare, Rufy, col suo Gear Fifth, per la prima volta viene messo in paragone a Nika, la divinità del Sole, che porta la liberazione. E il Sole è sempre stato il simbolo del Giappone e della bandiera giapponese...

    Inoltre, come se questa saga fiume non fosse stata già abbastanza lunga di per sè, Oda ha osato l'inosabile: l'ha allungata ancora! =_=

    Infatti, c'è stato un lunghissimo flashback che ha parlato di Oden, il precedente signore di Wano, e la sua amicizia con Barbabianca e Gold Roger (e dici poco! :huh: ), i due pirati principali della saga, con, addirittura, la scoperta dello One Piece (senza mai rivelare cos'è, ovviamente).

    E con l'inaspettato cambio del nome dell'isola dove si troverebbe lo One Piece: da "Raftel", come lo avevano sempre chiamato, è diventato "Laugh Tale", cioè "storia da ridere". Ed è stato anche il posto dove Gold Roger ha riso, di una risata che fa scuotere il mondo.

    Infatti il potere, quando è crudele, teme il riso. E Rufy diventa non solo Nika, la divinità del sole, ma anche il nuovo Joy Boy, il dio della risata, che sconfigge Kaido ridendo e che il Governo Mondiale non può fare a meno di temere.

    One Piece è anche un inno alla risata, quasi: non tanto al ridere in sè, quanto ad una vera, forte, solida speranza che abbatte tutte le disperazioni.

    Ciurma
    Ciurma, all'arrembaggio! Vediamo chi ha più coraggio!



    ED ORA?

    Tutta Wano è stata una saga gigantesca, smisurata, eccessiva persino: è difficile da contenere e anche da analizzare.

    Ed ora One Piece si sta incamminando verso l'arco narrativo finale, composto da più archi, il primo dei quali, iniziato adesso, è quello di Egghead, l'isola dello scienziato Vegapunk: è ancora in corso in Giappone.

    Adesso sono coinvolte anche le autorità più alte del Governo, comandate dalla misteriosa Im (almeno io credo che sia una donna, ma potrei sbagliarmi). Inoltre, entra in scena una piratessa che è sempre rimasta nell'ombra, Jewelry Bonney la ghiottona, e suo padre, Orso Bartholomew, trasformato in cyborg da Vegapunk. Ma la storia è più complessa di quanto sembri...

    La fantasia di Oda non ha limiti: si passa da una scenario che richiamava l'antico Giappone ad uno futuristico. E la banda di Cappello di Paglia (compreso il nuovo arrivato, Jimbe) si adegua: dai vestiti giapponesi tipo kimono e simili si è passati alle tute da astronauta. Chissà come finirà? In Giappone non lo sanno ancora...

    Zorobin1

  10. .
    "ARTE MODERNA": IL CULTO DEL NONSENSO E DEL BRUTTO

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    "Oh, non lo capisci? Devi essere proprio un tipo superficiale!"


    Oggigiorno dilaga un vero e proprio culto del nonsenso e del brutto, che oscilla tra il banale e il volgare, o persino lo squallido, sia estetico che morale.

    La produzione artistica, purtroppo, non fa eccezione: in particolare, dal secondo dopoguerra ad oggi, è un'esperienza diffusa provare non solo una certa fatica a comprendere il significato di quest' "arte", ma anche avere l'impressione che essa sia banale, fastidiosa, laida, "brutta".

    Alcuni esempi di famose opere discutibili sono: La fontana (orinatoio) di Marcel Duchamp; le tavole monocrome di Yves Klein; la Merda d'artista di Piero Manzoni; le Marylin o le Zuppe Campbell's di Andy Warhol; gli animali imbalsamati e immersi in formaldeide di Damien Hirst; i tagli di Lucio Fontana; i bambini impiccati di Maurizio Cattelan; i telai di Maria Lai. Altrettanto può dirsi per le innumerevoli installazioni fatte con oggetti di qualsiasi tipo.

    Eppure la critica giudica molte di queste opere come "capolavori", sollevando nel pubblico la sensazione di non avere gli strumenti culturali per comprendere tali "opere".

    Ma è corretto questo giudizio? Non dovremmo riuscire tutti a comprendere il significato di quanto vediamo? Soprattutto quando l'opera non è espressione di una cultura diversa dalla nostra, come in tutti i casi prima elencati?

    E il senso della bellezza in ciascuno di noi non è forse innato, così che ciascuno abbia il titolo di esprimere un giudizio estetico, pur non essendo uno storico o un critico dell'arte?

    Queste domande sono fondamentali per valutare tante opere - esaltate come produzione di "artisti" eretti ad icone del nostro tempo - che, in realtà non sono dei "capolavori" come si vorrebbe far credere.

    Negli ultimi decenni, infatti, l'enorme potenziamento dei mezzi di comunicazione ha consentito a una élite di imporre una vera e propria dittatura culturale attraverso strumenti di comunicazione sofisticatissimi, con cui viene corrotta la concezione di cosa sia "bello" e cosa "brutto", di cosa sia di valore e cosa sia una banalità.

    Già nei bambini esiste una capacità di giudicare se l'opera che vedono è bella o meno: questa capacità nel tempo può essere poi sviluppata o, al contrario, annichilita dal contesto culturale.

    Nella nostra società, molti perdono il senso critico o, anche nel caso che lo mantengano, davanti a un'opera che non trasmette alcun significato, o che è brutta, stentano a dare un giudizio negativo.

    Infatti, la dittatura culturale attiva, a livello psicologico, una serie di meccanismi che inducono a non esprimere un giudizio o ad acquistare una percezione corretta o scorretta (secondo i dettami della "cultura del brutto" che ci viene imposta) sul valore delle opere viste.

    Tale atteggiamento remissivo o acritico viene generato instillando nelle persone un complesso di inadeguatezza culturale, attraverso il far credere che l'arte moderna e contemporanea, prevalentemente quella concettuale, sia qualcosa di troppo alto per essere alla portata di chiunque. Cosi l'osservatore, anziché esprimere un eventuale giudizio negativo sull'opera, finisce per credere di essere semplicemente inadeguato a capirla.

    Chi resiste all'idea della superiore comprensione dei critici rispetto agli altri, della necessaria correttezza dei loro giudizi, subisce dalla comunità, indottrinata e plagiata, una forma di "isolamento sociale": facendo leva sulla paura inconscia delle persone di restare sole, essa accorda l'integrazione nel contesto dei "colti", in cambio, però, del tributo di valore che il singolo renda alle opere proposte.

    Si tratta di un'operazione culturale aggressiva e massiccia, perpetrata mediante l'operazione congiunta di diversi attori:

    1) da una parte, c'è la critica d'arte, che ha contribuito a diffondere nel pubblico alcune opere e i loro autori, dando a interpretare, con la sua autorità, che quelle opere, così poco belle agli occhi del singolo (considerato privo di una competenza specifica), siano dei capolavori;

    2) dall'altra parte, ci sono le case d'asta, i galleristi, i direttori di istruzioni culturali e museali di vario genere, che, con queste opere, hanno creato un mercato fiorente, indirizzando investimenti indigenti in direzioni prescelte, a tutto discapito di altre forme di arte più autentica.

    Le motivazioni di queste operazioni sono sostanzialmente due.

    La prima: influenzare il mercato dell'arte. Esaltando dei finti artisti, non solo si evita l'onerosa ricerca degli artisti veri, ma si creano anche dei fenomeni controllabili da parte di chi detta il gusto. Fenomeni che muovono ingenti investimenti di compratori e collezionisti.

    La seconda: (più subdola) consiste nell'indirizzare il gusto estetico delle masse, quindi nell'esercitare su di esse un potere. La deformazione percettiva di cosa sia "bello", infatti, a lungo andare, influenza la percezione stessa della realtà, diventa persuasione prima concettuale e poi morale, plagiando l'identità e la libertà della persona.

    Infatti, chi è in grado di imporre il proprio concetto di bellezza, è in grado di ammaestrare le masse, indirizzandole verso una "non cultura", priva di spessore, di stabilità e intelligenza, oltre che di valore estetico.

    Così, è possibile trasmettere dei contenuti scadenti, che progressivamente affievoliscono il senso del bello, addomesticando la capacità critica. In questo modo, si allontana la gente dalle riflessioni profonde e ricche di significato che la vera e grande arte può favorire. Non a caso, Dostoevskij scriveva che "la bellezza salverà il mondo".

    Anziché educare la persona, cosa che fa l'arte vera, così, invece, si creano degli individui che rinunciano ad aspirare alle cose grandi. Li si priva della capacità di discernere nella realtà ciò che è di valore. Li si abitua ad un'esistenza povera e volgare che, a sua volta, non sarà in grado di creare cose belle.

    In sostanza, sfruttando la scarsa educazione del senso critico, dapprima si distorce la percezione della realtà, presentando tale "percezione" come una conoscenza "ben più profonda della realtà stessa", e attribuendo ad essa dei significati di cui invece essa è priva. Infine, la si giustifica sul piano estetico e ideale.

    In tal modo, si plasma l'identità di un individuo che, pur persuaso di essere padrone di se stesso e, anzi, appagato dal ritenere di avere avuto accesso ad una cultura "alta" che non tutti capiscono, è in realtà debole e manipolato delle élite intellettuali. Perchè non pensa più con la sua testa.

    Le conseguenze per l'esercizio effettivo della libertà e la maturazione della persona sono dunque drammatiche. Com'è possibile opporre resistenza a tale violenza del potere culturale? È fondamentale educare.

    Senza educazione alla bellezza, non c'è alcuna possibilità di discernere cosa è di valore da cosa non lo è.

    Ma questa educazione non è "la comprensione del significato delle opere": se così fosse, si ricadrebbe ancora nell'idea che per "capire davvero" l'arte, occorre formarsi attraverso la mediazione di una élite intellettuale detentrice delle chiavi di lettura dell'arte. E così si torna al punto di prima.

    Questo non vuol dire negare l'importanza di studiare la storia dell'arte e il contesto storico in cui sono state prodotte le opere, ovviamente, ma bisogna utilizzare tali conoscenza per meglio comprendere opere che, già da sole, senza studi particolari, sono in grado di comunicare con la parte più interiore dell'uomo.

    Occorre dunque innanzitutto aiutare a riscoprire la bellezza vera, ripartendo dai grandi maestri, dalla tradizione, a cominciare da quella classica, medievale e rinascimentale, senza denigrare le vere (poche) opere d'arte contemporanee.

    La grandezza della vera arte sta infatti nella capacità di veicolare significati ed emozioni, a prescindere da una pre-comprensione intellettualistica dalle intenzioni dell'artista. Nel suo essere universale, l'arte vera, pur toccando ciascuno in relazione alla propria storia e sensibilità, è in grado di comunicare con tutti.

    Tiziana Sembianti, pittrice (produce delle copie perfette di capolavori storici, indistinguibili dagli originali), intervistata da Stefano Lorenzetto su Il Giornale del 12 gennaio 2014 (rubrica «Tipi italiani»), dice, tra le altre cose:

    "Le cattedrali di ieri erano erette da gente che ci credeva. Le chiese di oggi sono figlie del relativismo: trattatelli di filosofia che celebrano la grandezza del nulla. Non inducono a pregare, entrandoci. Né a inginocchiarsi".

    E anche:

    "Hanno portato mia nipote Barbara, 15 anni, a vedere i "tagli" di Lucio Fontana a Torino. Al ritorno le ho chiesto: che cos'hai visto? "Tele con uno sbrego", mi ha risposto. Allora le ho detto: ricorda che se l'arte ha bisogno di essere spiegata, significa che l'artista ha fallito."

    Infatti - aggiungo io - l'artista, a quel punto, non è chi taglia la tela, bensì chi ti spiega come e perché si tratti di un'opera d'arte.

    Così, celebrati «capolavori» dell'arte moderna richiedono sempre più la presenza del critico, che ormai si comporta come il sofista dell'antica Grecia, il quale ti dimostrava tutto e il suo contrario a parole.

    Ma, dopo aver appreso che il celebre "Orinatoio" di Duchamp è un capolavoro assoluto, poi che fai? Lo compri e te lo metti in salotto? Saresti costretto ad assumere un critico e tenercelo accanto, a far da cicerone ai tuoi ospiti.

    Lo stesso, se sei un collezionista, per la Merda d'artista di Manzoni, il Piss-Christ (un crocifisso dentro a un bicchiere pieno di piscio) e la Madonna incapsulata in un preservativo. E il tuo salotto diventerebbe una cloaca.

    Per la cronaca, Tiziana Sembianti, l'autrice di copie (che non vende né espone), passa giornate intere davanti ai capolavori di Vermeer o di Caravaggio, per cercare di capire come siano stati fatti e poi riprodurli (per alcuni ci mette anni). Dice che, sebbene l'abbia scrutata per settimane, ancora non riesce a capire come abbia fatto Leonardo a dipingere la Gioconda. Cioè, a darle quei colori velati che sembrano fatti di luce.

    A cosa è dovuto l'irrompere del brutto nell'arte contemporanea (e, di conseguenza, nella nostra vita)? È semplicemente la conseguenza di un venir meno del bello?

    Purtroppo no: si tratta di una strategia della guerra culturale che da secoli si combatte contro il cattolicesimo e, più in generale, contro il Logos: contro l'armonia, contro la ragione umana come principio a cui spetta presiedere alle nostre scelte ed azioni in vista del bene, e a volte anche contro Dio, che è la Ragione (e l'Amore) di cui la nostra ragione (come la nostra volontà-amore) è imagine.

    Ogni arte è la manifestazione di un pensiero. L'arte classica, ad esempio, è l'espressione di un pensiero metafisico: il suo obiettivo è quello di rappresentare le cose come dovrebbero essere (non come sono in realtà). L'arte romantica celebra (con la letteratura, la pittura...), spesso, il trionfo delle passioni. L'arte verista o naturalista è un'arte materialista; e cosi via.

    E l'arte tardomoderna e contemporanea? Ha, spesso, salvo eccezioni (Tolkien, Chagall, Mahler, ecc.: non vogliamo generalizzare, sia chiaro), lo scopo esplicito di stravolgere il senso comune del bello, dell'ordine e dell'armonia. Qualche esempio chiarirà il concetto.

    Richard Wagner (che pur ha composto anche musiche molto belle, sia chiaro) combattè sulle barricate a Dresda accanto al rivoluzionario professionista Mikhail Bakunin, nel 1848. Dopo il fallimento dei disordini, Wagner si ritirò a riflettere, dopodiché pubblicò un libretto intitolato La Rivoluzione nell'arte (che influenzò moltissimo Nietzsche), in cui riassume le sue conclusioni: la rivoluzione non si fa combattendo sulle barricate, bensì con l'arte. L'arte è lo strumento più efficace per la guerra contro il Logos. Da quel momento, abbandonò completamente la musica tonale per dedicarsi allo studio e all'uso della musica cromatica (Wagner ha talvolta anche espresso un senso religioso, per es., nel Parsifal, che fu deplorato da Nietzsche).

    La musica tonale rispecchia la sensibilità spontanea dell'uomo (è "naturale"), è gerarchica (organizzata attorno ad un suono centrale, la nota "tonica") e teleologica (orienta l'ascolto verso la conclusione del brano).

    La musica cromatica trasgredisce tutte queste regole naturali: non ha gerarchie tra le note, non ha una tonica dominante e non è orientata verso una conclusione (è la musica, per intenderci, usata, non a caso, nella colonna sonora del celebre Shining di Kubrick, un film horror che ha un'atmosfera allucinata).

    Un altro esempio è dato dal celebre pittore Pablo Picasso, che ruppe gli schemi pittorici classici "inventando" il cubismo. In realtà, Picasso non fece altro che sostituire i volti delle Demoiselle d'Avignon (prostitute che frequentava e con le quali aveva recentemente litigato) con delle maschere africane che aveva visto poco prima ad una mostra. L'Africa era considerata, razzisticamente, una terra "senza logos": una terra nella quale le leggi morali e religiose (soprattutto quelle riguardanti la sessualità) non avevano giurisdizione. Così Picasso: "Quando ho scoperto l'arte negra, e ho dipinto quel che si dice la mia epoca negra, era per opporsi a ciò che nei musei era indicato come "bellezza".

    Altre citazioni dello stesso autore chiariranno meglio il concetto:

    "La mia adesione al Partito Comunista è il seguito logico di tutta la mia vita, di tutta la mia opera. [...] Sì, ho coscienza di avere sempre lottato con la mia pittura come un vero rivoluzionario";

    e ancora:

    "La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico".

    E chi potrebbe essere questo "nemico" se non il Logos?

    Potremmo anche citare Byron e Shelley, attivamente impegnati a realizzare la Seconda Rivoluzione Sessuale (dopo la Prima, quella illuminista, che vide il suo vertice nel marchese de Sade; e anteriormente alla Terza, che accompagnò il Sessantotto). Essi non trovarono niente di meglio, per abbattere le leggi morali e religiose che regolano la sessualità umana, che sfruttare il Romanticismo.

    Il Romanticismo - scrisse Huysmans, un romantico pentito - ruota attorno a un solo tema: l'adulterio (talvolta l'incesto; Huysmans esagera, perché i temi sono anche altri, ma comunque evidenzia un tema molto frequente). Nel romanzo romantico (da non confondersi con le storie d'amore medievali come Paolo e Francesca, Romeo e Giulietta...) la trama è spesso quella: c'è una coppia sposata e un terzo; tra la moglie e il terzo scoppia la passione e il marito si oppone. Lo svolgimento del romanzo relega il marito tradito nella posizione del "cattivo", mentre il lettore è indotto a fare il tifo per gli adulteri. Il lieto fine prevede la consumazione della passione sessuale tra i due amanti. Traduciamo: assecondare le passioni è sempre buono, le leggi morali e religiose che regolano matrimonio e sessualità sono sempre cattive.

    Potremmo continuare a lungo, ma ormai abbiamo capito il meccanismo: l'arte è un'arma (molto efficace) nella guerra culturale contro il Logos e la legge morale naturale. Ed ecco spiegato l'irrompere del brutto nell'arte: non si tratta di un decadimento del senso del bello, o almeno non solo. Si tratta di una strategia per devastare e distruggere la sensibilità delle persone per la bellezza, l'ordine e l'armonia.

    Per rovesciare l'antropologia classica - che vede la ragione, in sinergia con la volontà, a capo della persona - e sostituirla con un'altra antropologia, nella quale la persona è dominata dalle passioni, che (per i classici) non devono essere estirpate e mortificate, ma vanno coltivate ed educate.

    Non si tratta di un processo spontaneo, bensì di una strategia tanto tremenda quanto efficace per allontanare gli uomini dal Logos, che si è incarnato nella persona di Gesù. In principio era il Logos (Verbo/Parola/Ragione), e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio. Così scrive san Giovanni iniziando il suo Vangelo, presentando Gesù. L'arte tardomoderna e contemporanea, spesso, non è altro che uno strumento nella lotta eterna tra il Bene e il male.

    Nel seguente video, dal titolo "La visita alla Biennale" (durata: 9 minuti) si può vedere un simpatico spezzone di un film di Alberto Sordi alla Biennale di Venezia. La vera arte non ha bisogno di spiegazioni, né di intelligentoni che ti aiutino a coglierla. La bellezza si impone da sola: chi guarda il giudizio universale di Michelangelo non può non rimanerne affascinato... Per questo l'arte moderna non è vera arte.


    BIBLIOGRAFIA:

    Articolo di Valentina Sessa- BASTABUGIE
    Articolo di Rino Cammilleri - BASTABUGIE
    Articolo di Roberto Marchesini - BASTABUGIE
  11. .
    SAN VALENTINO: LE DICHIARAZIONI D'AMORE

    Per festeggiare San Valentino, stavolta descrivo i momenti topici delle coppie: quello della dichiarazione ("ti amo") o quello della proposta di matrimonio. Per esempio, mostriamo la più nota richiesta di matrimonio: quella di Tex.

    Tex


    Il pistolero viene catturato dagli indiani Navajos e legato al palo della tortura. Ma ecco che, all'improvviso, avviene la situazione alla Pocahontas (che a quei tempi nessuno conosceva: siamo negli anni '40-'50!). Infatti, arriva Lilyth, la figlia del capo dei Navajos Freccia Rossa, che dice che sposerà Tex. Quella, per me, fu una scena spiazzante: infatti, Lilyth e Tex non si erano mai incontrati prima, e la sconosciuta Lilyth compare per la prima volta solo adesso. E allora perchè, così di botto, all'improvviso, dice che lo vuole sposare? :huh: Per salvarlo? E perchè lo voleva salvare, lui, uno sconosciuto, addirittura sposandolo? Sembra che Lilyth abbia sentito parlare di Tex per interposta persona: infatti lei dice, in un secondo tempo, che "Tex Willer è amico di Tesah, la figlia di Orso Grigio". Però c'è un piccolo dettaglio: Tex non dice chi è, nemmeno quando Lilyth fa la sua richiesta di matrimonio. Infatti i Navajos non glie l'avevano neanche chiesto chi fosse. Quando Tex dice il suo nome - e lo fa solo durante il matrimonio, non prima - Lilyth dice che Tex è l'amico di Tesah. Quindi credo che Lilyth non conoscesse Tex, nè sapeva allora che l'uomo legato al palo era il famoso "Tex Willer" di cui le avrà parlato Tesah. Quindi il mistero rimane. Perchè l'ha fatto? Lilyth ha avuto una visione? Un'ispirazione? Non si saprà mai, perchè la squaw si è portata il segreto nella tomba. Lilyth resta sempre un mistero, un enigma. Però la sua decisione non solo salva la vita di Tex, ma gliela cambia completamente: lui diventa capo dei Navajos, ha un figlio, Kit, e il villaggio dei Navajos d'ora in poi sarà sempre la sua casa, alla quale ritornare. Eh bè, per forza: sapete, i matrimoni cambiano la vita. In meglio, anche se adesso a dire questo tutti ti guarderebbero storto, forse. Il punto è che il matrimonio è un impegno e bisogna farlo bene: anche se quello di Lilyth sembrava improvvisato (e lo era), resta il fatto di aver scelto bene il suo uomo. Tex è stato una garanzia anche come marito, non solo come pistolero, proprio come Lilyth è stata una garanzia come moglie.

    SPY X FAMILY

    C'è stata anche un'altra dichiarazione di matrimonio, del tipo "è finta, ma non troppo": Loid Forger, una spia, che come lavoro ufficiale fa lo psichiatra, deve far finta di sposarsi per fare le sue attività di spionaggio. Yor Briar, un'assassina al servizio di un misterioso committente, come lavoro ufficiale fa l'impiegata statale. Anche lei ha bisogno di far finta di sposarsi come copertura per il suo lavoro. Ufficialmente, si sposano per finta non per questi motivi, ma per evitare di essere sospettati come spie di una nazione nemica. Siamo infatti in una situazione di guerra fredda, dove le persone solitarie, i single, sono viste con sospetto perchè potenziali spie e sabotatori. E l'uno non sa dell'attività reale dell'altro.

    Spy


    Nel loro primo incontro combinato - non a scopo matrimonio, ma solo per apparire come finti fidanzati in un party - vengono inseguiti da alcuni criminali vari e i due, mentre cercano di far fronte all'attacco, si accorgono di lavorare bene insieme, anche se - ripeto - nessuno sa dell'attività dell'altro. Mentre combattono e fuggono, Yor propone a Loid di sposarsi davvero, almeno per finta. Loid è sorpreso, perchè non si aspettava che accadesse così presto. Ma, essendo lui una spia esperta, si riprende subito, e, come pegno d'amore per il futuro matrimonio, stacca una bomba a mano, la getta in mezzo ai criminali, poi prende la spoletta, che è simile a un anello, la infila nel dito di Yor, e le fa la promessa di matrimonio, mentre tutti gli altri saltano per aria. Una dichiarazione letteralmente esplosiva... :XD:

    MAISON IKKOKU

    E' stato il più lungo tira e molla da "commedia romantica". Certo, anche nelle altre coppie la storia era lunga, ma si trattava di uno sviluppo lento e costante. Qui invece è sempre stato un andare avanti di un passo, poi andare indietro di due. Incomprensioni e rappacificazioni, litigi e abbracci, gentilezza e voglia di mandarti a $%$£$$%%, rimorsi e successi, ubriacature e bocciature, gelosie e chiarimenti, ospedali e colloqui per il lavoro, mezze bugie e mezze verità, porte sbattute in faccia e porte aperte. Roba da Cime Tempestose su un ottovolante. La vedova giovane e piacente, ma complicata, Kyoko Otonashi e lo studente squattrinato Yusaku Godai, tra gioie (poche) e dolori (tanti), più di una volta sono stati sull'orlo di chiudere il rapporto, di rompere, di passare la vita in un'altra direzione. Ma, alla fine, dopo un'altra delle solite storie complicate di incomprensioni e chiarimenti, Godai si decide finalmente a dirlo: "Ti amo".

    Kyoko


    Sarà tutto a posto, da adesso in avanti? No di certo: però è stato un grande passo. Un piccolo passo per l'umanità, ma un grande passo per loro. Le incomprensioni saranno sempre più attenuate, le difficoltà saranno sempre più appianate, fino a quando si arriverà finalmente al matrimonio. E avranno una figlia, Haruka. Non penso che le cose finiranno tipo "e poi vissero per sempre felici e contenti": questo avviene in Paradiso, ma sulla Terra questo non avviene mai. Tutti e due dovranno sempre faticare per trovare un equilibrio tra di loro. E, nel trovarlo, senza che se ne rendano veramente conto, si migliorano a vicenda, si aiutano a vicenda, si perdonano a vicenda. Perchè l'amore è anche accettarsi l'uno con l'altra, così come si è, senza pretendere cambiamenti impossibili. Non esiste il matrimonio perfetto; esiste però la perfetta intesa tra l'uno e l'altro, il capirsi e perdonarsi a vicenda, nelle reciproche debolezze. Perchè solo così si diventa veri uomini e vere donne: delle vere persone. Non si ottiene nulla senza sofferenza, ma poi si ha una gran soddisfazione nel capire come nel tempo ci si è migliorati. Kyoko e Godai fanno capire che l'amore è impegno reciproco, comprensione reciproca, rispetto reciproco, pur con tute le carenze e le debolezze di entrambi. Perchè questa è la vita vera: il romanticismo non esiste. Esiste la vita quotidiana, che si affronta giorno per giorno e ci rende più uomini. Questa è la lezione di Maison Ikkoku e di Kyoko e Godai. ^_^


    TOUCH (PRENDI IL MONDO E VAI)

    Tatsuya Uesugi (Tom Brandel) e Kazuya Uesugi (Kim Brandel) sono innamorati della stessa ragazza, Minami Asakura. Tatsuya, chiamato Tacchan da Minami (un vezzeggiativo), è un buono a nulla, arriva sempre tardi a scuola, è un inconcludente, corre sempre dietro alle ragazze e le spia col binocolo. Nonostante ciò, Minami è attratta da lui. Kazuya, chiamato col vezzeggiativo Kacchan, sempre da Minami, al contrario, è un ragazzo serio, posato, bravo in tutto: nello studio, nello sport, soprattutto nel baseball: uno sport al quale Minami è appassionata, tanto da augurare a Kacchan di arrivare al Koshien, il grande campionato nazionale di baseball. Kacchan è in gamba, ed è innamorato di Minami: ma lei lo vede solo come amico, anche se non lo vuole dare a vedere per non ferirlo. Il classico triangolo amoroso, insomma. Solo che Kazuya muore in un incidente: sia suo fratello Tatsuya che Minami restano sconvolti. Tanto più che Kazuya muore proprio mentre stava andando alla stadio per il finale di baseball per raggiungere il Koshien...

    Minami


    Tatsuya, a poco a poco, si avvicina al baseball e si scopre che ha un talento sportivo equivalente, se non superiore, a quello del defunto fratello. Ma la sua pigrizia è il suo peggior nemico. Tuttavia, cerca di fare del suo meglio, sia per il fratello che per essere degno di Minami (anche se questo non lo dirà mai esplicitamente). Inoltre, la stessa Minami inizierà a specializzarsi nella ginnastica artistica. I due ragazzi, quindi, crescono e riescono a raggiungere i loro obiettivi. Anche se si deve dire che l'arrivo dell' "allenatore orco" Kashiwaba aiuta molto Tatsuya a scuotersi definitivamente dalla sua apatia. Sapete, le pedate nel sedere spesso aiutano. ^_^ E finalmente Tatsuya dirà a Minami, proprio dopo aver raggiunto il Koshien, quali sono i suoi sentimenti. Non è che sia una sorpresa, eh: praticamente era un segreto di Pulcinella, visto che lo sapevano tutti e due sin dall'inizio della storia. Ma è sempre meglio dire le cose che non dirle...

    ROCKY JOE

    Joe Yabuki ha sempre avuto un rapporto conflittuale con Yoko Shiraki: lui, un pugile venuto su dai bassifondi; lei, una ricca ereditiera, che per di più è innamorata di Tooru Rikishi, un pugile modello, che però è anche il rivale di Joe, e che lui ha ammazzato, senza volerlo, sul ring. Yoko ne era rimasta sconvolta. Sembra che non ci sia nessun rapporto tra di loro, se non quello del rancore. Joe, distrutto per la morte di Rikishi, abbandona il ring: ma, a un certo punto, incontra proprio Yoko, che gli dice chiaramente che è troppo comodo andarsene così dal ring e piangersi addosso per tutta la vita. Lui ha ucciso Rikishi, ha spaccato la mascella a Wolf Kanaguchi, un altro pugile: ha dei debiti da regolare con loro. Per quello che ha fatto, lui deve continuare a combattere e a morire sul ring. Alla fine, forse proprio per le parole di Yoko - ma questo non si saprà mai - Joe torna sul ring, ma non è ancora se stesso, e Yoko se ne accorge. Non riesce più a colpire come prima. Però, alla fine, Joe affronta Carlos Rivera, il "re senza corona"; Ryuhi Kim, il coreano che è una macchina da combattimento; anche il bestiale Harimao, per arrivare all'obiettivo: sconfiggere Josè Mendoza, il campione del mondo.
    Yoko segue con apprensione i progressi di Joe, quando viene a sapere che Yabuki sta andando a pezzi. Infatti, comincia a mostrare i sintomi del punch drunker, cioè del pugile suonato. Non riesce ad allacciare i bottoni, il suo modo di camminare è alterato, a volte sviene all'improvviso. E' la conseguenza di tutti i tremendi colpi che ha avuto nei suoi scontri. E, in quelle condizioni, se affronta Josè Mendoza, che è assai più forte dei precedenti, per Joe i danni saranno gravissimi e irreversibili. Anzi, senza che Yoko lo dica chiaramente, c'è il rischio di morire sul ring, proprio come Rikishi. Yoko cerca di dirlo a Joe, ma lui non la vuole vedere e la evita in ogni modo. L'unica maniera per incontrare Joe è raggiungerlo nel camerino, proprio prima dello scontro con Mendoza. Ed è quello che fa Yoko. Lei gli dice dei sintomi del punch drunker, ma Joe non ne rimane sorpreso: lo sapeva già. E va verso la porta del camerino per uscire e raggiungere il ring. Allora Yoko, inaspettatamente per entrambi, si mette di mezzo tra la porta e Joe, e gli dice chiaramente, piangendo, che è innamorata di lui. Joe rimane di sasso.

    Jo3
    Si legge al contrario: quindi è "Mi sono innamorata di te! Joe!", non viceversa.


    Joe torna a sedersi, perplesso: incrocia le mani e le mette sotto il mento. "Una frase simile non la dovresti dire con tanta leggerezza" "Dico sul serio" risponde lei. "E ti sembra che io stia scherzando?" Poi si alza e le dice che deve andare lo stesso. Non è che Joe non ami Yoko: anzi, dimostrerà alla fine i suoi sentimenti, dando proprio a lei i guantoni che ha usato sul ring, poco prima di morire. Ma, a volte, ci sono delle cose che vanno comunque fatte: non ci si può tirare indietro, nemmeno se te lo chiede una persona che ti ama e che tu ami.
    Per capirci, è una cosa simile all'incontro finale tra Brigid O' Shaughnessy (Mary Astor) e l'investigatore Sam Spade (Humprey Bogart) nel "Mistero del falco": lui scopre che lei aveva ammazzato il suo amico, e ha deciso di arrestarla. "Ma io ti amo" gli obietta Mary, spaventata al pensiero di andare in prigione. "Anch'io, ma questo non c'entra" risponde Humphrey "tu hai ammazzato il mio amico e tu vai dentro. Se fai la brava, ci vendiamo fra vent'anni. Se ti impiccano, mi ricorderò di te per tutta la vita."
    E' chiaro che quelli di Joe e Bogart sono casi estremi e romanzati: ma resta il fatto che amare non significa pretendere che l'altro faccia quello che vuoi tu. Yoko e Mary Astor non avevano ancora capito che un uomo, per essere tale, deve comportarsi da uomo, cioè da persona che ha un dovere morale da fare, nonostante tutto. Amore è anche capire l'altro. E Yoko, pur nel dolore, l'ha capito.

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    Mary Astor e Humphrey Bogart nel confronto finale del "Mistero del falco"

  12. .
    ZOROBIN EGGHEAD ARC - 9

    Capitolo 1081: "Kuzan, capitano della decima flotta di Barbanera" - Covercolor.
    Zoro dorme accarezzando Franky e tenendo su di sè uno scoiattolo: è l'unico scoiattolo afferrato da qualcuno. E accanto al cuscino di Zoro c'è un cuscino viola, il colore di Robin. Sembrerebbe che Zoro si stia mettendo a sognare Robin...

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    Inoltre, sarà un caso, ma gli scoiattoli interi, che sono tra i personaggi e che non volano in alto sulle bolle, sono sette, il numero di Robin (lo scoiattolo che spunta dai capelli di Brook non è a figura intera).

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    Capitolo 1084: "Il tentato omicidio di un Drago Celeste" - Covercolor
    Se osservate con attenzione la covercolor, vi accorgerete che Robin, a differenza delle altre che sono con loro, non sta osservando Nami, ma Bibi (o Vivi)

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    Bibi era stata con la ciurma di Rufy prima di Robin, che poi l'ha sostituita: ebbene, Bibi si rivolgeva a Zoro col termine "samurai-san", come poi farà anche Robin. E Bibi ha una maglietta di colore verde (il colore di Zoro) con su una tigre (il simbolo di Zoro). La tigre è rosa, il colore di Chopper (il "figlio" di Robin e Zoro). Inoltre, Yamato ha i capelli verdi accanto a quelli viola (il colore di Robin) della bambina Tama.

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    Capitolo 1088: "La lezione finale" - Covercolor
    Zoro ha accanto a sè le immagini di Mihawk, il suo avversario (colorato di verde), e quella di Arlong, colorato di viola. Le due immagini sono adiacenti, e il verde è il colore di Zoro, mentre il viola è quello di Robin.



    Capitolo 1091: "Sentomaru" - Covercolor
    Zoro mangia la pizza con due fenicotteri attorno a lui: l'uccello è il simbolo di Robin, e due è il numero di Zoro. Ci sono anche tre cappelli neri: il tre è il numero delle spade di Zoro. E i due uccelli hanno gli occhiali: Robin è una persona che legge molto.

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  13. .
    MEGLIO E PEGGIO: I MANGA

    I GIORNI DELLA SPOSA N. 14 - VOTO: 9 - UNA GARA COI CAVALLI
    Ogni disegno, un quadro.

    Autrice (sceneggiatura e disegno): Kaoru Mori

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    Questa coppia (Azer, l'uomo, e Jahan Bekhe, la donna) ha gli abiti di matrimonio tipici dell'ambiente freddo e ventoso della steppa della Via della Seta di fine Ottocento.


    Ormai "I giorni della sposa" ("Otoyomegatari" nell'originale) esce a cadenza annuale o anche di più: il numero 12 è uscito nel 2020, il 13 nel 2021 e questo, il 14, nel 2023, ben due anni dopo! =_= Purtroppo, l'autrice ha avuto dei problemi di salute: il 17 Aprile 2023 aveva dichiarato, sul blog ufficiale della rivista Aokishi della Kadokawa, dove il manga è pubblicato, di soffrire di una malattia non specificata.


    La rivista Aokishi cioè "Cavaliere blu", dove è pubblicato "I giorni della sposa". Non è vincolata a un genere narrativo particolare: ha storie di azione, o commedia romantica, o narrativa storica, o strisce con quattro vignette, eccetera.


    La mangaka ha sofferto di dermatite allergica e artrite calcifica verso la fine del 2022; inoltre, ha iniziato a soffrire di mal di testa a causa della sindrome da vasocostrizione cerebrale reversibile all'inizio del 2023. Non si trattava di stress, perchè lei aveva detto che prima non si sentiva stressata. Ha avuto sonnolenza e dolore alle dita, il che rendeva difficile il disegnare. Ha dovuto fare anche un intervento chirurgico per la rimozione di fibromi uterini. Ora si sta riprendendo. Speriamo che stia meglio: attualmente, in Giappone è appena uscito un altro episodio di Otoyomegatari, col tratto sempre sicuro dell'autrice. Quindi si può ben sperare.

    Giorni-della-sposa-14a-6
    I cavalli sono gli animali preferiti dell'autrice, e lei ama un sacco disegnarli. Tanto per dire: notate che i due cavalli qui disegnati sono di razza diversa. :huh: Su Tex, la Mori sarebbe straordinaria: peccato che lo stile manga non andrebbe assolutamente bene per il pistolero...


    In questa storia, assistiamo a una sfida tra il pretendente sposo, Azer, e la sposa che dovrebbe accettare il matrimonio, Jahan Bekhe. La sfida consiste in una corsa coi cavalli, per afferrare una freccia e riportarla indietro: il primo che arriva vince. Le immagini dei cavalli che corrono sono un capolavoro: sembra davvero di sentire il vento che ti passa davanti mentre leggi. E bisogna ricordare che i cavalli sono la cosa più difficile da realizzare per un disegnatore...

    I dialoghi sono secchi, perfettamente ben calibrati. C'è molto spazio per le immagini, che tolgono il fiato: ogni inquadratura descrive un momento, un movimento, e il paesaggio della steppa che si vede a perdita d'occhio è piena di dettagli precisi che non appesantiscono mai la scena. Ogni ciuffo d'erba è al suo posto. Ogni tessuto, ogni tappeto, ogni orecchino sono ricchi di particolari che ti fanno perdere in un labirinto, se li guardi con attenzione: ma non sono mai invasivi.

    I giorni della sposa è un'opera completamente fuori scala rispetto ai manga di adesso. Come sappiamo, l'ambientazione è l'Asia Centrale dell'800: quella di Michele Strogoff, per capirci. Anche se lui era russo e qui siamo fuori dai confini della Russia. Anzi, i nomadi della steppa sanno che prima o poi dovranno combattere proprio contro i Russi: credo che sia un preludio alla Guerra di Crimea (1853-1856).

    Ma queste sono situazioni appena accennate: è la quotidianità il vero protagonista del racconto, in cui Kaoru Mori osserva la vita comune dei nomadi, la loro cultura, i loro abiti, i tappeti, i ricami, le acconciature, persino il cibo e la preparazione del pane.

    I protagonisti principali sono i due sposi seminomadi Amira e Karluk: tuttavia, questa è una storia corale che gira soprattutto intorno alle coppie e ai matrimoni che possono avvenire tra i personaggi, tutti ottimamente caratterizzati. Azer è fiero e orgoglioso, ma la sua promessa sposa, Jahan Bekhe, lo è ancora di più: il loro scontro provoca davvero scintille. Questo è un manga che raggiunge livelli di qualità eccezionali: si merita un 9 pieno. ^_^

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    Amira e Karluk assaggiano i melograni. Notante l'incredibile complessità del vestito di Amira.

  14. .
    PARADISO CANTO 14 - QUARTO CIELO DEL SOLE: SALOMONE E LA RISURREZIONE DEI CORPI - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE

    Paradiso-14
    Sempre più in alto: excelsior.


    BEATRICE SVELA UN DUBBIO DI DANTE SULLA RESURREZIONE DEI CORPI; CANTO E DANZA DEI BEATI

    Come la superficie dell'acqua, che è sull'orlo di un vaso pieno, quando è colpito da un colpetto all'esterno, forma, come reazione all'azione, delle onde concentriche che vanno dal bordo al centro; oppure, se si è gettato un sasso nell'acqua, forma delle onde che vanno dal centro al bordo, così a Dante sembra sia la voce di Beatrice, che ora risuona, quando San Tommaso d'Aquino tace, dopo aver parlato nei precedenti Canti. Infatti, dalla voce interrotta di Tommaso, risuona, come un'onda, quella di Beatrice, che è stata zitta lungo tutti i Canti in cui San Tommaso ha parlato.

    Infatti, lei svela alle anime sapienti, che sono insieme a San Tommaso, il nuovo dubbio di Dante, anche se lui non l'ha ancora detto nè pensato. In Paradiso non solo si legge il pensiero: si sa già anche ciò che penserai.

    Il nuovo dubbio di Dante è questo: quella luce che avvolge i beati, così intensa e potente, rimarrà con loro quando i loro corpi saranno risorti? Bisogna ricordare che Dante è in Paradiso prima del grande Giorno del Giudizio, quando Dio giudicherà tutta l'umanità e ciascuno riavrà il proprio corpo. Quindi, per adesso, tutti, sia all'Inferno, che in Purgatorio, che in Paradiso, o soffrono o gioiscono, ma nessuno di loro - salvo rare eccezioni, di cui parleremo più avanti - ha il proprio corpo.

    Inoltre, come corollario, Dante si chiede: quando avranno i loro corpi, la loro vista - visto che vedranno con gli occhi del proprio corpo - potrà sostenerne lo sguardo di una luce così grande?

    Ora le anime dei beati, che danzano nel loro cerchio, sono invitate a spiegare la cosa a Dante. E lo fanno in un modo che a Dante ricorda quelle persone che danzano in cerchio e, spinte da una maggior gioia, alzano la voce e rendono ancora più lieti i loro gesti: i beati, infatti, cantando e girando in danza in modo meraviglioso e ancora più accentuato di prima, mostrano la loro gioia nel rispondere. Nel vedere questo, Dante nota che chi teme la morte, che ci destina alla vita eterna in Paradiso, non ha evidentemente visto la gioia della beatitudine mostrata da queste anime.

    Esse intonano tre volte un canto che inneggia alla Trinità, con una melodia tale che sarebbe il giusto premio per qualunque merito:

    Qual si lamenta perché qui si moia (Chi si lamenta del fatto che si muore sulla Terra)
    per viver colà sù, non vide quive (per vivere in Cielo, non ha visto in questo luogo)
    lo refrigerio de l’etterna ploia. (il refrigerio (l'appagamento) dell'eterna pioggia (beatitudine).

    Quell’uno e due e tre che sempre vive (Quel Dio che è uno e trino e vive sempre)
    e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno, (e regna in questa Trinità,)
    non circunscritto, e tutto circunscrive, (non circoscritto e tale da circoscrivere ogni cosa,)

    tre volte era cantato da ciascuno (era cantato tre volte)
    di quelli spirti con tal melodia, (da quelli spiriti con una melodia tale)
    ch’ad ogne merto saria giusto muno. (che sarebbe il giusto premio ("muno": da "munus", premio: è un latinismo) a qualunque merito.("merto")

    Dante ha descritto la Trinità con un raffinato chiasmo (cioè, l'inversione reciproca di due concetti):

    "Quell'uno e due e tre che sempre vive
    e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno"
    ,

    in cui c'è perfetta corrispondenza fra i tre numeri (uno e due e tre; tre e 'n due e 'n uno) e i verbi "vive / regna", separati in entrambi i versi dall'avverbio "sempre".

    SALOMONE RISOLVE IL DUBBIO DI DANTE

    Ora, Dante sente una voce che viene dalla Prima Corona dei Beati, che è inscritta nella Seconda Corona: è quella di re Salomone, anche se nel poema questo non si dice esploicitamente.

    La voce di Salomone viene da un punto dove risiede una ancora luce più luminosa delle altre della Prima Corona. Per dire "luminoso", "splendente", Dante usa la parola "dia", cioè "divina": "luce più dia". Inoltre, Dante descrive la voce di Salomone come una voce modesta, umile, simile forse a quella dell'arcangelo Gabriele, quando fece l'Annunciazione a Maria. Non si sa perchè Dante abbia fatto un'associazione simile.

    La voce di Salomone (lui non si fa vedere da Dante, resta nella Corona) spiega al poeta che, fino a quando durerà la festa del Paradiso, cioè per sempre ("Quanto fia lunga la festa / di paradiso"), il loro amore sempre splenderà con questa luce ("si raggerà dintorno cotal vesta", cioè "irradierà intorno a noi questo splendore".) E quello splendore è il riflesso dell'amore divino e della Grazia illuminante, su di loro. Questo è già grande, immenso, mentre sono in quello stato, cioè senza il loro corpo: ma lo sarà ancora di più, quando, nella Risurrezione e nel Giudizio finale, ciascuno di loro si riapproprierà del proprio corpo risorto. Allora sarà la completa beatitudine e gioia. Ecco come Dante spiega la resurrezione dei corpi nelle sue terzine:

    Come la carne gloriosa e santa (Non appena ci saremo rivestiti della nostra carne gloriosa e santa,)
    fia rivestita, la nostra persona (la nostra persona)
    più grata fia per esser tutta quanta; (sarà più gradita (a Dio) perchè sarà nuovamente integra;)

    per che s’accrescerà ciò che ne dona (perciò sarà maggiore il dono)
    di gratuito lume il sommo bene, (di grazia divina che ci viene elargito da Dio,)
    lume ch’a lui veder ne condiziona; (dono che ci permette di contemplarlo;)

    Aumentando la visione di Dio, aumenterà anche il loro ardore di carità, cioè il loro amore. Tuttavia, il corpo resterà visibile all'interno della luce, proprio come il carbone che arde è visibile nella fiamma che lo avvolge, e la loro vista potrà sostenere lo sguardo della luce, perché gli organi del corpo saranno rafforzati:

    né potrà tanta luce affaticarne: (e un tale splendore non potrà abbagliarci:)
    ché li organi del corpo saran forti (poiché gli organi del corpo saranno rafforzati)
    a tutto ciò che potrà dilettarne. (per poter godere di tutto ciò che potrà darci gioia)

    Tra l'altro, si pensa che la similitudine del carbone sia stata tratta dalle Sentenze di san Bonaventura: "il corpo che risorgerà avrà per sua natura un colore tale e sarà avvolto da una tale luminosità come il carbone è avvolto dalla fiamma".

    Ovviamente, questa è solo un'ipotesi di San Bonaventura, che cerca di descrivere ciò che non si può descrivere: nessuno può dire chiaramente come saremo una volta risorti. Queste sono cose oltre l'umano, non si possono spiegare. Fare paragoni col carbone e le fiamme fa solo pensare di diventare in Paradiso dei carboni infiammati, non spiega bene la cosa. Saremo sempre noi stessi, questo sì, ma non si può capire umanamente cosa diventeremo. Resta il fatto che alla resurrezione parteciperà comunque anche il nostro corpo, proprio quello che abbiamo qui. Per questo il Cristianesimo ha sempre rifiutato la reincarnazione, e pure la cremazione (che è il rifiuto del credere nella rusurrezione dei corpi).

    Risurrezione
    La Resurrezione di Cristo è l'anticipazione della resurrezione dei nostri corpi.



    APPARIZIONE DI ALTRE ANIME

    Dopo che Salomone ha finito la sua spiegazione, tutti gli altri spiriti pronunciano insieme "Amen", cioè: "Sì, "Così sia", "Così è". Tra l'altro, Dante, al posto di "Amen", dice "Amme", che è la forma toscana di "Amen", diffusa in quei luoghi ancor oggi.

    I beati, dicendo così, manifestano il loro grande desiderio di riavere i loro corpi mortali. E forse non solo per loro, ma anche per le loro madri e tutti i loro cari, che non hanno più rivisto nella carne da quando sono divenuti beati.

    Improvvisamente, Dante vede aumentare la luce tutt'intorno, come l'orizzonte quando si rischiara, e gli sembra di intravedere le luci di altri beati, come a sera, quando si scorgono le prime stelle in cielo e non si è sicuri di distinguerle bene. I nuovi spiriti compiono un giro attorno alle prime due corone e la loro luce (chiamata da Dante "vero sfavillar del Santo Spiro", cioè "autentico sfolgorio dello Spirito Santo") diventa tale che la vista di Dante ora non riesce più a sostenerla.

    ASCESA AL CIELO DI MARTE

    Beatrice, in quel momento, si mostra così bella al poeta che per lui è impossibile descriverla, come le tante altre cose viste durante questo viaggio ultraterreno. Quando Dante può rialzare lo sguardo, si accorge di essere salire più in alto, verso il Cielo superiore: il Quinto Cielo, quello di Marte, dove ci sono gli Spiriti Combattenti per la fede:

    vidimi translato / sol con mia donna in più alta salute. (vidi che ero stato trasportato con Beatrice a un più alto grado di beatitudine (nel Cielo seguente, di Marte).

    Dante capisce di essere salito al Cielo superiore perchè la stella (o il pianeta, ma Dante lo chiama "stella") che lui sta osservando è di colore rosso, che è il tipico colore di Marte. Anzi, qui è più intenso del solito:

    Ben m’accors’io ch’io era più levato, (Mi accorsi di essere salito più in alto,)
    per l’affocato riso de la stella, (per lo splendore pieno di fuoco della stella)
    che mi parea più roggio che l’usato. (che mi sembrava più rossa ("roggio") del solito ("usato").

    Il termine "riso", qui tradotto con "splendore", è stato messo da Dante con un'ardita estensione semantica: il "riso" qui significa "spirito fulgente di letizia", "anima gioiosa di Paradiso" e, per estremo, come "splendore", "luminosità". Il riso, infatti, fa splendere i volti: da qui l'associazione di Dante tra riso e splendore.

    APPARIZIONE DELLA CROCE

    Subito dopo, Dante rende grazie a Dio, che gli ha concesso un tal privilegio di arrivare fino a quel punto. O meglio, "a Dio feci olocausto", cioè "feci offerta di me stesso a Dio".

    "Olocausto" significa "offerta", "sacrificio": quindi Dante ringrazia Dio facendo offerta di tutto se stesso. Infatti, in greco, olocausto (da "holos", "tutto", e "kaio", "brucio") significa "vittima interamente bruciata" come offerta agli dei.

    Dante capisce che la sua offerta è stata bene accetta, perchè vede due raggi luminosi, con luci rosse e bianche molto intense all'interno ("tanto lucore e tanto robbi": "tanto luminosi e tanto rossi"). Questi due raggi sono disposti a croce ("venerabil segno") nella profondità di Marte ("nel profondo Marte"), cioè davanti al pianeta di Marte. I due raggi si intersecano perpendicolarmente, come fanno gli assi che dividono il cerchio - in questo caso, il pianeta Marte - in quattro quadranti uguali: la croce che ne risulta è quindi una "croce greca", a bracci uguali. In sostanza, un più (+).

    Nel vedere questo, Dante esclama estasiato: "O Dio, tu li abbellisci così!" cioè "O Eliòs che sì li addobbi!". Eliòs è il nome greco del dio Sole, ma qui Dante intende riferirsi a Dio. Anche perchè usa la pseudo-etimologia di Ely, il nome ebraico di Dio, preso dall'etimologo Uguccione da Pisa. Da notare anche l'"Elaì" pronunciato da Gesù sulla croce: "Mio Dio, Mio Dio, perchè mi hai abbandonato?" cioè "Elaì, Elai, lemà sabactani"?

    In questi due raggi a croce scorrono veloci delle luci, simili alle stelle più o meno luminose di cui è costellata la Via Lattea, distesa tra gli opposti poli celesti. Dante non saprebbe descrivere quella croce, perché in essa è come se lampeggiasse Cristo, anche se il poeta non riesce a capire come. Quindi i lettori dovranno cercare di immaginare da sé quale fosse la visione del poeta.

    Nelle terzine in cui Dante descrive questo fatto, pronuncia il nome di Cristo tre volte, facendo tre rime con la stessa parola, e richiamando nello stesso tempo la Trinità. Infatti, i richiami alla Trinità nel Paradiso sono numerosi.

    Croce-di-Marte
    Dante contempla la grandiosa Croce nel Cielo di Marte.


    Lungo i bracci orizzontali e verticali della croce, le luci dei beati (gli spiriti combattenti per la fede, come abbiamo detto) corrono con un forte sfolgorio quando si incontrano, simili ai corpuscoli di polvere che talvolta si vedono all'interno di un raggio di luce che filtra attraverso una fessura:

    Di corno in corno e tra la cima e ‘l basso (Lungo l'asse orizzontale ("di corno in corno, quindi da una parte all'altra") e lungo quello verticale della croce)
    si movien lumi, scintillando forte (si muovevano dei lumi (gli spiriti combattenti), che scintillavano intensamente)
    nel congiugnersi insieme e nel trapasso: (quando si univano e passavano oltre:)

    I beati intonano un canto indicibile, paragonabile alla nota indistinta emessa da uno strumento a corde come l'arpa, tale da far rapire Dante in spirito. Egli capisce solo che si tratta di un inno di lode, poiché distingue le parole «Risorgi» e «Vinci».

    DANTE E' RAPITO IN ESTASI

    Dante è a tal punto incantato da tutto ciò, che nessun'altra cosa vista fino a quel momento (Beatrice compresa) sembra avergli fatto un simile effetto.

    Dante specifica: forse le sue parole sono sembrate eccessive, poiché qui ha anteposto quello spettacolo alla bellezza indicibile degli occhi di Beatrice. Tuttavia, Dante spiega al lettore che lo sguardo della donna amata, Beatrice, acquista sempre maggior bellezza man mano che si sale nei Cieli, e lui, nel nuovo cielo di Marte, non ha ancora osservato gli occhi di Beatrice. Dante, conclude lui, può quindi essere scusato per la sua affermazione, non avendo egli escluso che la bellezza degli occhi di Beatrice sia superiore a quella del Cielo di Marte. Il Canto finisce con questa curiosa precisazione fatta dal poeta.

    COMMENTO

    Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, corrispondenti al dubbio di Dante sulla resurrezione dei corpi, svelato da Salomone, e all'ascesa al Cielo di Marte, con l'apparizione della croce degli spiriti combattenti. E' una sorta di "passaggio" che chiude la lunga parentesi dedicata agli spiriti sapienti del Cielo del Sole e le due corone dei Dodici Beati, per introdurre il lettore al trittico dei prossimi Canti (il 15°, il 16° e il 17°), che saranno tutti dedicati all'antenato di Dante, il combattente crociato Cacciaguida, e alla definizione dell'alta missione del poeta.

    Questo Canto si apre con Beatrice (e, curiosamente, si conclude parlando di Beatrice). Dopo un silenzio durato tre canti (11, 12, 13), lei riprende il suo ruolo di guida e si rivolge alle anime del Cielo del Sole, cioè gli Spiriti Sapienti, invitandole a sciogliere il dubbio di Dante, che lei aveva intuito prima ancora che il poeta l'avesse pensato. Dante ricorre a un'immagine semplice e familiare, quella delle onde concentriche sulla superficie d'acqua di un vaso, che vanno dall'orlo al centro se il vaso è percosso, e viceversa se si getta qualcosa nell'acqua, per rappresentare la voce di san Tommaso, che va dalla corona dei bati a Beatrice e da lei ai beati.

    Il dubbio del poeta riguarda la resurrezione dei corpi mortali e la loro luminosità, quando i beati se ne saranno rivestiti: se cioè questa luminosità aumenterà e, in tal caso, se i loro occhi corporei potranno sostenerne la vista. La questione, ampiamente dibattuta dalla dottrina cristiana del tempo, era stata già accennata da Virgilio nel sesto canto dell'Inferno. Infatti, alla domanda di Dante circa la maggiore o minore intensità delle pene dei dannati dopo la resurrezione dei corpi, Virgilio aveva risposto usando la fisica aristotelica (non la visione di fede) e aveva precisato che l'unione di corpo e anima renderà quest'ultima più perfetta, quindi aumenterà maggiormente la sensibilità al dolore o alla gioia.

    Beatrice, poi, era tornata sull'argomento della resurrezione dei corpi nel settimo canto del Paradiso, affermando che essi sono incorruttibili, in quanto creati da Dio, e perciò destinati a risorgere alla fine dei tempi, dopo aver perso temporaneamente tale perfezione in seguito al peccato originale.

    Il problema viene poi definitivamente risolto da Salomone, che è l'anima che risponde all'appello di Beatrice, e svela il dubbio di Dante. Anche se non è stato indicato col nome, l'identificazione di questo beato trova concordi quasi tutti i critici, anche se con alcune eccezioni, data l'ambiguità del passo. Il re biblico spiega che la luce di cui i beati sono rivestiti non solo resterà dopo la resurrezione dei corpi, ma aumenterà a causa della loro accresciuta capacità di vedere Dio, il che amplificherà la loro gioia e, di conseguenza, il loro splendore.

    Non per questo il corpo sarà invisibile, poiché lo si potrà vedere come il carbone avvolto dalla fiamma, per cui i beati saranno visibili l'uno all'altro e la luminosità dei loro corpi non arrecherà danno alla loro vista, poiché i loro occhi saranno rafforzati, come tutti gli organi dei loro corpi terreni. Dante precisa dunque che i beati riacquisteranno il loro aspetto terreno e potranno vedersi reciprocamente, il che sarà una consolazione e una gioia, in quanto permetterà di rivedere i volti delle persone amate sulla Terra: è quanto il poeta afferma descrivendo la gioia dei beati alle parole di Salomone e il loro desiderio di riavere i loro corpi materiali.

    La gioia dei beati alle parole di Salomone è poi accompagnata dall'apparizione di altre anime di spiriti sapienti, che circondano le due corone e fanno aumentare ancora di più lo splendore del Cielo, preparando l'ascesa del poeta e di Beatrice a quello successivo di Marte.

    Il Cielo di Marte ha un colore rosseggiante: alla luce bianca e abbagliante del Cielo del Sole, che abbiamo seguito finora, si sostituisce quindi quella rossa della stella di Marte, su cui spicca ben presto la croce rossa-biancheggiante in cui si muovono le luci rosse e bianche degli spiriti combattenti (è stato osservato che questo Canto può essere definito «della luce», anche per l'argomento trattato nella prima parte).

    La croce è paragonata alla Via Lattea che si distende fra gli opposti poli celesti, quindi il suo colore è bianco come quello della Fede (gli spiriti rossi e bianchi di questo Cielo combatterono in nome di essa) e il suo simbolo rimanda al sacrificio di Cristo e alla redenzione dal peccato originale. E' possibile che sia stato anche un richiamo alle Crociate, cui rimandano personaggi come il crociato Cacciaguida e altri spiriti inclusi da Dante in questa schiera.

    I beati non formano la croce, ma si muovono lungo gli assi orizzontale e verticale di essa, come luci di colore rosso e bianco paragonati ai corpuscoli di polvere che attraversano un raggio di luce che filtra attraverso una fessura, con un'immagine altrettanto familiare rispetto a quella di apertura di Canto (le increspature dell'acqua sulla superficie di un vaso colmo).

    Nonostante ciò, la raffigurazione ha qualcosa di grandioso e prepara in tono solenne la presentazione dell'avo Cacciaguida nel Canto seguente, in quanto nella croce sembra lampeggiare Cristo (Dante si scusa col lettore di non poterne dare una descrizione adeguata, in accordo alla poetica dell'«inesprimibile») e i beati intonano un inno di lode di cui il poeta non coglie che poche parole, «Risorgi» e «Vinci», che rimandano alla resurrezione di Cristo.

    La melodia del canto è di una bellezza indicibile, tale da rapire Dante in estasi, al punto di posporre la gioia per questo spettacolo alla bellezza degli occhi di Beatrice (e già al suo ingresso in questo Cielo il poeta aveva sentito l'esigenza di fare olocausto, «offerta di tutto se stesso» a Dio per ringraziarlo della grazia che gli ha concesso).

    L'insistenza con cui, nei versi finali, Dante si scusa per aver osato mettere in secondo piano la bellezza della donna rispetto allo spettacolo celeste si spiega con il valore allegorico di Beatrice, che rappresenta la teologia, cioè lo studio e la contemplazione di Dio, che può tuttavia essere posposta alla magnificenza del trionfo della croce, che Dante contempla.

    Il poeta sottolinea, comunque, che non ha ancora guardato gli occhi di Beatrice da quando è asceso al Cielo di Marte, e poiché essi si fanno più belli man mano che si sale, non può escludere che il loro splendore sia superiore a quello del Cielo stesso.

    BIBLIOGRAFIA
    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xiv.html
  15. .
    32 - LA SIGNORA LALECLIE (LA ROCQUERIE)

    Paul, il fratello di Rosalie, incontra Peline vicino alla sua casetta/rifugio di caccia: sta raccogliendo le bacche. Il ragazzo ne assaggia una e dice disgustato:
    "Ma sono aspre!"
    "Lo so, ma con queste ci farò la marmellata. Te la farò assaggiare."
    "Grazie. Senti, Aurelie, ho un biglietto per te."
    Peline lo legge: è un invito a pranzo da parte di Rosalie.
    "Dille che accetto. Verrò verso mezzogiorno, va bene?"
    "D'accordo" risponde lei a Paul. Il ragazzo aggiunge: "Posso portare con me Barone?"
    "Se lui è d'accordo, sì" e Paul se ne va col cane.

    a8


    Ormai è da un mese che Peline vive lì: il salario per vivere è insufficiente, ma lei si arrangia. Prepara la marmellata di uva spina con le bacche. Intanto, Rosalie porta fuori il tavolo e arriva Paul col cane.
    "Aiutami, invece di stare lì" gli dice la sorella.
    "Senti, posso tenermi Barone?"
    "Ma cosa dici? Aurelie ci tiene a quel cane da tanto tempo, è uno di famiglia ormai. Non te lo può mica dare!"
    Rosalie parla poi al padre:
    "Aurelie è stata molto gentile ad invitarmi, perchè non le prepari qualcosa di buono?"
    "Preparerò una bistecca, va bene?"
    "Ottimo! Grazie, papà!"

    P1a


    Peline va da Rosalie con in mano il nuovo barattolo di marmellata. Vede l'ingegner Fabry che corre via e lo saluta, però lui le dà un saluto affrettato e corre lontano. "Avrà qualche problema" pensa lei. Peline arriva e offre la marmellata a Rosalie: è molto buona.
    "Ma dove hai imparato a farla?" chiede Rosalie.
    "Quando viaggiavo con mia madre, facevo spesso queste cose."
    Ad un certo punto, arriva l'ingegner Fabry: dice che c'è bisogno di qualcuno che porti la carrozza. Il signor Bendit, il dipendente di Pandavoine, che è l'interprete per gli inglesi che collaborano con l'azienda, sta male: ha avuto la polmonite e bisogna portarlo subito in ospedale.
    "Ma io non posso lasciare l'osteria" dice il padre di Rosalie.
    "Bisogna trovare qualcuno che guidi la carrozza a tutti i costi, non posso farlo io: devo badare a Bendit durante il trasporto! E oggi è domenica, non trovo nessuno!"
    "Se volete, posso farlo io" dice Peline "so guidare una carrozza."
    "Sul serio?"
    "Certo."
    "Va bene, andiamo."

    P2a


    Peline si allontana:
    "Torno appena finito, scusatemi" dice a Rosalie.
    "Ti aspettiamo."
    Partono, e Peline chiede:
    "Volete che rallenti? Gli scossoni potrebbero disturbarlo..."
    "No, no, anzi, vai più veloce che puoi. Non bisogna perdere tempo!" risponde Fabry.
    "Va bene" e la carrozza vola.
    Bendit, nel delirio, scambia Peline per un angelo a cassetta che guida. In poco tempo, raggiungono l'ospedale, e, passando, Peline vede la sua vecchia conoscente, La Rocquerie, con l'asino Palikare. Raggiunto l'ospedale, Fabry entra subito lì con Bendit.
    "Puoi aspettarmi qui, Aurelie, grazie."
    "Va bene."

    P3a


    Mentre Fabry è occupato, Peline va alla ricerca di Palikare, che aveva appena visto. Lo chiama e alla fine lo trova, insieme a La Rocquerie.
    "Ma che sorpresa, Peline! Come te la passi?" dice lei appena la vede.
    "Sono qui solo di passaggio. Ho trovato lavoro al cotonificio."
    "Bene. Vivi con tuo nonno, adesso?"
    "No, purtroppo."
    "Ti ha respinto?"
    "No, non è così. Non sono ancora riuscita a presentarmi."
    "Ricorda che, se non ti interessa stare con tuo nonno, puoi lavorare con me."
    "No, appena possibile mi presenterò a mio nonno."
    "D'accordo."

    Fabry esce dall'ospedale e vede Peline che saluta Palikare e La Rocquerie. Ad un certo punto, la donna si rivolge a Peline, che stava andando verso la carrozza di Fabry: "Peline, ti verrò a trovare a Maraucourt."
    "Certo, ti aspetto!" e lei la saluta.

    P4a


    Fabry è perplesso: quella donna aveva chiamato Aurelie con un altro nome, Peline. Però non dice nulla e tornano indietro in carrozza.
    "Come sta il signor Bendit?" chiede Peline.
    "Ora è fuori pericolo, ti ringrazia. Ma dovrà stare in ospedale per un pò. E' un problema, però, perchè è l'unico a conoscere bene l'inglese."
    "Non c'è nessun altro che sa inglese?"
    "Io e il signor Mallaux lo conosciamo solo a grandi linee. Ci vorrebbe un buon interprete."
    "Io conosco l'inglese" dice Peline.
    "Come?" chiede Fabry sorpreso.
    "Mia madre conosceva l'inglese, me l'ha insegnato."
    "Ma tu parli anche francese..."
    "Mio padre era francese."
    Fabry è pensieroso.
    "Senti, Aurelie..."
    "Sì?"
    "Quella donna con cui hai parlato prima ti aveva chiamato Peline."
    La ragazza sobbalza.
    "Aurelie non è il tuo vero nome, giusto?"
    "No. Ma non lo dica a nessuno, per favore."
    "Vorresti raccontarmi la tua storia, se vuoi?"
    "La ringrazio, ma non posso."

    Tornano indietro in tempo per il pranzo e Peline mangia con Rosalie. Si mettono a tavola e Peline assaggia, dopo molto, molto, molto tempo, una bistecca preparata con cura e quasi si commuove: "Mi sembra di sognare, è eccezionale! Non mangiavo della carne così buona da tanto" commenta Peline.
    "Domani Rosalie torna in fabbrica" dice il padre.
    "Bene" commenta Peline.
    "Ti porterò da mangiare" dice Rosalie. Peline è commossa e quasi piange.

    P5a



    COMMENTI

    Il passaggio in cui Rosalie saluta Peline, raccomandandole di stare attenta, quando lei parte col malato in carrozza, è stato tagliato nella versione doppiata in italiano e trasmessa in TV; qui (nel DVD) è stato reinserito coi sottotitoli.

    Inoltre, la lettera con la quale Rosalie invita Peline a mangiare a casa sua è in francese:
    "Mademoiselle Aurelie, merci beaucop de votre aimable invitation l'autre jour. J'aites-moi l'honneur de venir de jeuner avec moi aujourd'hui. Rosalie", cioè: "Signorina Aurelie, grazie mille per il suo gentile invito dell'altro giorno. Per favore, ci faccia l'onore di venire a mangiare da me oggi. Rosalie". Una lettera molto educata.
    Comunque, in francese "mangiare" si dice "mangler", non "jeuner", che, al contrario, significa "digiunare"...

    a9

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