DIVINA COMMEDIA NAGAI

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    LA DIVINA COMMEDIA, CONFRONTO FRA ORIENTE E OCCIDENTE: DANTE ALIGHIERI E GO NAGAI

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    Go Nagai, autore di famosi manga e anime come Mazinga, Goldrake e Devilman, affascinato dalla cultura occidentale e dall’opera “Divina Commedia” di Dante, nel 1993 realizzò la trasposizione del famoso testo in un manga. Essendo orientale di origine, di cultura e di religione, Go Nagai non potè fare a meno di interpretare Dante secondo il suo background culturale e religioso, senza quindi considerare la religione cristiana cattolica, che è invece un presupposto essenziale per capire l’opera. In questo modo, si ha un Dante panteistico e orientaleggiante che non ha nulla a che vedere col Dante reale. Però questo permette di mettere a confronto la religione cristiana con quella orientale, sottolineandone le differenze. E’ molto utile per capirle entrambe.

    INFERNO ABOVE ALL

    Ad un primo sguardo, si può notare che l'Inferno occupa quasi tutto il manga: circa i due terzi dell'opera sono incentrati sulle bolge infernali. Il breve Purgatorio è impostato in un modo abbastanza simile all'Inferno e il Paradiso è presentato sbrigativamente. Infatti, è una costante il fatto che, dei tre volumi della Divina Commedia, nel mondo dei fumetti l'Inferno sia sempre la parte più trattata. Forse perchè è la più facile da capire e da trattare. Gli esempi sono molti: basti pensare all'Inferno di Topolino di Martina e Bioletto (1949), replicato poi con l'Inferno di Paperino di Giulio Chierchini e Massimo Marconi (1987).

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    O del Dante di Marcello Toninelli, che è più famoso per le sue strisce sull'Inferno che sulle successive sul Purgatorio e Paradiso, richiesti nientemeno che dal direttore del giornale cattolico Il Giornalino, don Tommaso Mastrandrea: infatti, complessivamente, con le sue battute, questa è un'opera che si avvicina molto alla blasfemia.

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    Ma si potrebbe continuare: per esempio, la discesa nell'aldilà dei Cavalieri dello Zodiaco nell'ultima parte del manga di Kurumada: una saga ambientata in sostanza solo nell'Inferno dantesco. Insomma, spesso sono le parti dell'Inferno di Dante quelle più ricordate, invece delle altre.

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    L'IMPOSSIBILITA' DI DESCRIVERE CERTI TEMI

    Ma bisogna tenere presente il fatto che Dante all'Aldilà - Inferno, Purgatorio, Paradiso - ci credeva davvero, come pure credevano e credono ancora i cristiani di oggi, compreso il sottoscritto. Nagai e, probabilmente, anche gli altri autori citati non credono a queste realtà, quindi partono da un presupposto sbagliato, considerando la Divina Commedia solo come un insieme di fantasie di un autore di talento, che vuole sbizzarrirsi a mettere le persone che trova antipatiche all'Inferno e quelle che trova simpatiche in Paradiso. Ma una storia con una impostazione simile può farla chiunque. Prima di presentare la Divina Commedia secondo Nagai, è necessario capire almeno il senso della Divina Commedia, quella vera.

    Parliamoci chiaro: non è che l'Aldilà - pur con la reale esistenza dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso - sia esattamente come descritto da Dante. Infatti è umanamente impossibile descrivere ciò che non è di questo mondo, perchè noi siamo di questo mondo e possiamo solo descrivere le nostre realtà umane. Quindi Dante ha usato una raffigurazione e dei simbolismi per farcelo comprendere come meglio si poteva fare. E' quasi la stessa cosa per San Giovanni, autore dell'Apocalisse, che cercava di descrivere l'indescrivibile nelle visioni che contemplava: ne consiglio la lettura, per capire quello che voglio dire. Noterete la difficoltà di San Giovanni nel descrivere quello che vede. Ma descrivere l'indescrivibile è una contraddizione in termini: è semplicemente impossibile. Quindi, l'autore dell'Apocalisse ha cercato di spiegare come meglio poteva quello che vedeva con termini umani, ben sapendo che non sarebbe mai riuscito a spiegare veramente quello che vedeva. Non so se Dante abbia avuto delle visioni come l'autore dell'Apocalisse (personalmente, credo che qualcosa del genere sia successo, ma è solo una mia opinione), ma ha comunque cercato anche lui di descrivere delle realtà che vanno oltre l'umano.

    LO SCOPO DELLA DIVINA COMMEDIA

    Perchè allora Dante ha scritto la Divina Commedia1 ? Un'opera così incredibilmente complessa, che, se provi ad analizzarla veramente, ti vengono le vertigini? Dante stesso ha scritto una volta che ha composto la Divina Commedia per la felicità dell'uomo. Cioè: con quest'opera, Dante voleva aiutare noi uomini (sia quelli del suo tempo che noi del dopo 2000) ad allontanarsi dalla tristezza, cioè dalla nostra condizione di miseria, di peccato, per raggiungere la vera gioia, la felicità e la beatitudine: in sostanza, la salvezza eterna, il Paradiso. Dante dice che due sono gli obiettivi dell'uomo: la felicità in questa vita e la beatitudine nell’altra vita (De monarchia). La Divina Commedia è una via per comprendere il mistero dell'uomo (chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?) e aiutarlo a raggiungere il suo fine, cioè il Paradiso, la Somma Gioia. Dante desidera testimoniare la verità da lui vista e incontrata, quella cristiana. Una verità che coincide con la bellezza e la sua contemplazione. Una verità, quindi, che non è un concetto filosofico da apprendere, ma piuttosto qualcosa di infinitamente bello da contemplare. Un passaggio quindi dall'Inferno (quello vero) al Paradiso (quello vero).

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    La Divina Commedia parla dell’uomo, della sua vita, e lo fa con la potenza e la capacità di comunicazione del genio proprio di Dante. Parla dell’uomo di ogni tempo: quello di ieri, quello di oggi, quello di domani. L’uomo infatti è sempre lo stesso, con le sue aspirazioni all’infinito e la consapevolezza dei suoi limiti. E Dante sa esprimere queste cose meglio di come possiamo fare noi.

    La Divina Commedia è un viaggio che rappresenta il cammino della vita di ogni uomo. Nel Dante che vuole salire da solo il colle luminoso (cioè raggiungere la felicità) all’inizio del poema, ci ritroviamo tutti noi. Dobbiamo capire che da soli non riusciamo a salire, cioè ad essere felici e dobbiamo, come Dante, mendicare, chiedere aiuto e gridare “Miserere di me”, cioè: "abbi pietà di me". Per grazia incontriamo una compagnia umana che ci salva dalla selva oscura (nel caso di Dante è Virgilio: ma nella nostra vita – e in quella di Dante - è Cristo il nostro Virgilio), con cui poter intraprendere il viaggio di salvezza. Non c’è verso della Commedia in cui non si respiri l’esperienza e la fatica o di uomini che vogliono fare da soli, rifiutando la luce e l’amore di Dio, o che, invece, si lasciano abbracciare dall’amore e dalla grazia di Dio e si lasciano aiutare da Lui.

    LA "DIVINA COMMEDIA" VISTA DA NAGAI

    In Nagai, invece, manca questa prospettiva. Nella Commedia nagaiana Dio è assente, lontano, addirittura un nemico: tutti i personaggi dell'Inferno nagaiano sono visti come "povere vittime innocenti tormentate ingiustamente", senza mai badare al male che hanno fatto, alterando così il senso della parola "giustizia divina" facendola apparire erroneamente come "ingiustizia divina". Ne parleremo meglio più avanti.

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    1 Dante ha voluto chiamare la sua opera "Commedia", che era un genere letterario caratterizzato dall’inizio difficile e dalla conclusione felice, con una commistione di linguaggi e di toni eterogenei. Boccaccio fu colui che aggiunse l'aggettivo "Divina" alla Commedia", che da allora venne chiamata così.

    Bibliografia: Bussola Quotidiana, Giovanni Fighera

    Edited by joe 7 - 20/3/2022, 22:29
     
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    CHI ERA DANTE ALIGHIERI?

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    Non si sa bene quale sia la data di nascita di Dante (probabilmente a Maggio del 1266). Studiò retorica (corrispondente agli studi letterari e alle analisi delle opere e della lingua: una specie di Liceo Classico molto specializzato e impegnativo) e filosofia tra i Francescani e i Domenicani (la filosofia allora corrispondeva all'analisi e allo studio del pensiero, sia pagano che cristiano, ammettendo l'esistenza della verità cristiana e rifiutando il concetto di "opinione" spinta all'estremo, che cioè non esista nulla di vero, tipica della filosofia odierna). Incontrò Beatrice a Firenze: erano coetanei e avevano praticamente la stessa età. Lei morì a ventiquattro anni l'8 giugno 1290. Dante sposò Gemma Donati (1283-1285) ed ebbe tre o quattro figli. Nel 1295 si iscrisse alla corporazione dei medici e speziali (lo speziale preparava le medicine: corrispondeva più o meno al nostro farmacista), la cui divisa era la famosa tunica rossa con cui dante è sempre raffigurato. Naturalmente, non portava la corona d'alloro: fu aggiunta nei suoi ritratti per indicare il suo genio.

    Portrait-de-Dante


    Dante, quindi, oltre ad essere filosofo, letterato e poeta, era anche un medico e farmacista. E non solo: partecipò alle guerre tra le città ed entrò in politica, diventando Priore di Giustizia1 a Firenze (15 Giugno-15 Agosto 1300, l'anno in cui è ambientata la Commedia; Il 1300 è anche l’anno del primo Giubileo2 indetto da Papa Bonifacio VIII). Nel 1301, mentre Dante andò a nome di Firenze a trattare col Papa a Roma, avvenne un colpo di stato: il conte francese Carlo di Valois3, sostenuto dai guelfi neri4, divenne padrone della città e Dante, essendo un guelfo bianco5, fu condannato all'esilio, insieme alla sua famiglia e a tutti gli altri guelfi bianchi.

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    I malvagi guelfi neri, secondo Nagai.


    Da allora Dante passò di corte in corte, di città in città, da Treviso a Verona fino a Ravenna, scoprendo

    "come sa di sale
    lo pane altrui, e come è duro calle
    lo scendere e 'l salir per l'altrui scale"
    (Paradiso XVII).

    cioè: "come è amaro vivere in casa d'altri, salire delle scale che non sono le tue e mangiare del pane che non è tuo, ma di chi ti ospita". Provare per credere. Fu in questo periodo che realizzò la Divina Commedia, scritta tutta durante il suo esilio. Dante fu sepolto a Ravenna e non ritornò mai più a Firenze da vivo, perchè la città del Giglio (un altro nome di Firenze) gli aveva sempre ingiunto di pagare una somma di denaro non eccessiva, ma dal significato simbolico, con cui Dante avrebbe dovuto ammettere di aver commesso una colpa contro la città: una cosa che lui non poteva accettare, essendo innocente. La colpa di cui Dante era stato ingiustamente accusato dai guelfi neri era quella di baratteria, che corrispondeva grossomodo alla nostra "corruzione". Infatti, il "barattare", a quei tempi, significava che un pubblico ufficiale della città (e Dante lo era) si era fatto corrompere a danno della città stessa. Ma quella accusa fu una ignominiosa calunnia dei guelfi neri per escludere Dante dall'attività politica di Firenze. E non era una cosa da poco: rifiutandosi di pagare, Dante avrebbe rischiato il rogo, se fosse tornato a Firenze. Dante morì il 14 Settembre 1321, appena terminata la Divina Commedia.

    LA VITA DI DANTE RACCONTATA DA NAGAI: DIFFERENZE E OSSERVAZIONI

    La vita di Dante raccontata da Nagai contiene delle inesattezze: Dante non diventò "suo malgrado" guelfo bianco, ma lo volle diventare e lo rimase, restando in esilio e non cambiando mai bandiera. I "guelfi bianchi" non rappresentavano "il popolo", ma la Firenze che voleva restare indipendente, mentre i "guelfi neri" non rappresentavano la nobiltà e basta (anche i guelfi bianchi erano nobili), ma quella parte di nobiltà che voleva il potere a spese dell'indipendenza fiorentina.

    Nagai nel manga racconta la storia del “personaggio dei fumetti” Dante: il lettore segue il personaggio, si inquieta insieme a lui con quello che vede, un pò come per qualunque altro personaggio dei fumetti: ma non è direttamente coinvolto come invece lo è il lettore della Commedia, consapevole che Dante parla anche di lui. Certo, è un fumetto e Nagai deve trattarlo come tale, con Dante che fa la parte di un “esploratore dell’ignoto” o un “SuperDante”. Sono le leggi di mercato, è inevitabile. Ma non si può dire di aver letto la Divina Commedia, né di averla capita, se si legge solo il manga di Nagai al posto dell’originale. Questo presupposto è importante per comprendere una prima differenza di base tra Nagai e Dante: quella di un’opera scritta da un autore e quella della sua versione a fumetti. Che porta, inevitabilmente, un messaggio diverso e deformato.

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    1 priore di giustizia: non partecipava solo alla giustizia, ma anche all'amministrazione politica, economica e sociale della città. Dante, insomma, era un pezzo grosso.

    2 giubileo: si tratta di una indulgenza plenaria istituita per la prima volta nel 1300 da papa Bonifacio VIII, e da allora concessa ogni 25 anni. Nel 1300 otteneva l'indulgenza plenaria (cioè l'annullamento delle conseguenze temporali dei peccati confessati) chi avesse fatto un pellegrinaggio a Roma recitando determinate preghiere. In passato lo si poteva fare andando a Gerusalemme: ma dal 1300 non fu più possibile, perchè la città era caduta in mano ai musulmani.

    3 Carlo di Valois: importante conte francese che diede inizio alla dinastia regale Capetingia, che durò fino alla Rivoluzione Francese.

    4 I guelfi neri rifiutavano l'idea di una Firenze indipendente, che avrebbe ostacolato le loro manovre di potere e ricchezza, e si appoggiarono sempre agli aiuti esterni alla città per mantenere il potere: da Carlo di Valois allo stesso Papa.

    5 I guelfi bianchi, come Dante, volevano invece l'indipendenza e l'autonomia di Firenze da ingerenze esterne, mantenendo così la propria libertà personale. Il termine famoso "ghibellin fuggiasco" riferito a Dante fu opera del Foscolo, che lo citò nei Sepolcri. In questo modo Foscolo voleva creare un Dante di fantasia avverso al papato (i ghibellini erano favorevoli all'Impero e avversi al Papa: come i protestanti, più o meno). Ma è un termine errato: Dante non fu mai ghibellino e non fu mai nemico del papato, essendo guelfo. I guelfi, in linea di massima, erano favorevoli al Papa. Però Dante era un guelfo che voleva l'indipendenza della sua città, quindi era un guelfo bianco, a differenza dei guelfi neri, che volevano una città legata ai potenti esterni, sia di natura papale che di natura regale, per poter sviluppare i loro interessi economici e di potere, sacrificando l'autonomia di Firenze, cosa che Dante non voleva.

    Edited by joe 7 - 23/9/2022, 18:20
     
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    INFERNO, CANTO 1 (prima parte)

    LA PRIMA STROFA

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    Nel mezzo del cammin di nostra vita
    mi ritrovai per una selva oscura
    chè la dritta via era smarrita.


    Con questo famoso incipit comincia la Divina Commedia, in cui Dante parla del suo viaggio. La “selva oscura” è la selva del male, del peccato, del dolore, della mancanza di speranza, della mancanza della gioia e del significato del vivere. Già questo è un inferno, un luogo selvaggio (selva, appunto), privo di umanità. Quindi privo di tutto ciò che chiamiamo amore, rispetto, dolcezza, compassione. E Dante non chiama questo cammino il "suo cammino", come dovrebbe essere più logico, ma il “cammin di nostra vita”. Nostra, non solo sua. Dante non parla solo di sé, ma anche di te, di me, di tutti, di ogni uomo, perché tutti, senza Dio, senza un significato nella nostra vita, siamo in questa selva. Quando leggi Dante, stai leggendo di te stesso. E’ come se Dante ti dicesse: guarda che non sto parlando solo di me, ma anche di te. Sto parlando della tua, della vostra vita, non solo della mia. Per leggere bene la Commedia occorre essere assetati delle domande sulla vita e sul suo significato: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Occorre essere desiderosi di

    "divenire del mondo esperto
    e de li vizi umani e del valore"


    cioè riscoprire che la natura umana non è fatta come quella delle bestie, come insinua l'evoluzionismo darwiniano e la mentalità moderna, ma

    "per seguir virtute e conoscenza".

    L'AMBIENTAZIONE

    La Divina Commedia inizia a Gerusalemme (Go Nagai, invece, fa iniziare il manga a Firenze, per presentare Dante ai lettori giapponesi e dare così una sua breve biografia), nel 1300. E' l’alba del 25 marzo o dell'8 aprile, a seconda delle interpretazioni. Il 25 marzo, infatti, è il Venerdì Santo per eccellenza, in cui la morte di Cristo coincide con l’Incarnazione. Infatti, il 25 Marzo è anche l'Annunciazione dell'Arcangelo Gabriele a Maria Vergine, ed è anche il giorno in cui Gesù è stato concepito nel grembo di Maria per opera dello Spirito Santo: quindi è anche il giorno dell'Incarnazione. Infatti, nove mesi dopo è il giorno della nascita di Gesù: il 25 Dicembre, il Natale ("nascita") per eccellenza. L’8 aprile, invece, è la data effettiva del Venerdì Santo nel 1300. Tutto il viaggio di Dante dura un'intera settimana, in cui attraversa i tre regni: Inferno, Purgatorio e Paradiso.

    Perchè Dante fa iniziare il suo cammino proprio a Gerusalemme? Perchè allora era considerata il centro del mondo, non tanto per la posizione geografica, quanto per la sua importanza. Infatti, è a Gerusalemme che Gesù Cristo è morto e risorto: non esistono altri posti altrettanto importanti dove sia successa una cosa così grande come l'Incarnazione - Dio fatto uomo - e la Risurrezione. E' un fatto, un avvenimento, che non ha uguali nella storia dell'umanità. In termini simbolici, per indicare la sua universalità, Gerusalemme è stata messa in mezzo tra i due estremi più lontani della Terra conosciuta: da una parte le Colonne d'Ercole, cioè lo Stretto di Gibilterra (visto che allora non si conosceva l'esistenza dell'America), e dall'altra parte il fiume Gange, in India, dove arrivò - o volle arrivare - Alessandro Magno, nella massima estensione del suo impero: era quindi il fiume più lontano allora conosciuto. Inoltre, se osservate una mappa, vedrete che Gerusalemme è quasi a metà strada tra lo Stretto di Gibilterra e il Gange: quindi è una posizione centrale anche dal punto di vista geografico. Tra l'altro, già si sapeva dell'esistenza di terre oltre il Gange, grazie anche a Marco Polo, contemporaneo di Dante, che parla del Catai (Cina) e Cipango (Giappone). In ogni caso, l'intenzione di Dante era quella di dare un significato simbolico a Gerusalemme, mettendola al centro del mondo.

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    DANTE (L'UOMO D'OGGI) IN CRISI: LE TRE BESTIE

    Nel 1300, l'anno del Giubileo, Dante, all’età di trentacinque anni, si trova a "metà della sua vita" (qui Dante cita Isaia, il profeta della Bibbia). Ha raggiunto tutti gli obiettivi: si è sposato, ha avuto dei figli, ha già ottenuto una prima fama letteraria, sta facendo carriera politica, tanto che otterrà in pochi mesi il priorato di giustizia. Eppure, tutto questo non basta, non lo rende felice. Senza sapere neppure come, Dante entra in una crisi profonda, la selva oscura, che Dante descrive così:

    Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
    tant'era pien di sonno a quel punto
    che la verace via abbandonai.

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    La condizione di perdita di senso, di crisi in cui vive Dante è così amara che è molto simile alla morte. Tutti noi nella vita, come Dante all’inizio della cantica dell’Inferno, abbiamo pensato di poter fare a meno di Dio, di fare da soli, contando solo sulle nostre forze, raggiungendo la felicità coi nostri sforzi. Ma, se ciascuno di noi ha la ragione che gli permette di distinguere il bene dal male, ha anche quel peccato originale che lo porta a voler essere orgogliosamente autonomo: Dante, così, inizia a salire da solo verso il colle che lo porta alla felicità che brama. Ma gli si parano davanti tre bestie: la lonza, il leone, la lupa. Li si potrebbe paragonare ai demoni interiori di cui Dante non sa nè può liberarsi. La lonza, una specie di giaguaro, rappresenta la lussuria. Quando passa la notte, la dolce stagione della primavera e l’alba fanno ben sperare Dante, che torna ad affrontare la lonza. Ma la comparsa prima di un leone (che indica la superbia) e poi della lupa (cioè la cupidigia) risospinge il poeta "là dove ‘l sol tace", cioè nel buio totale. Se non fosse comparso Virgilio, la Divina Commedia sarebbe finita qui. L'uomo non può salvarsi da solo: il tentativo di Dante è fallito.

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    IL DANTE DI NAGAI

    Nel manga, Dante è nella selva ed è attirato da una stella: questo non compare nell'originale. Il Dante del poema non ha nessuna stella da seguire: cerca di uscire dalla selva e incontra le tre bestie, senza nessuna stella guida. Il concetto di "una stella che guida" si avvicina al panteismo e al politeismo, in cui le stelle sono delle divinità, o delle persone che si sono reincarnate in stelle. Nel mondo orientale, tutto è divinità: Dio coincide col mondo. Il Dio cristiano, invece, è totalmente altro dal creato, non si identifica con esso. Le stelle sono creature di Dio, non hanno nulla di divino. Il Creatore è altro, diverso, dalle creature. Ecco perchè non c'è nessuna "stella guida" nella Commedia originale.

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    Inoltre, Nagai non fa nessun cenno al fatto che le tre fiere simboleggiano il peccato che è dentro lo stesso Dante, di cui lui deve liberarsi ma che non è capace di farlo da solo. Commettere il peccato significa esserne schiavo. Senza l'aiuto di Dio non se ne esce fuori. Ma il concetto di "peccato", cioè di offesa a Dio, rifiuto di Dio, non esiste nelle religioni orientali, anche perchè non contemplano un Dio personale, ma solo una divinità indistinta e senza coscienza di sè. Inoltre, sempre Nagai - tramite Virgilio - dice che la lupa, una delle tre bestie, viene dall'inferno e sono stati i sentimenti di rivalità e invidia degli uomini a richiamarla da lì. Questa cosa è stata inventata di sana pianta: non ci sono nel testo originale. Nella visione dantesca e cristiana, è la lupa - un simbolo del diavolo - che ispira sentimenti di rivalità e invidia, e gli uomini ne rimangono sedotti: però è la lupa ad influenzare gli uomini, non il contrario.
    Inoltre, tutta questa presentazione fa sembrare Dante un innocente, una vittima delle circostanze: mentre invece lui è un peccatore come tutti gli altri, e anche in lui, come in tutti gli uomini, ci sono rivalità, invidia eccetera: la lonza, il leone, la lupa. Mostrando un Dante così "privo di peccato", Nagai fa togliere il senso profondo del dramma della della Divina Commedia: che cioè tutti noi, Dante compreso, abbiamo peccato e abbiamo bisogno di salvezza. Il Dante di Nagai, invece, sembra un innocente che ha solo sbagliato strada, ma non certo per colpa sua. La Divina Commedia così viene stravolta sin dall'inizio.

    DANTE E' UNIVERSALE, NON SOLO IN GIAPPONE. L'IMPORTANZA DELLA BELLEZZA

    La Divina Commedia rivela all'uomo il cristianesimo: cioè che lui è stato creato da da Dio per la bellezza, per l'amore, per la felicità che è Lui. La bellezza darà sempre quello stupore, trasmetterà sempre l'entusiasmo e la speranza che ci permetteranno di ripartire. Nel film Le vite degli altri il protagonista lavora nella Stasi e spia la vita delle persone. A un certo punto si trova a controllare la vita di un artista. Nel tempo cambia, vedendo come questi vive in maniera diversa l'amore, l'arte, la musica. Allora esclama: «Come si fa ad essere cattivi dopo aver sentito una musica così bella?». La vera bellezza porta al desiderio di cambiamento e di essere migliori, come quando ci innamoriamo davvero di una persona: vogliamo essere all'altezza di questa persona e desidereremmo essere migliori di quello che effettivamente siamo.

    locandina


    Per questo la Divina Commedia è universale, perchè parla per tuti gli uomini. E' stata tradotta in tutte le lingue del mondo (anche in arabo), è apprezzata ovunque. Farideh Mahdavi-Damghani ha tradotto in persiano La Vita Nova e la Divina Commedia e aveva commentato: "La gente in Persia non conosceva Ravenna, non sapeva che è la città in cui è sepolto Dante: ma, vedendo tutto quello che io amo fare per questa città, leggendo le mie traduzioni, il pubblico persiano ora conosce Ravenna. C'è questo paradosso: siamo lontani dal punto di vista culturale, ma nello stesso tempo siamo molto vicini. Le credenze sulla famiglia, sull'emotività, sull'amore per la poesia e la letteratura, cose primordiali che forse per altri paesi hanno minore importanza, sono molto simili in Italia e in Persia. Quindi si può dire che gli italiani somigliano ai persiani". Questo per dire quanto Dante sia universale.

    Edited by joe 7 - 25/9/2021, 16:41
     
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    INFERNO, CANTO 1 (seconda parte)

    L'INCONTRO CON VIRGILIO

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    Dante, circondato dalle tre fiere, non ha speranze: l'unica speranza che può avere è un avvenimento imprevisto, inaspettato, cioè l'arrivo di Virgilio. E' quell’incontro gratuito e insperato che salva la vita a Dante. Se pensiamo a quello che ci è successo in passato, ricorderemo di certo qualche avvenimento simile, cioè una situazione che appariva disperata che si è risolta con un aiuto inaspettato. Dante descrive così il primo incontro con Virgilio:

    Mentre ch'i' rovinava in basso loco, (cadevo in basso)
    dinanzi a li occhi mi si fu offerto
    chi per lungo silenzio parea fioco.


    Il verbo "offerto" indica che, in quella situazione di crisi e di difficoltà, viene donato a Dante un incontro imprevisto, immeritato, gratuito. Non sono i suoi meriti, le sue capacità a salvarlo. Ciò che lo salva è la sua capacità di domandare aiuto, la sua mendicanza, che subentra all’iniziale desiderio di totale autonomia che aveva prima. Tanto che grida:

    Miserere di me […] (abbi pietà di me)
    qual che tu sii, od ombra od omo certo!


    VIRGILIO SI RIVELA

    Dante non sa ancora di avere davanti a sé Virgilio, la persona che stima maggiormente e che è stata per lui un modello per la vita e per la poesia. Come chi si trovasse in un bosco cercasse all’inizio di uscire da solo e, poi, con il trascorrere del tempo e il calare delle tenebre, si mettesse a gridare, altrettanto fa Dante. Virgilio svela la sua identità a poco a poco:

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    Non omo, omo già fui,
    e li parenti miei furon lombardi,
    mantoani per patria ambedui.
    Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, ("sub Iulio": sotto il governo di Giulio Cesare; "ancor che fosse tardi": troppo tardi per conoscere Cesare di persona perchè fu ucciso)
    e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
    nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
    Poeta fui, e cantai di quel giusto
    figliuol d'Anchise che venne di Troia, (cioè Enea, il personaggio dell'Eneide di Virgilio)
    poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.
    (la città di Troia che bruciò tra le fiamme)

    Virgilio dice di essere vissuto all’epoca dell’Imperatore Augusto, quando ancora non si era compiuta la rivelazione cristiana ("nel tempo de li dèi falsi e bugiardi"), di essere stato poeta e di avere scritto l’Eneide. Nel Medioevo fu considerato un profeta perchè anticipò l’avvento di Cristo nel suo quarto libro delle Bucoliche (detto "Quarta Egloga", cioè quarto componimento):

    nasce da capo un grande ciclo di secoli;
    già torna la Vergine (e) ritornano i regni di Saturno,
    già una nuova progenie viene mandata dall’alto del cielo.
    […] Tu, o casta Lucina, sii favorevole al bambino che ora nasce
    con cui per la prima volta cesserà la generazione del ferro
    e in tutto il mondo nascerà quella dell’oro:
    […] Egli riceverà la vita degli dei e vedrà gli eroi mescolati agli dei,
    ed egli stesso sarà visto con loro.


    Il poeta mantovano non si riferiva in quei versi alla nascita di Gesù, ma al matrimonio tra Ottavia e Marco Antonio, e questo i medievali lo sapevano bene. Ma il senso profondo della composizione superava le intenzioni stesse del poeta. Per i medievali, infatti, un uomo d'arte era anche profeta senza saperlo. Tornando alla Divina Commedia, Virgilio, dopo aver svelato la sua identità, invita Dante a riconoscere in maniera consapevole di avere bisogno di aiuto: gli chiede perché non salga da solo il monte da cui deriva ogni felicità (il colle luminoso). Lui sa bene il perchè, ma vuole che Dante gli risponda, in modo che si renda bene conto della sua situazione.

    Ma tu perché ritorni a tanta noia? (ritorni in questo luogo doloroso, la selva)
    Perché non sali il dilettoso monte
    ch'è principio e cagion di tutta gioia?


    IL VERO MAESTRO

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    Ogni giorno, se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo mendicare, prendere coscienza che da soli non ce la possiamo fare: dobbiamo riconoscere la necessità di un aiuto e di una compagnia. Ma stiamo attenti: Dante non si sceglie lui il maestro, piuttosto si imbatte in maniera imprevista e gratuita in qualcuno. Dante dovrà riconoscere l’autorevolezza di Virgilio, chiamarlo "autore, maestro e duce". L’autorità, infatti, non è mai pretesa dal maestro, ma è sempre riconosciuta dal discepolo. Noi percepiamo l’autorità di qualcuno quando avvertiamo che lui ha la capacità di dire qualcosa di importante sulla nostra vita (è quindi "autorevole"), sa valorizzare il nostro "io" e i nostri talenti. Noi ci fidiamo dei suoi giudizi e dei suoi consigli, ma, nel contempo, continuiamo a sentire la bellezza e la drammaticità della nostra libertà. Il maestro, infatti, scommette e sollecita la libertà dell’allievo, non la mortifica.

    Il lungo percorso di accompagnamento di Virgilio, attraverso l’Inferno e il Purgatorio, avrà termine sulla montagna del Paradiso terrestre. Il poeta latino, infatti, ad un certo punto ha adempiuto al suo compito, una volta portato Dante all’incontro con Beatrice. Il vero maestro sa farsi da parte, quando ha adempiuto alla sua missione. Non ha voluto legare a sé in maniera narcisistica il discepolo, ma, al contrario, gli ha indicato il bene per la sua vita, lo ha accompagnato per un tratto del percorso della vita e poi ha saputo farsi da parte. Virgilio ha portato Dante verso le stelle, verso il compimento del suo desiderio. Il vero maestro conduce al bene, non ferma il discepolo su se stesso in maniera idolatrica. Questa è la differenza tra il maestro e l’idolo/mito. Quanti miti vengono creati nell’epoca contemporanea ad uso e consumo dei più giovani! L’idolo/mito non indirizza mai alla verità, perché questa svelerebbe tutta l’inconsistenza dell’idolo stesso, ma presenta sé come risposta al desiderio di felicità del cuore dell’uomo. Stiamo attenti alle figure di falsi maestri che incontriamo sulla strada. Molti si nascondono sotto parvenze di bontà e false promesse, per irretire le nostre coscienze e impadronirsi dei nostri cuori. Il vero maestro non sprona i discepoli a soffermarsi su di lui, ma li indirizza al bene, indica loro la strada, la verità. Il vero maestro sollecita nel cuore dell’uomo il desiderio dell’Infinito e dell’Eternità. Di fronte a Virgilio, Dante manifesta un debito di gratitudine:

    Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
    che spandi di parlar sì largo fiume? […]
    O de li altri poeti onore e lume,
    vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
    che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
    Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
    tu se' solo colui da cu' io tolsi
    lo bello stilo che m'ha fatto onore.


    Questa è la posizione davvero umana, la mendicanza:

    Vedi la bestia per cu’io mi volsi:
    aiutami da lei, famoso saggio,
    ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.


    A questo punto, solo dopo che Dante si è messo a piangere, Virgilio gli propone di seguirlo:

    A te convien tenere altro viaggio
    […] se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
    […] io per lo tuo me' penso e discerno
    che tu mi segui, e io sarò tua guida.


    Il viaggio che intraprenderanno non sarà, però, quello che aveva in mente Dante, in direzione del colle luminoso. Si dovrà prima guardare in faccia il male proprio e quello altrui nell’Inferno, poi si attraverserà il Regno delle anime purganti, il Purgatorio, e solo più tardi si potrà vedere la beatitudine dei santi del Paradiso e infine la visione di Dio, lo scopo della vita dell'uomo.

    L'IMPORTANZA DEL DESIDERIO, DEL SENSO DELLA VITA

    Come descrive bene questo atteggiamento Antoine de Saint Exupery nella "Cittadella" 1 quando scrive: "Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare la legna, dividere i compiti e impartire ordini. Ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito." Solo dopo si potrà tagliare la legna, eccetera.

    ADSE


    Nella stessa opera compare la figura del capo che istruisce i generali, spronandoli ad essere pienamente uomini, mantenendo vivo il desiderio, invece di comandare dando ordini e basta: "Voi non vincerete, perché cercate la perfezione. Infatti, proibite gli errori e, per agire, attendete di conoscere se la mossa che si vuol tentare è di un’efficacia chiaramente dimostrata. La torre, la roccaforte o l’impero invece crescono come l’albero racchiuso nel seme: sono manifestazioni della vita, perchè è necessario che ci sia l’uomo perché nascano. Ma l’uomo crede di calcolare, crede che la ragione e la sola ragione governi la costruzione delle sue pietre, quando invece la costruzione con quelle pietre è nata dapprima dal suo desiderio. La roccaforte è racchiusa in lui, nell’immagine che porta nel suo cuore, come l’albero è racchiuso nel seme. I suoi calcoli non fanno altro che dare forma al suo desiderio e illustrarlo. Voi non potete spiegare l’albero, se mettete in evidenza solo l’acqua che ha succhiato, i succhi minerali che ha assorbito, il sole che gli ha prestato la sua forza. Voi perderete la guerra (quella della vita), perché fate solo dei ragionamenti, ma non desiderate nulla." Cioè, vedono solo le cose, mai il loro significato; vedono l'uomo, ma non il suo significato, il suo mistero, il suo desiderio di infinito. Vedono la vita, ma non ne comprendono il senso. Quindi amministrano male sia le cose, che l'uomo, che la vita, e per questo perdono.

    LA VERSIONE DI NAGAI: LA CORRUZIONE DELL'UOMO

    Go Nagai qui è molto fedele ai dialoghi tra Dante e Virgilio: tuttavia, ha fatto un'aggiunta. Quando parlano della lupa, Dante dice: "Dunque quella lupa proviene dall'inferno?" E Virgilio, di rimando: "Sì! Sono stati i sentimenti di rivalità e di invidia degli uomini a richiamarla da lì!"

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    E' una visione che non è cristiana: infatti, sarebbe come dire che l'uomo è naturalmente corrotto e quindi attira il diavolo. Ma non è così, anzi è il contrario: è il diavolo che corrompe l'uomo, non viceversa. Il diavolo - in questo caso la lupa - suscita sentimenti di rivalità e invidia: sta all'uomo decidere se ascoltarlo o meno. L'uomo non è corrotto, non è naturaliter malvagio, ma è ferito dal peccato originale di Adamo, è debole, e quindi può cadere nella tentazione che il diavolo (la lupa) gli dà (e anche a Dante, preso come esempio dell'uomo). Essendo debole, può cadere facilmente alla tentazione per la sua debolezza. La lupa indica anche tutte le volte che Dante è caduto e ha commesso il male. Per questo bisogna chiedere aiuto a Dio, che dà la forza di resistere alla tentazione. La visione di Nagai invece è diversa: dicendo che "sono stati i sentimenti di rivalità e di invidia degli uomini a richiamarla (la lupa) da lì (dall'inferno)!" indica l'uomo non come persona ferita, ma come persona corrotta, naturalmente malvagia, che attira il diavolo e può salvarsi solo con l'aiuto di Dio, ma resta malvagia nel suo cuore: una cosa che è completamente contraria alla visone cristiana. E' la stessa conclusione a cui arriva Nagai nel suo manga più famoso, Devilman (dove però Dio è assente e c'è solo l'uomo corrotto).

    -----------------------------------------------
    1 Antoine de Saint-Exupery, famoso per l'opera Il piccolo principe, scrisse anche La cittadella, l'ultima sua opera: un insieme di riflessioni in cui l'autore spiega che l'uomo non è fatto per vivere delle cose, ma del senso delle cose, del loro significato.

    Edited by joe 7 - 23/9/2022, 18:22
     
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    INFERNO, CANTO 2

    LA PAURA DI DANTE

    035a
    Qui Nagai ha mostrato bene la tentazione di Dante, coi demoni che gli sono intorno e lo convincono con motivazioni che sembrano giuste. Sarà Virgilio a smascherare l'inganno.


    Virgilio invita Dante a seguirlo e lui, riconosciuta l'autorità del suo maestro, lo segue. Ma basta un discorso, per quanto autorevole, per convincere un uomo? Per togliergli tutte le paure? Per dargli l'entusiasmo di raggiungere al più presto la meta? La risposta è: no, non basta. Dante all'inizio elogia Virgilio come il più grande poeta che mai ci sia stato e lo dice con toni solenni. Ma, per esperienza, tutti noi sappiamo che le parole sono insufficienti di fronte alle difficoltà della vita. Quando Dante riflette e pensa prima di partire, la sua paura prende il sopravvento. Dante si rende conto che affronterà da solo

    "la guerra
    sì del cammino e sì de la pietade."


    Il peso delle scelte che prendiamo nella vita è tutto nostro: la scelta della scuola, dell’università, del matrimonio, delle amicizie, del lavoro. "Decidere" significa, etimologicamente, "tagliar via, escludere tutto il resto" per scegliere una sola cosa. Per questo motivo, ogni scelta è drammatica, se vissuta con consapevolezza. Per questa stessa ragione "vita militia est", "la vita è una continua milizia" come sostenevano i primi cristiani. La vita infatti è una guerra, come scrive Dante: una guerra non contro gli altri, ma contro se stessi, il proprio peccato, le proprie paure, le proprie tentazioni, le proprie viltà. Per questo motivo, Dante, anche se ha appena professato la disponibilità a seguire il maestro, poche ore più tardi - siamo sul far della sera - inizia ad accampare delle scuse per non partire. In sintesi, disquisisce in questi termini con Virgilio: nell’Eneide - scritta da Virgilio stesso - Enea è sceso agli Inferi per incontrare il padre Anchise: in questa catabasi (cioè: "discesa agli inferi", la stessa cosa che sta facendo Dante) Enea viene a sapere della futura città di Roma. Dante cita anche San Paolo, che è stato rapito al Terzo Cielo, come lui stesso racconta nelle sue lettere1 (anche se San Paolo attribuisce questa esperienza ad un'altra persona: ma è assai probabile che facesse riferimento proprio a se stesso).

    jpg


    Ma Dante - continua il poeta nella sua difesa - non è Enea, né san Paolo. Non si reputa degno di sostenere quel viaggio che hanno affrontato loro, i due grandi benefattori dell’umanità. Il poeta confida che Virgilio possa capirlo. E infatti, Virgilio capisce, e lo spiega a Dante, che la sua anima è stata presa da viltà, da paura, da pusillanimità: come quando una persona è impietrita perché pensa di vedere una bestia feroce, mentre in realtà ha davanti a sé semplicemente un’ombra. Per aiutarlo, Virgilio gli spiega le ragioni per cui non deve aver paura. Nel Cielo si sono mosse tre donne benedette per salvarlo: la prima, che si è resa conto delle difficoltà di Dante, è la Madonna, che si è recata da Santa Lucia (patrona della vista e santa a cui Dante è molto devoto, probabilmente, si narra, perché, ammalato agli occhi, fu guarito da lei). La santa, a sua volta, si rivolge a Beatrice la donna amata da Dante, chiedendole di intervenire. A sua volta, Beatrice era scesa dal Paradiso nel Limbo, dove si trovava Virgilio, e aveva chiesto al poeta di andare in suo soccorso.

    Dante-1
    La Madonna, Santa Lucia e Beatrice che chiede aiuto a Virgilio.


    Dante ha paura anche perchè è consapevole della sua missione: non solo percorrere il faticoso cammino di salvezza, ma anche testimoniare agli altri la verità vista e incontrata. Questo lo spaventa. Tutti noi siamo, talvolta, tentati di rifiutare la missione che c'è stata assegnata, adducendo la scusa di non essere all'altezza, proprio come fa Dante. E' facile trovare scuse comode che danno una parvenza di falsa umiltà. Quando Dante viene a sapere della rivelazione di Virgilio, trova la decisione di continuare ed esclama:

    "Oh pietosa colei che mi soccorse!
    e te cortese ch'ubidisti tosto
    a le vere parole che ti porse!
    Tu m'hai con disiderio il cor disposto
    sì al venir con le parole tue,
    ch'i' son tornato nel primo proposto.
    Or va, ch'un sol volere è d'ambedue:
    tu duca, tu segnore e tu maestro."


    NAGAI: PARADISO "RISERVATO"

    Paradiso-Nagai


    Il Virgilio di Nagai parla del Paradiso in modo "esclusivista" e "massonico" aggiungendo osservazioni sue, che non sono di Dante. Il Virgilio del manga, infatti, dice a Dante, a proposito del Paradiso:

    "Se tu lo vorrai, potrai recarti in un luogo ancor più elevato, dove si trovano le anime dei più nobili, un mondo accessibile solo agli spiriti eletti"

    Il Virgilio di Dante invece dice semplicemente, parlando del Paradiso,

    "a le beate genti".

    Nient'altro. Infatti, il Paradiso è accessibile a tutti, se seguono i Comandamenti e la volontà di Dio, perchè Dio vuole che tutti si salvino, non solo i "nobili spiriti eletti", cioè gli intellettuali, una caratteristica tipica della visione massonica. Ma non costringe nessuno ad andare in Paradiso, perchè allora non si rispetterebbe la libertà dell'uomo, una cosa che Dio rispetta fino al limite estremo, cioè fino al caso in cui la volontà libera dell'uomo scegliesse di stare per sempre lontana da Dio, cioè di andare all'Inferno. Ma è per una libera scelta dell'uomo, mai per decisione di Dio. Quindi, il Paradiso non è solo per "i più nobili," non è solo "per gli spiriti eletti" come dice il Virgilio di Nagai: il Paradiso è per tutti, perchè Gesù Cristo ha dato il Suo sangue per tutti. Ma sta all'uomo accettare questa salvezza o no. Se il Paradiso di Nagai è "esclusivista", "massonico", per gli "intellettuali", quello vero è per tutti coloro che seguono la volontà di Dio: quindi, in sostanza, per chi è stato buono, non solo per "spiriti eletti e nobili", un concetto che però non tiene da conto l'importanza della bontà.

    NAGAI PARLA SOLO DI BEATRICE

    Beatrice1


    Nella versione del manga di Nagai, Virgilio parla solo di Beatrice, e non fa cenno nè alla Madonna nè a Santa Lucia. Può sembrare un dettaglio, ma, così facendo, Nagai trascura una caratteristica importante del Cristianesimo, l'intercessione dei santi e dei defunti. In particolare l'intercessione della Madonna, attraverso la quale Dio interviene mandando le Sue grazie. E' chiaro che il primo a pensare alla salvezza di Dante è proprio Dio, che ha creato sua Madre per la salvezza di tutti, anche di Dante. Maria così intercede presso Dio a favore di Dante; poi si rivolge a Santa Lucia, una santa alla quale Dante era molto devoto. E qui si sottolinea l'importanza dell'intercessione dei Santi e la devozione a loro: più si è devoti a un Santo, più è facile che il Santo lo aiuti perchè con la devozione il suo cuore è aperto al suo aiuto. Santa Lucia, a sua volta, si rivolge a Beatrice, che è anche lei santa, perchè si trova in Paradiso: inoltre, ha conosciuto Dante personalmente. E qui si fa riferimento alle anime dei parenti e defunti che abbiamo conosciuto e che sono morti e intercedono presso Dio per noi. In sostanza, Dante, con la Madonna, Santa Lucia e Beatrice, parla della comunione dei Santi, una caratteristica solo cristiana (e cattolica: nel protestantesimo questa visione non c'è). Con l'assenza di Maria SS. e di Santa Lucia, e con la presenza della sola Beatrice, Nagai fa apparire il Cristianesimo come una religione degli antenati, una visione tipica della religione orientale.

    Inoltre, Nagai fa apparire Beatrice nuda, indicandola come "ideale femminile" di Dante, una cosa facile da fraintendere. Per Dante la donna è mistero, bellezza, stupore, miracolo, meraviglia, segno stesso del divino per elevare l'uomo verso il cielo. Nella Vita Nova, che Dante scrisse dopo la morte di Beatrice - e che è citata da Nagai, che interrompe la narrazione per spiegare ai lettori chi sia Beatrice - Dante parla della propria sofferenza e del suo dramma d’amore. Ma questo non soddisfa il poeta, perchè capisce che nella Vita Nova parla solo di se stesso e del suo amore per Beatrice. Non ha mai parlato della bellezza di Beatrice in sè come persona: bellezza dell'anima, della sua stessa esistenza, della sua presenza, di cui il fisico è segno. Anche per questo ha scritto la Divina Commedia, per contemplare totalmente la bellezza di Beatrice, in quanto è di una bellezza che porta a Dio, alla salvezza. Sono concetti che non sono facili da comprendere per il mondo d'oggi, che non comprende più il mistero della donna.

    --------------------------------------
    1 Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 12, versi dal 2 al 4 compreso.

    Edited by joe 7 - 6/10/2022, 22:40
     
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    INFERNO, CANTO 3

    INGRESSO ALL'INFERNO - GLI IGNAVI, CARONTE

    050-051
    Dante alla porta dell'Inferno.


    All'inizio del terzo canto, c'è la famosa epigrafe posta sulla porta dell’Inferno, e nel vederla a Dante ritornano le antiche paure. Le parole incise sono cupe, orride:

    "PER ME SI VA NE LA CITTA' DOLENTE, ("per me", cioè "attraverso di me")
    PER ME SI VA NE L'ETTERNO DOLORE,
    PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
    GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
    FECEMI LA DIVINA POTESTATE, (il Padre, Dio)
    LA SOMMA SAPIENZA E 'L PRIMO AMORE. ("la Somma Sapienza": il Figlio, Gesù Cristo; "Il Primo Amore", lo Spirito Santo.)
    DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
    SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.
    LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH'INTRATE."


    IL MAESTRO DEVE ESSERE PRESENTE, NON VIRTUALE

    Di fronte alla paura di Dante, Virgilio lo prende per mano con lieto volto e lo introduce dentro "a le secrete cose". Nei primi tre canti dell’Inferno, Dante presenta la sua straordinaria pedagogia: un discorso non può avvincere e convincere. Non è sufficiente neanche conoscere le ragioni e le motivazioni. Dante non avrebbe intrapreso il viaggio senza la compagnia e la guida lieta e rassicurante di Virgilio. Il ragazzo e l’adulto hanno bisogno, nel viaggio della vita, di una compagnia, oltre alla speranza. La presenza, il il lieto volto, che rappresenta la certezza che vale la pena intraprendere il viaggio, che c’è una meta bella, che il destino è buono e positivo, è fondamentale. Per questo, l'attuale idea di voler insegnare solo via internet porterà solo ad un disastro educativo. Chi impara ha bisogno di una presenza, di una persona in carne e ossa, non di una cosa vuota, cioè una macchina con video incorporato. Sant’Ignazio di Antiochia scriveva:

    "Si educa con quel che si dice,
    si educa meglio con quel che si fa,
    ma ancor di più con quel che si è".


    Si cammina nel viaggio della vita e della conoscenza con una compagnia, con un maestro, con un testimone della bellezza e della verità incontrate. Cioè con una persona in carne e ossa, in sostanza. Non con un computer, che è la caricatura di una presenza, è una cosa vuota, è un rapporto falso.

    GLI IGNAVI

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    Il tema della viltà occupa tutti i primi tre canti dell’Inferno. Non si può vivere se si è bloccati dalla paura. Invece della paura, per vivere occorrono entusiasmo e speranza. La paura porta all'abulia, al rifiuto di ogni attività, al rifiuto di ogni decisione ("Decidano altri per me!"). In sostanza, all'ignavia. Per questo, non è un caso che le prime anime che Dante incontra nel cammino siano quelle degli ignavi: i pusillanimi, che non sono neppure degni di stare all’Inferno. Hanno una collocazione tutta loro, l’Antiinferno. Costoro, che mai hanno vissuto perché mai hanno scelto, una volta morti devono inseguire un’insegna, che mai non ha posa. Punti da mosconi e vespe, loro, che nella vita non hanno mai inseguito un ideale e non avrebbero mai offerto il proprio sangue per un Ideale, ora devono versarlo per i vermi che sono in Terra. Il monito di Dante è molto forte e riguarda tutti noi. Ciascuno di noi, infatti, può rischiare di non prender posizione, di non scegliere, sopraffatto dall’illusione che si possa stare tranquilli, anche senza credere in nulla, anche senza scoprire una ragione per cui valga la pena intraprendere il viaggio della vita. Dante, tra gli ignavi, cita un personaggio misterioso che "fece per viltade il gran rifiuto": si pensa che faccia riferimento a papa Celestino V, famoso per aver abdicato al trono di Pietro. Tuttavia, è riconosciuto come santo dalla Chiesa Cattolica. Quindi non si sa ancora bene chi sia questo personaggio.

    CARONTE

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    Caronte è il traghettatore delle anime dannate, che Dante descrive traendo spunto dal personaggio virgiliano del libro VI dell'Eneide. Rispetto al Caronte classico, tuttavia, quello dantesco appare con tratti decisamente demoniaci (soprattutto gli occhi circondati di fiamme). Questo è coerente con l'interpretazione in chiave cristiana delle figure mitologiche: le divinità infere venivano spesso considerate personificazione del diavolo. Lo stesso farà Dante con altre creature infernali, come ad esempio Minosse, Cerbero, Pluto. La reazione del demone Caronte all'apparire di Dante è analoga a quella degli altri guardiani infernali che il poeta incontrerà più avanti: come loro, anche Caronte tenta di spaventarlo e di impedire il suo viaggio attraverso l'Inferno (quindi il suo viaggio verso il Paradiso e la salvezza!). Queste figure simboleggiano gli "impedimenta" di natura peccaminosa, che ostacolano il cammino di redenzione dell'anima umana. Non a caso, infatti, è sempre Virgilio (allegoria della ragione e della fede) a zittirli e a consentire il passaggio di Dante. Virgilio riduce al silenzio Caronte con la famosa frase: "vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare". La ripeterà, con lievi varianti, anche con Minosse e con Pluto.

    IL DANTE DI NAGAI

    Davanti all'iscrizione della porta dell'Inferno, Nagai cita l'epigrafe sulla porta, però salta il passo in cui si fa riferimento alla Trinità. Spesso i riferimenti cattolici nel manga sono omessi, citando al suo posto, quando capita, solo un Dio generico, severo e sadico. Infatti, tutti i dannati sono visti come povere persone ingiustamente accusate. In particolare, le dannate sono tutte delle Miss Mondo nude, di bell'aspetto e dalla faccia innocente. C'è persino una scena in cui una dannata, nuda e formosa come le altre, cerca di scappare via da Caronte piangendo con occhi alla Candy Candy. Il lettore non riesce quindi a pensare che siano delle assassine o traditrici o cose simili. Lo stesso vale per gli uomini, ovviamente: ma sono soprattutto le donne a fare la parte delle "povere vittime". Invece, le anime dannate descritte da Dante sono piene di odio e di disperazione: bestemmiano Dio, i propri genitori, la propria nascita, tutta l'umanità, il posto e il tempo dove sono vissuti, e, al contrario dei dannati e dannate nagaiani, non cercano di scappare: anzi, hanno fretta di andare nel luogo della propria condanna eterna, spinti dal peso delle loro colpe e dal loro desiderio di stare il più possibile lontano da Dio, che ora odiano, come pure odiano ogni persona e ogni cosa. picchiati dal remo di Caronte, che li spinge nella barca in modo che siano ben distribuiti all'interno. Tutta un'altra cosa dalle "povere vittime" del manga.

    Riguardo agli ignavi, il Virgilio di Nagai commette un grave errore non solo aggiungendo qualcosa che Dante non aveva mai messo, ma che è anche completamente fuori dalla visione cattolica. Infatti, il Virgilio nagaiano ad un certo punto dice: "A questi (gli ignavi) è stata negata ogni possibilità di rinascere". Ma la visione cattolica non ammette la reincarnazione: si nasce una volta sola e si muore una volta sola, dopo c'è il Giudizio. Il corpo che abbiamo è e sarà eternamente il nostro, legato eternamente alla nostra anima anche nell'Aldilà. Non esistono cicli infiniti di reincarnazioni come nella religione orientale, che Nagai, invece, ogni tanto inserisce in questo manga.

    C'è anche un altro errore, sempre per la visione cattolica, che Nagai ha fatto, modificando le parole di Caronte. Infatti, il Caronte del poema dice: "Guai a voi, anime prave!" ("pravo" significa deviato, storto, che non è cresciuto nel modo giusto). Quello di Nagai invece dice: "Guai a voi, anime dannate che avete insozzato il mondo coi vostri peccati!". Qui è sbagliato, perchè il peccato è un'offesa fatta a Dio, non al mondo. Il peccato è rifiutare Dio, in modo più o meno grave. Il "mondo" qui non c'entra niente, è solo una creatura di Dio; non si identifica con Dio, come, invece, avviene nelle religioni orientali. Inoltre, il Caronte di Nagai si ribella agli avvertimenti di Virgilio, facendosi spuntare persino due corna sulla testa; porta Dante sulla barca solo perchè è svenuto dalla paura davanti a lui, afferrandolo senza ritegno con una mano sola. Quindi, Caronte, nel manga sembra non avere alcun timore di Dio.

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    Invece, nel poema, dopo l'avviso di Virgilio, Caronte non si cura più di loro e si occupa dei dannati, mostrando di aver timore della decisione di Dio, che protegge Dante attraverso Virgilio. Inoltre, Dante, nel poema, non sviene a causa di Caronte, ma a causa di un terremoto innaturale che avviene alla fine del canto: si ritroverà poi all'altra riva senza alcun ricordo del suo passaggio sulla nave di Caronte. Sempre nel manga, mentre Dante è sulla barca infernale, vede Beatrice in sogno, cosa che invece non accade nel poema.

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    L'immagine di Caronte presa dalle incisioni di Gustave Dorè, che Nagai ha inserito spesso nel manga.



    BIBLIOGRAFIA
    https://divinacommedia.weebly.com/inferno-canto-iii.html
    Bussola Quotidiana, Giovanni Fighera

    Edited by joe 7 - 25/9/2021, 16:43
     
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    INFERNO, CANTO 4

    I NOVE CERCHI INFERNALI


    Qui Dante e Virgilio hanno oltrepassato l'Acheronte, grazie al passaggio di Caronte, e sono nel primo dei Nove Cerchi infernali con cui è suddiviso l'Inferno: come struttura, l'Inferno è simile al cratere di un vulcano: una specie di cono rovesciato, il cui vertice si trova al centro della Terra. Questo cono è orlato dai nove Cerchi. Questa struttura fa da contraltare ai Nove Cieli di cui è composto il Paradiso. Infatti, l'Inferno è un Paradiso alla rovescia: essendo il diavolo, satana, "simia Dei", cioè "scimmia di Dio", cerca di imitare Dio copiando anche la struttura paradisiaca. Lo stesso satana nella Divina Commedia ha tre volti, cosa che richiama la Trinità (la stessa rappresentazione che Nagai ripresenta nel diavolo Zenon in Devilman).

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    L'Inferno dantesco, raffigurato da Nagai



    IL PRIMO CERCHIO: IL LIMBO

    Entrato nel Primo Cerchio, Dante e Virgilio entrano nel Limbo (nome che significa «lembo» e indica l'orlo estremo della voragine infernale), dove vivono non le anime dannate, ma quelle che non ricevettero il battesimo e che, pur comportandosi bene, vissero prima della venuta di Cristo: ma, non essendo state battezzate, sono escluse dalla visione beatifica, pur senza soffrire le pene dell'Inferno e vivendo in un ambiente pacifico, simile ai Campi Elisi della mitologia greca. Vivono senza soffrire, però anche senza gioire, sospirando l'impossibilità di essere in Paradiso e contemplare Dio. Lo stesso Virgilio è una di quelle anime; oltre a lui, in particolare, Dante, tra le altre anime del Limbo, incontra Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, che sono considerati "Spiriti Magni" come Virgilio. Oltre a loro, Dante incontra persone famose come i condottieri Ettore, Enea, Giulio Cesare, il Saladino; i filosofi come Aristotele, Socrate e Platone; gli scrittori come Cicerone e Seneca; i matematici come Euclide, Tolomeo; i medici come Ippocrate. Questo canto è stato quasi del tutto saltato da Nagai, che in sole due pagine fa un breve cenno di riferimento ai non battezzati, senza presentare gli uomini famosi come Omero e gli altri.

    limbo
    Le anime del Limbo.


    L'esistenza del limbo non è un dogma per la Chiesa, ma un'ipotesi. Vero o no che sia, il Limbo sottolinea comunque l'importanza del Battesimo, che non è soltanto il bagnare il capo a un neonato. Non ha un significato simbolico, ma reale: col battesimo entri a far parte del Corpo e Sangue di Cristo. Questo non esclude il fatto che Dio possa salvare anche i non battezzati attraverso altre vie che noi non conosciamo: ma qui Dante ne sottolinea comunque l'importanza. Senza il battesimo, infatti, non si è cristiani e non si può entrare nella Salvezza, almeno non nel modo stabilito da Cristo.

    INFERNO, CANTO 5 - IL SECONDO CERCHIO: MINOSSE, IL GIUDICE

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    Usciti dal Limbo, Dante e Virgilio entrano nel Secondo Cerchio, meno ampio del precedente, ma contenente molto più dolore. Sulla soglia trovano il giudice Minosse, che era stato il re di Creta, che imponeva sacrifici umani per il suo figliastro, il Minotauro. Minosse nella Commedia ha una coda serpentina: ringhiando con aspetto animalesco, giudica le confessioni delle anime dannate e indica loro in quale Cerchio siano destinate, attorcigliando intorno al corpo la sua lunghissima coda, in tante spire quanto è il numero del Cerchio in cui il dannato deve finire. Non appena Minosse vede che Dante è vivo, lo apostrofa con durezza e lo ammonisce a non fidarsi di Virgilio, poiché uscire dall'Inferno non è così facile come entrarci. Virgilio, però, lo zittisce, come ha fatto con Caronte, ricordandogli che il viaggio di Dante è voluto da Dio.

    Nel manga, Minosse, come Caronte, si mostra poco timoroso del giudizio divino e, anzi, ridendo, spaventa Dante con un suo colpo di coda, un avvenimento che non c'è nella Commedia. Nel manga c'è ancora la scena della povera dannata-vittima che non ha fatto nulla di cui accusarsi, con una faccia da Candy Candy e un fisico da Miss Mondo e che Minosse, invece, accusa, facendolo sembrare un giudice ingiusto su povere innocenti (e, di riflesso, facendo sembrare così anche Dio).

    Invece, nella Commedia - come ho detto per i dannati di Caronte - anche quelli che sono davanti a Minosse dicono le loro colpe e vanno nel Cerchio in cui sono destinati, maledicendo le loro scelte fatte in vita e bestemmiando. Nessuno di loro fa "la vittima", anzi, vogliono andare lì, odiando Dio, gli uomini, se stessi e cercando di stare il più lontano possibile da Dio.

    BIBLIOGRAFIA
    https://divinacommedia.weebly.com/inferno-canto-iv.html
    https://divinacommedia.weebly.com/inferno-canto-v.html
    Bussola Quotidiana, Giovanni Fighera

    Edited by joe 7 - 25/9/2021, 16:44
     
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    INFERNO, CANTO 5 - IL SECONDO CERCHIO

    I LUSSURIOSI

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    Superato Minosse, Dante e Virgilio sono nel Secondo Cerchio, quello dei lussuriosi, che Dante definisce come "coloro che la ragione sottomettono al talento". Significa che queste anime seguirono prima il "talento", cioè il loro sentimento e attrazione per l’altro, poi - non sempre - la ragione. I sentimenti, infatti, sono importanti, ma non possono sopraffare la ragione, qui intesa come "apertura alla realtà". Voler bene all’altro significa volere il bene dell’altro: cioè la sua realizzazione, il suo compimento, il suo destino. Come può essere considerato "amore" un rapporto che non guarda al destino dell'altro? Non c'è nulla di più falso nel dire "basta che ci sia l'amore", se non si cerca il bene dell'altro.

    I lussuriosi vengono trascinati da una bufera che non ha sosta, che simbolizza il vento delle loro passioni che non seppero controllare in vita. Sono più volte paragonati ad uccelli che volano in un’aria cupa e di colore «perso» (cioè scuro). Dapprima, l’intero gruppo di anime è paragonato agli stornelli (uccelli) che sono trascinati "a schiera larga e piena […] di qua, di là, di giù, di sù". Poi, in mezzo a loro, Dante vede i lussuriosi di morte violenta. Tra questi vi sono:

    - Semiramide (regina babilonese che ebbe rapporti incestuosi col figlio. Per far sì che il suo comportamento risultasse "normale" agli occhi della popolazione, promosse una legge, attraverso la quale tutti i sudditi dovevano essere altrettanto lussuriosi come lei. Da qui il famoso verso di Dante: "libito fé licito in sua legge": cioè rese la libidine, e ogni male, cosa lecita e giusta per legge)
    - Elena (provocò la guerra di Troia con l'amore adulterino che aveva con Paride, anche lui tra i lussuriosi; fu impiccata dalla regina di Rodi, Polisso, che voleva vendicare suo marito ucciso a Troia)
    - Didone (regina di Cartagine, che si suicidò per amore di Enea)
    - Cleopatra (regina d'Egitto e amante di Cesare e Marco Antonio; usò la lussuria come mezzo per comandare. Si suicidò con un aspide)
    - Achille (che volle Polissena, la figlia di Priamo, di cui aveva appena ucciso il fratello Ettore; fu ucciso da Paride)
    - Tristano e Isotta (amanti adulteri, muoiono entrambi di dolore l'uno per la perdita dell'altro)

    Tristano-e-Isotta
    Tristano e Isotta


    La prima cosa che si nota è che i personaggi presentati sono stati immortalati dalla grande letteratura, qui accusata, perchè spesso non ha creduto nell’amore vero, che dura nel tempo, considerandolo noioso da raccontare: ha piuttosto presentato il fascino dell’"amore impossibile" o della "storia breve e tragica". Questa letteratura ha fin troppo inciso sulla mentalità comune, con la sua teorizzazione dell’amore impossibile, finendo spesso per complottare contro l’istituto familiare, in cui il rapporto amoroso che porta alla prole, vissuto nella quotidianità, nel dolore e nella gioia, nella sofferenza e nelle soddisfazioni, sembra stancare per la sua (apparente) monotonia e ripetitività.

    Due persone non si amano, se soddisfano solo un reciproco, narcisistico compiacimento sensuale. E' importante imparare a guardare la compagna/il compagno, la fidanzata/il fidanzato, la moglie/il marito col distacco che permette di vedere l’altro per quello che è, diverso da noi, diverso dalle nostre pretese e soprattutto con una sua strada, un suo destino da realizzare.

    La cultura di oggi presenta la sessualità come uno dei piaceri da soddisfare, uguale agli altri. Questa considerazione materialista fa vedere l'uomo alla stregua di un animale. Tutta la cultura di oggi, positivista, scientista, darwiniana, da un secolo e mezzo dice e fa credere che tra noi e le scimmie non esiste in realtà alcuna differenza, se non per il fatto che noi siamo semplicemente più avanti nella linea evolutiva.

    Per addentrarci veramente nel sentimento che unisce un uomo e una donna, bisogna capire il mistero dell’uomo, che non può essere ridotto alla sola materia. Nella tradizione cristiana, l’uomo è anima e corpo: componenti non separate, ma unite in una reciproca relazione. Nell’ambito dell’affettività, come del resto in tutte le sfere dell’umana natura, non può emergere solo la componente dell’istintività e dell’impulso.

    Un vero rapporto affettivo, amoroso, può essere vissuto solo se si rispettano tutti gli aspetti dell’uomo, non solo quello fisico e passionale. Questa apertura a tutti i fattori della realtà viene chiamata ragione. La mano che strappa il fiore per possederlo lo costringe al rapido inaridimento; ma colui che fa un passo indietro, può osservare il fiore per intero e rimanere stupito, contemplando la sua bellezza. Chi capirà meglio il fiore: chi l’ha reciso o chi l’ha ammirato? Chi amerà meglio la propria ragazza, chi saprà aspettare e si meraviglierà per un amore che cresce e sa manifestarsi in diverse forme di affettività, o chi pretenderà di possedere l’altro, prima ancora di essersi promesso, di aver fatto sacrifici per l’altro?

    PAOLO E FRANCESCA

    104a


    In mezzo a queste anime, Dante vorrebbe parlare con

    "due che 'nsieme vanno,
    e paion sì al vento esser leggeri"
    .

    Sono Paolo (Paolo Malatesta di Rimini) e Francesca (Francesca da Polenta di Ravenna), due cognati. Paolo fu mandato come intermediario del matrimonio tra il brutto e zoppo fratello Gianciotto e la bella e affascinante Francesca. Il loro matrimonio avrebbe sancito la definitiva conclusione delle guerre e dei contrasti tra Ravenna e Rimini. Francesca non dimenticò, però, Paolo: i due si amarono, finché non vennero colti di sorpresa da Gianciotto e uccisi da lui. Francesca è la sola che parla e racconta la sua storia a Dante: aggiunge anche che la Caina, la zona del IX Cerchio dove sono puniti i traditori dei parenti, attende Gianciotto, il loro uccisore: quindi anche Gianciotto, il loro assassino, finirà tra i dannati, e non solo loro due. Francesca si mostra come una donna raffinata, bella, affabile, che ha eleganza e toni cortesi, quasi stilnovistici: è solo lei a parlare, mentre l'altro, Paolo, tace e piange. Con la sua eleganza, Francesca somiglia a Beatrice, ma è una Beatrice alla rovescia: se la prima accompagnerà Dante in Paradiso, questa seconda Beatrice ha portato se stessa e l’amato all’Inferno. Sentiamo l’eleganza con cui si presenta a Dante:

    "O animal grazïoso e benigno (o uomo pieno di cortesia e di benevolenza)
    che visitando vai per l'aere perso
    noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
    se fosse amico il re de l'universo,
    noi pregheremmo lui de la tua pace,
    poi c'hai pietà del nostro mal perverso."


    Colta e ispirata a toni poetici, Francesca è cosciente che l’amore può risiedere solo in un cuore "gentile", cioè buono ("Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende"), e che all’amore si dovrebbe rispondere con l’amore ("Amor, ch'a nullo amato amar perdona"). Fu la bellezza del corpo ad accendere la fiamma tra di loro. Dante vuole sapere come sia stato possibile che un sentimento così nobile, così alto, così bello come quello amoroso possa essere diventato male, peccato. Qual è stato il punto, il momento in cui i due cognati hanno svelato i loro reciproci sentimenti compiendo il male? Alla domanda di Dante "A che e come concedette amore che voi conosceste i dubbiosi disiri", Francesca ricorda, dapprima, che non c’è dolore più grande che ricordarsi dei tempi felici quando si è infelici. Poi aggiunge:

    "Noi leggiavamo un giorno per diletto
    di Lancialotto come amor lo strinse;
    soli eravamo e sanza alcun sospetto.
    […] ma solo un punto fu quel che ci vinse.
    Quando leggemmo il disiato riso
    esser basciato da cotanto amante,
    questi, che mai da me non fia diviso,
    la bocca mi basciò tutto tremante.
    Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse."


    Nel leggere la storia di Lancillotto e Ginevra, i due amanti adulterini, Paolo e Francesca hanno desiderato, alla fine, in un attimo, di imitarli. In un istante si gioca la libertà della persona. Un istante può valere una vita, la salvezza o la dannazione. È segno di maggiore libertà vivere l’istante per l’istante (cogliere l'attimo, "carpe diem"), cioè scegliere nell’istante in nome del proprio piacere e della propria soddisfazione, oppure decidere tenendo conto della propria strada, del proprio destino, di tutte le componenti e i fattori coinvolti? È più libero un padre di famiglia che si lascia andare all’istinto del momento e tradisce così la moglie (e, quindi, i figli), rompendo così la fedeltà alla consorte e sfasciando magari il nucleo familiare, oppure un padre che, memore dell’amore che prova e della promessa fatta, sceglie per il bene proprio e dei suoi cari? Ovviamente lo stesso discorso vale per le mogli e le madri.

    Fatto salvo che la responsabilità del peccato è personale, perché ogni uomo è libero di scegliere, ancora una volta, in conclusione del canto V, Dante chiama sul banco degli imputati la letteratura e, quindi, gli scrittori. La storia adulterina di Lancillotto e Ginevra, scritta, tra gli altri, dal grande Chretien de Troyes, e letta da Paolo e Francesca, è di soave delicatezza e dai toni cortesi e galanti. Eppure, Dante riconosce che anche un testo letterario dall'aspetto nobile può avere un peso determinante nelle vicende di chi lo legge. Lo scrittore ha una responsabilità incredibile. Di solito, a scuola e in famiglia si spronano i ragazzi a leggere, a vedere film, a socializzare. Invece, si dovrebbe pensare cosa leggere, cosa vedere, chi frequentare. Lettura, amicizie, film, televisione, internet ci formano e ci educano. Un discernimento è necessario per vivere serenamente.

    Lo stesso si può dire dei manga, che oggi vanno per la maggiore. Anche se riconosco la qualità dei manga e anime, ne riconosco anche i lati negativi. Infatti, tra queste opere ce ne sono di talmente perverse quali non ho mai viste in tutta la mia vita: pedofilia, incesto, confusione sessuale, scene esplicite al massimo, azioni malvagie spacciate per buone, consacrazioni ed esaltazioni al demonio e mille altre cose simili. Bisogna stare sempre attenti a quello che si legge.

    La pietà provata da Dante verso Paolo e Francesca non è dunque una "generica compassione", né una riabilitazione del loro amore clandestino: è piuttosto il turbamento angoscioso di uno scrittore che prende coscienza della pericolosità della letteratura, anche popolare, che insegna modelli sbagliati.

    Il canto V dell’Inferno si conclude con lo svenimento di Dante, escamotage narrativo utilizzato dal poeta nei primi cerchi per evitare di dover descrivere il passaggio da un cerchio all’altro.

    LA VERSIONE DI NAGAI

    108a
    Il Ganciotto di Nagai è particolarmente ripugnante.


    Tutte le dannate lussuriose sono mostrate nude da Nagai, come al solito. Inoltre, Virgilio nel manga dice a Dante che può rivolgersi a Paolo e Francesca "parlando col suo cuore", in pratica con la telepatia. Ma, nel poema, Dante parla direttamente a loro usando la bocca, non c'è nessuna telepatia. Qui Nagai richiama ancora la visione orientale, in cui la carne non è salvata, mentre lo spirito sì, passando attraverso le varie trasmigrazioni o reincarnazioni. Invece, nella visione cristiana anche la carne segue l'anima. Di conseguenza, sia Paolo e Francesca, che Dante parlano tra di loro usando la bocca, un elemento che appartiene al corpo e alla carne, sottolineando il destino della carne e dell'anima insieme.

    Inoltre, nel manga, Paolo si presenta, mentre, invece, nel poema sta zitto e piange per tutto il tempo. Nel racconto di Francesca nel manga, non si fa cenno dei due che leggono la storia di Lancillotto e Ginevra, nè c'è il famoso termine "galeotto fu il libro e chi lo scrisse" curiosamente tagliato da Nagai, che di roba "galeotta" ne ha fatta parecchia. Parla solo dell'amore adulterino tra Paolo e Francesca, cercando implicitamente di giustificarlo. Anzi, Dante, nel manga (non nel poema, ovviamente), durante il suo svenimento, sogna Beatrice nuda (un'ossessione per Nagai), chiedendole perchè Paolo e Francesca avrebbero peccato. Beatrice non risponde: Nagai fa vedere le sue forme in vignette varie, e se ne va senza dire nulla.

    Non si cerca neanche di spiegare perchè hanno fatto quella fine, facendo apparire due adulteri come "due vittime che hanno solo seguito l'amore". Senza mai badare al fatto che Francesca aveva fatto un impegno solenne (che poteva anche non fare) di sposare Gianciotto davanti a Dio, agli uomini e a Gianciotto stesso, e persino davanti a Paolo. Non mantenere l'impegno è segno di leggerezza, doppiezza, disinteresse per il destino dell'altro: infatti, Francesca non cerca di resistere a Paolo, lasciando così che lui faccia quella fine. E lo stesso fa Paolo. E' quell'amore egoista, che non usa la ragione e che non porta alla realizzazione nè di se stessi nè dell'altro. E così, tutti e tre finiscono male: Francesca, Paolo e Gianciotto. E' il risultato di un amore sbagliato, che non vede la realtà, nè ciò che è giusto e ciò che non lo è.

    BIBLIOGRAFIA
    https://divinacommedia.weebly.com/inferno-canto-v.html
    Bussola Quotidiana, Giovanni Fighera

    Edited by joe 7 - 25/9/2021, 16:45
     
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    INFERNO, CANTO 6

    IL TERZO CERCHIO: I GOLOSI

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    CERBERO

    Nel canto VI dell’Inferno, Dante e Virgilio arrivano al Terzo Cerchio, quello dei golosi, dove piove sempre: una pioggia pesante, ossessiva, che ammorba tutta la terra, rendendola putrida e puzzolente. A custodia delle anime si trova il gigantesco cane a tre teste, Cerbero, che nel Medioevo rappresentava l’ingordigia e le discordie civili. Il mostro canino ha gli occhi rossi, le barbe unte e "atre", cioè nere, scure. Il mostro mitologico è stato preso dall’Eneide di Virgilio: come Caronte e Minosse è una divinità infera "demonizzata" dal pensiero cristiano. Anche Cerbero ha la funzione allegorica di impedimentum morale alla via della salvezza di Dante: infatti, il mostro ringhia e mostra i denti ai due viaggiatori. Virgilio non può dire ad una bestia quello che ha detto a chi era ancora dotato di ragione come Caronte e Minosse: quindi passa al concreto. Gli getta nelle tre gole una manciata di terra, che Cerbero inghiotte saziandosi: un gesto che ricorda quello della Sibilla nel libro VI dell'Eneide (anche se in quel caso la sacerdotessa lanciava a Cerbero una focaccia intrisa di erbe soporifere). Cerbero è considerato un'anticipazione di lucifero, che avrà anch'egli tre facce, una bizzarra parodia della Trinità. I dannati, colpiti da una pioggia incessante, sono costretti a voltolarsi nel fango maleodorante, che contrasta con la prelibatezza e i profumi dei cibi di cui furono ghiotti in vita, il che rende piuttosto evidente il contrappasso. E la pena è accresciuta da Cerbero, che li sbrana ("graffia li spirti ed iscoia ed isquatra"), proprio come se fossero dei cibi da mangiare.

    PERCHE' I GOLOSI?

    Ci si potrebbe chiedere perchè un Cerchio per i golosi: è un peccato così grave mangiare, o mangiare un pò troppo, a volte? No, ma è un peccato vivere per mangiare, mentre si deve mangiare per vivere. Se il cibo è la sola cosa che vuoi, per la quale vuoi solo campare, se passi a mangiare desiderando sempre il cibo dimenticandoti degli altri, questa è la "gola". E un "goloso" non si interessa più nè degli altri nè di se stesso: è schiavo del cibo. Nel manga, Nagai fa dire a Virgilio questa spiegazione (che nella Commedia non c'è): "Non dimenticare che per ogni ingordo c'è qualcuno che soffre la fame". Questa è una visione orientale, simile a quella comunista, dove chi ha, ha perchè ha tolto ad un altro. Non è così: chi mangia troppo, vivendo solo per mangiare, non toglie ad un altro, ma piuttosto rovina se stesso.

    L'IMMATERIALITA' DELLE ANIME

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    Dante e Virgilio proseguono e passano letteralmente sopra le anime, che, essendo immateriali, non oppongono ostacolo. Siccome le anime hanno corpi inconsistenti, Dante e Virgilio possono porre su di loro le piante dei piedi, come se non esistessero. A volte Dante, nella Commedia, è coerente con tale principio: in altri casi, invece, descrive le anime come corpi solidi, per esigenze poetiche di maggior realismo. Per spiegare la situazione delle anime, Virgilio spiega a Dante che nel Giudizio Finale tutti i trapassati, sia all'Inferno che in Paradiso, si rivestiranno del loro corpo mortale, ascoltando la sentenza finale, che fisserà in eterno il loro destino ultraterreno. Dante chiede a Virgilio se i tormenti dei dannati aumenteranno dopo il Giudizio, oppure saranno attenuati o resteranno uguali. Virgilio risponde che, quanto più ci si avvicina alla perfezione, tanto più si è in grado di percepire il dolore e il piacere. I dannati non saranno mai perfetti, tuttavia è logico supporre che, dopo la sentenza finale, essendosi riappropriati dei loro corpi, raggiungeranno la pienezza del proprio essere, quindi le loro pene, più perfette, aumenteranno. Mentre i salvati in Paradiso, coi loro corpi, avranno invece maggior gioia e piacere. Dopo aver incontrato Ciacco (di cui parlerò qui sotto), Dante e Virgilio giungono al punto in cui si scende dal Terzo al Quarto Cerchio, presieduto da Pluto: qui finisce il canto 6.

    CIACCO

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    Dante incontra il dannato Ciacco, soprannome che significa «porco». Di lui sappiamo poco, a parte le notizie fornite da Dante e da Boccaccio nel Decameron (IX, 8), dove lo definisce "un uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai... per altro assai costumato e tutto pieno di belli e piacevoli motti". Probabilmente era un parassita che a Firenze veniva invitato ai banchetti per allietare i commensali con le sue facezie, quindi doveva essere ben noto ai lettori contemporanei della Commedia. Questi si presenta dichiarandosi appartenente alla città di Firenze: Dante non mostra particolare affetto per il conterraneo. Solo apparente è il dolore che prova per il goloso ("Il tuo affanno / mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita"), perché subito lo incalza con delle domande sulla sua città:

    1) A che punto arriveranno i fiorentini con le loro discordie?
    La risposta non è favorevole a Dante, che è un Guelfo Bianco, perchè Ciacco gli dice che vinceranno i Guelfi Neri (Dante scrive la Commedia durante l'esilio a causa della vittoria dei Neri, quindi sapeva bene cosa sarebbe successo).

    2) C’è qualche giusto a Firenze?
    La risposta di Ciacco è: "Giusti son due, e non vi sono intesi". Cioè, praticamente nessuno è giusto ("due", cioè pochissimi), e nessuno li ascolta ("intesi").

    3) Quali sono le ragioni che hanno disseminato l’odio nella città?
    La risposta di Ciacco è chiara e richiama le tre bestie di Dante all'inizio della Commedia: "superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c'hanno i cuori accesi". Questi sono i tre gravi peccati che non permettono agli uomini di vivere in pace tra di loro, nel rispetto reciproco e nella prospettiva di realizzare il bene comune.

    4) Dove sono le persone eminenti che gestirono la città di Firenze, cioè "ch'a ben far puoser li 'ngegni" come Farinata, Arrigo, Mosca?
    Ciacco risponde che Dante potrà vedere quei politici nei successivi Cerchi dell’Inferno.

    LA POLITICA, QUESTA BESTIA SCONOSCIUTA

    Dante, fin da subito, nel poema sottolinea gli ambiti e i problemi fondamentali dell’umana esistenza:
    - i primi tre canti parlano della relazione con se stessi;
    - il canto 5 parla della relazione col prossimo;
    - il canto 6 parla del vivere associato, cioè la relazione col mondo in cui si vive.

    Sia nell'Inferno, che nel Purgatorio, che nel Paradiso, il Sesto Cantico è sempre di argomento politico, secondo un passaggio ascendente che va da Firenze (questo cantico) all'Italia (Canto VI, Purgatorio), all'Impero (Canto VI, Paradiso). Qui il discorso politico è dedicato alla città di Dante, di cui vengono analizzate le lotte interne e le discordie attraverso il personaggio di Ciacco. Politica viene da "polis", città, e indica l'amministrazione di una città (appunto), ma anche di un Paese, di una Nazione e così via. Dante dà una bellissima definizione del politico: colui che ha usato la sua intelligenza e i suoi talenti per compiere il bene comune. Aristotele definì l’uomo come "animale sociale": cioè una persona che, per sua natura, tende a vivere insieme con gli altri (e questo mostra la disumanità di essere stati costretti a stare "dissociati", nei lockdown del 2020-21). L’uomo, per sua natura, è portato a fare rapporti con gli altri uomini, per affrontare i problemi non da un punto di vista solo individualistico, ma anche comunitario. Dante, attraverso Ciacco, non vuole certo dire che l’attività politica porti all'Inferno: ma ribadisce come non basta dedicare il proprio tempo alla politica, occorre farla bene. Cioè, come tutte le attività umane, anche quella politica deve essere sempre stare attenta a non degradarsi, cercando il proprio interesse a scapito degli altri. La politica, da sola, senza morale, non salva l’uomo; né tantomeno un grande personaggio politico si salva, se è senza morale.

    146a


    Una politica vera, che faccia il bene, deve essere liberata in continuazione dalle ideologie, che portano a fare il male, sotto l'apparenza del bene. Che cosa può purificare l’agire politico? L’incontro con Gesù Cristo dà strada e forza per questa purificazione, che è anche sociale, non solo personale. Di purificazione non ha bisogno solo l’amore tra le persone, ma anche quello per il proprio paese e per il proprio vivere sociale.

    Oggi c'è il disinteresse per la politica, vista come il ricettacolo dell'inferno: si è persa così la consapevolezza che la politica - se è rettamente intesa - serve per il bene comune. Dante ne parlò nel suo "De monarchia", dove parla di Impero e Chiesa: la necessità dell’Impero (oggi, lo Stato) è giustificata dal fatto che l’unità imperiale (oggi, l'unità statale) permette la pace, che è, a sua volta, la condizione indispensabile perché ciascun uomo possa essere libero e perseguire il fine della vita umana, cioè la propria felicità. In pratica, l’Impero (oggi lo Stato) è uno strumento dell’uomo e non il contrario. E' lo Stato che deve servire l'uomo, mai il contrario.

    Dante insiste sul fatto che due sono i fini della vita umana: la felicità in questa terra e la beatitudine eterna in Paradiso. In questo contesto, Dante sottolinea l’importanza della presenza di un’autorità morale e religiosa a cui fare riferimento, da lui identificata nella Chiesa e nel Papato. Quindi, l' unità territoriale (Italia), in una realtà politica unica (Stato) e con un riferimento morale (Chiesa) appare come la possibilità di garanzia di una condizione che permetta la vera crescita dell’uomo: nella pace, nella libertà e nella felicità. Almeno per quanto sia possibile in questo mondo.

    STATO E CHIESA

    L’unificazione economico-politica europea del dopoguerra ha dato sessant'anni di pace, ma ha fatto vedere, soprattutto negli ultimi anni, che l'Europa ha molti volti ed anime, non ne ha una sola, e non è possibile realizzare una vera unità territoriale e di pensiero basandosi solo su fattori economici. E nemmeno con un "pensiero unico" che viene martellato ossessivamente dai giornali e da tutti i mass-media. Senza un’autorità morale e religiosa, non si va avanti: una "religione laica" fatta dall'uomo non porterà a nessuna pace e a nessuna unione, anzi acuirà sempre di più le differenze, provocando contrasti sempre più profondi. La teoria di Dante dei due soli (Impero-Stato e Chiesa), giudicata frettolosamente come anacronistica, illumina invece il passato dell’Europa come il suo presente e futuro. Non si deve credere che Dante volesse proporre una realtà politica su basi teocratiche: quello sarebbe caratteristico del mondo musulmano. Dante, invece, ha sempre voluto evidenziare la divisione tra potere temporale e potere spirituale: il primo gestito dall’autorità imperiale o dall'autorità statale; il secondo affidato alla Chiesa. La posizione di Dante è chiaramente espressa nel canto centrale di tutta la Commedia, il XVI del Purgatorio, in cui Marco Lombardo, una delle anime del Purgatorio, così si esprime:

    virgilio
    Marco Lombardo e Dante


    "Soleva Roma, che 'l buon mondo feo,
    due soli aver, che l'una e l'altra strada
    facean vedere, e del mondo e di Deo.
    L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada
    col pasturale, e l'un con l'altro insieme
    per viva forza mal convien che vada;
    però che, giunti, l'un l'altro non teme."


    Cioè: Roma aveva due "soli", due riferimenti: l’uno mondano e politico, l’altro religioso. Quando i poteri temporale e religioso sono affidati ad una sola persona, non procedono bene. Ma Dante criticherebbe certamente con toni aspri la posizione laicista di oggi, secondo la quale le riflessioni religiose possono essere espresse solo in uno spazio privato, mentre in ambito pubblico non si può esporre la propria convinzione di fede. Per Dante, infatti, l’uomo è sempre integrale, mai disunito, e porta sempre con sé in ogni ambito il proprio credo, le proprie convinzioni, i propri ideali. Non esiste una settorializzazione degli ambiti, perchè l’unità della persona investe ogni aspetto della vita: dalla cultura, alla politica, alla letteratura. Oggi, invece, sembra dominare gli scenari nazionali e internazionali l’insegnamento di Machiavelli, secondo il quale la legge dell’agire è solo la ragion di Stato, cioè il suo mantenimento o ingrandimento. Quindi il fine giustifica i mezzi nell’ambito politico: ogni azione è consentita, è lecita, per conservare il potere o per ottenerlo. E' proprio con questa mentalità errata che si aprono le porte dell'Inferno per chi le pratica: se comportarsi bene conta nel privato, questo conta anche nel pubblico e, quindi, anche nella politica.

    LO STATO AL SERVIZIO DELL'UOMO, MAI IL CONTRARIO

    Nella prospettiva di Dante, l’uomo non è un mezzo e uno strumento finalizzato allo Stato, bensì è quest’ultimo, invece, che deve avere come fine quello di garantire la libertà della persona (cosa violata in questi due orribili anni di lockdown, che nessuna emergenza sanitaria può giustificare), permettendogli di ricercare la felicità. La politica contemporanea ha dimenticato questa funzione dello Stato. Infatti, lo Stato è composto da uomini, quindi è nato dopo l’uomo, non prima di esso. Lo Stato non è Dio. E ha il dovere di garantire i diritti inalienabili dell’uomo. I diritti e il valore della persona non sono mai fondati sullo Stato, nè dipendono dallo Stato, ma sono connaturati all’uomo. Lo Stato ha solo il dovere di riconoscerli e di sottomettervisi. I politici non devono dimenticare che "il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica" (Scola). In questo senso, non ci può esistere pace senza giustizia, cioè senza dare all'uomo quello che gli spetta. "Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?" afferma sant’Agostino. La constatazione che lo Stato debba garantire un giusto ordine non significa certo che esso si debba sostituire al popolo, alle sue iniziative, alle sue opere.

    IL DANTE REALE E QUELLO DI NAGAI: IL CONFRONTO

    Generalmente, Nagai rispetta il cantico, anche se ci sono delle variazioni: infatti, i dannati sono divorati da Cerbero che li digerisce e ne fa degli escrementi che butta via; poi, si riformano. Ma questo nella Commedia non c'è: Cerbero "squatra" e basta, non si fa cenno a dannati divorati ed espulsi. Forse questa aggiunta di Nagai è dovuta al tipico disprezzo orientale per il corpo, in un orrendo ciclo di "reincarnazioni".

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    Cerbero "scarica" i dannati sotto forma di escrementi.


    Nagai salta la parte in cui Dante chiede a Ciacco di di Farinata e degli altri uomini politici di Firenze. Inoltre, è Dante, insieme a Virgilio, a gettare del fango a Cerbero. E, mentre Dante lo fa, vede che quel fango che tiene in mano è un pezzo di persona. Non c'è nella Commedia questo dettaglio: Virgilio butta a Cerbero del vero fango e basta. Inoltre, Cerbero, nel manga, anche se ha mangiato il "fango", insegue Dante e Virgilio, mentre nel poema non lo fa.

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    BIBLIOGRAFIA:
    https://divinacommedia.weebly.com/inferno-canto-vi.html
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    INFERNO, CANTO 7

    IL QUARTO CERCHIO: AVARI E PRODIGHI

    IL QUINTO CERCHIO: IRACONDI E ACCIDIOSI


    PLUTO

    152-153


    Dante e Virgilio entrano nel Quarto Cerchio, dove sono condannati gli avari e i prodighi. All'ingresso incontrano Pluto, il custode di quella zona infernale. Nagai gli dà le sembianze di un gigante dall'aspetto umano; ma, nella Commedia, è visto come un lupo dotato di parola, dicendo parole incomprensibili: "Papè Satan Aleppe", spesso citate da chi commenta la Commedia. Sono parole senza un significato preciso: praticamente sono un elogio a satana e un tentativo di spaventare Dante per farlo retrocedere dal suo cammino verso il Paradiso. Virgilio, però, rassicura Dante del fatto che Pluto non potrà impedire il loro cammino; poi rimprovera il demone e lo zittisce, ricordandogli la sconfitta subita da Lucifero ad opera dell'arcangelo Michele. A questo punto, Pluto cade a terra prostrato e i due poeti possono proseguire. Questo Canto è dedicato soprattutto al peccato di avarizia, simboleggiato dalla "lupa famelica" del primo Canto (e infatti Pluto ha sembianze canine). L'avarizia è considerata da Dante la radice di tutti i mali del mondo. Il richiamo a Pluto, divinità dell'oltretomba, è evidente, ma non lo è il fatto di Dante di averlo mostrato con fattezze canine.

    AVARI E PRODIGHI

    Le anime del Quarto Cerchio sono più numerose di tutte le altre dei vari Cerchi: i dannati spingono faticosamente degli enormi macigni, senza usare le mani e usando solo il petto (nel manga, i dannati spingono i massi con le mani; inoltre, qui non sono massi, ma sacchi di monete). Divisi in due schiere, procedono lungo il Cerchio in senso opposto: quando cozzano gli uni contro gli altri, urlano tra di loro: "Perché tieni (stretto il masso)?" (cioè: perchè fai l'avaro tenendo tutto?) e l'altro risponde: "Perché burli (lo fai rotolare)?" (cioè: perchè lo lasci andare, facendo sprechi, come uno sprecone, un prodigo?) quindi si girano indietro e riprendono il loro cammino fino a scontrarsi di nuovo e a ripetere le stesse cose, all'infinito.

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    Questo è l'unico Cerchio infernale in cui è detto chiaramente che ad essere puniti sono due peccati opposti, secondo il principio aristotelico in medio stat virtus ("la virtù sta nel mezzo"). Tanto gli avari quanto i prodighi non hanno saputo osservare una giusta misura nelle loro spese. I primi sono stati troppo stretti, i secondi troppo larghi. Inoltre, il peccato commesso dai prodighi è diverso da quello degli scialacquatori, che non si sono limitati a spendere troppo, ma hanno sperperato in maniera dissennata tutto il loro patrimonio, per cui li troveremo tra i peccatori di violenza del Settimo Cerchio. Si può pensare che, in fondo, si tratta solo di monete non di peccati, ma non è così: una cattiva amministrazione dei propri soldi implica una cattiva amministrazione di se stessi. Gli avari non si donano, i prodighi si rovinano senza mai dare veramente.

    Qui Dante non parla con nessuno dei dannati, anzi stenta a riconoscerne le fattezze umane, tanto sono stravolti dal "carattere immondo del loro peccato", dice Virgilio. Però si accorge, dalla tonsura di alcuni, che sono degli uomini di chiesa. Virgilio conferma l'osservazione di Dante: anzi, aggiunge che fra loro ci sono anche dei papi e cardinali. Per l'eternità le due schiere di dannati si scontreranno nei due punti del Cerchio, finché nel Giorno del Giudizio gli avari risorgeranno col pugno chiuso e i prodighi coi capelli tagliati, come segno delle loro colpe, continuando per sempre il loro giro. Virgilio conclude dicendo che i beni terreni, affidati alla fortuna, sono effimeri e tutto l'oro del mondo sarebbe insufficiente a placare una sola di queste anime afflitte.

    FORTUNA

    Dante chiede a Virgilio cosa sia questa Fortuna, che sembra avere i beni materiali tra i suoi artigli, interpretandola erroneamente come qualcosa di casuale e capriccioso (l'interpretazione attuale della fortuna oggi). Virgilio spiega che Dio ha disposto varie intelligenze angeliche a governare i vari Cieli, e allo stesso modo ha creato un'intelligenza che amministra i beni terreni, appunto la Fortuna, che stabilisce, secondo il piano divino di salvezza per tutti, quando le ricchezze debbano cambiare di mano e quali genti debbano prosperare o decadere, secondo l'imperscrutabile giudizio divino. La saggezza umana, essendo limitata in confronto a quella divina, non può comprendere in pieno le sue decisioni. Molti sciocchi la maledicono, mentre invece dovrebbero lodarla e ringraziarla, perchè quello che la fortuna a loro dà o toglie, è perchè guadagnino il paradiso. Questo non implica una passività davanti al fato, ma una azione confidente in Dio Padre: nelle prove e nei momenti belli, Lui aiuta in entrambi i casi.

    IL QUINTO CERCHIO: IRACONDI E ACCIDIOSI

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    Questo è il primo Canto dove vengono presentati due Cerchi insieme, che quindi sono descritti sbrigativamente dal poeta. Dante e Virgilio entrano così nel Quinto Cerchio, dove c'è il fiume limaccioso dello Stige e dove sono collocati gli iracondi e gli accidiosi. Per "accidiosi" qui si intendono gli iracondi che covarono a lungo il risentimento e meditarono vendetta. Una specie di "ira interna", quindi. Posti sott'acqua, gli accidiosi ammettono la loro colpa e il fatto di essere stati tristi nella vita felice. Nel fango dello Stige sono immerse delle anime che Dante osserva con attenzione, vedendo che hanno l'aspetto corrucciato. Questi dannati si percuotono con schiaffi, pugni e morsi, arrivando persino a sbranarsi a vicenda. Virgilio spiega a Dante che si tratta degli iracondi e ci sono altre anime completamente immerse nello Stige, che non si vedono ma sospirano e fanno gorgogliare l'acqua in superficie: sono gli iracondi amari e difficili (un tipo particolare di accidiosi, che conservano un'ira repressa), che ripetono come un ritornello una frase che riassume il loro peccato:

    "Fitti nel limo, dicon: Tristi fummo (Coperti dal fango, dicono: Noi fummo tristi)
    ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, (nell'aria dolce che trae allegria dal sole)
    portando dentro accidioso fummo: (covando dentro l'animo un'ira inespressa:)
    or ci attristiam ne la belletta negra" (ora ci rattristiamo nel fango nero")


    Essere insoddisfatti non è di per sè una colpa, dice il Virgilio di Nagai, ma lo è arrendersi al proprio malcontento e dare la colpa agli altri della propria insoddisfazione. L'insoddisfazione dovrebbe essere uno stimolo per migliorarsi, non per rovinarsi. Questa osservazione non c'è in Dante, ma spiega bene lo stato di questi dannati. I due poeti costeggiano la palude percorrendo l'argine roccioso, finché giungono ai piedi di una torre, e qui finisce il Canto. Per la prima e unica volta, Dante omette di fare i nomi di anime dannate, adducendo come motivo il loro aspetto irriconoscibile per via del peccato. Va aggiunto che tutta questa descrizione è sottolineata da suoni aspri e rime difficili, come -erci, -erchio, -ozzi, -ulcro, -uffa, -anche (in cui abbondano le consonanti gutturali e c'è ampio uso di metafore animalesche e termini rari), mentre nel successivo discorso di Virgilio sulla Fortuna il tono si farà più disteso e i suoni assai più morbidi, forse per creare un voluto contrasto con la materia trattata in precedenza.

    LE VARIAZIONI DI NAGAI

    Come detto prima, Pluto qui ha sembianze umane, mentre nella commedia è una specie di lupo. Inoltre, Nagai, nel mostrare la risposta di Virgilio a Pluto, non fa cenno a lucifero sconfitto dall'arcangelo Michele, quindi da Dio. Il Virgilio di Dante parla solo del "volere di Dio", rendendo quindi la scena piuttosto anonima. Il Virgilio originale, invece, dice a Pluto:

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    "Taci, maladetto lupo! (Taci, maledetto lupo!)
    consuma dentro te con la tua rabbia. (Consuma dentro di te con la tua rabbia)
    Non è sanza cagion l’andare al cupo: (Non è senza ragione il nostro viaggio verso il fondo dell'Inferno:)
    vuolsi ne l’alto, là dove Michele (si vuole così in Cielo, dove l'arcangelo Michele)
    fé la vendetta del superbo strupo" (vendicò il supremo peccato di lucifero)


    Qui "strupo" è la versione poetica di "stupro", qui nel senso di "ribellione": lucifero, o satana, è l'angelo che si ribellò a Dio e fu scacciato nell'Inferno. L'Arcangelo Michele è il capo supremo degli angeli ed è incaricato da Dio a scacciare lucifero. Nagai sembra non voler sottolineare il fatto che il diavolo è stato sconfitto da Dio, non so perchè. Anche in "Devilman", nella scena in cui Ryo Asuka parla dell'Armageddon, cioè del Giudizio finale di Dio descritto nell'Apocalisse, alla domanda di Akira Fudo, che gli chiede chi vincerà tra Dio e il diavolo (domanda sbagliata perchè parla di un fatto che è accaduto, non che accadrà), Ryo risponde che non lo sa perchè l'Apocalisse non lo dice chiaramente. Invece Ryo si sbaglia, perchè la disfatta di satana nell'Apocalisse è totale, insieme alla disfatta della Morte, che sono destinati entrambi a bruciare nell'inferno per sempre. Ma Nagai non fa cenno a questo, alterando così il libro.

    0004-097
    Ryo, ma l'Apocalisse l'hai letta davvero? Qui non sembra proprio.


    Nel manga, Dante chiede a Virgilio se il male è la vera essenza dell'uomo e Virgilio dice di cercare dentro di sè la risposta. Questo dialogo, che non c'è nella Commedia, non è cristiano, ma pagano (nel senso di non cristiano), in cui si vede l'uomo non come uno che pecca, cioè un peccatore, ma come se fosse il peccato stesso. Ma questa non è la visione cristiana: l'uomo all'inizio era buono, creato a immagine e somiglianza di Dio. Ma, commettendo il peccato, è diventato ferito da quel peccato, sia lui che i suoi discendenti. Ma essere feriti dal peccato non significa essere lo stesso peccato.
    Anche la risposta di Virgilio non è cristiana, ma orientale, stile "New Age": "Cerca la risposta dentro di te" e frasi simili. Invece nel cristianesimo la risposta è fuori di te, cioè in Dio. Inoltre, è assurdo che il Virgilio di Nagai dica: "io non sono un santo": se così fosse, sarebbe nell'Inferno. Nel Limbo, dove si trova, ci sono anime che non possono vedere Dio, ma sono comunque salvate, quindi sono abitate da santi (a parte il fatto che il limbo non è una verità di fede, ma un'ipotesi). Non ci sono vie di mezzo: o ci si salva, diventando santi, o ci si danna, diventando diavoli. Ed essere santi non significa fare cose straordinarie, ma comportarsi bene, combattere contro le proprie cattive inclinazioni, e soprattutto affidarsi a Dio e chiedere il Suo aiuto. E' quello che hanno fatto tutti i santi, dai più grandi ai più piccoli. E non si tratta di cose impossibili, se no Dio non l'avrebbe chiesto.

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    Nagai fa delle altre aggiunte: descrive gli iracondi anche come delle persone che covano rancore e danno la colpa agli altri del loro stato. La rabbia verso gli altri, dare la colpa agli altri: è un comportamento spesso condannato nei manga, che in genere elogiano l'impegno e il sacrificio. Curioso che questa impostazione sia praticamente scomparsa dai nostri fumetti, soprattutto italiani ma non solo, dove è assai comune l'idea di colpevolizzare gli altri, di fare le vittime, con l'immancabile propaganda dell'"accettazione del diverso": un noioso refrain che ripetono come un disco rotto.

    BIBLIOGRAFIA:
    https://divinacommedia.weebly.com/inferno-canto-vii.html
    Bussola Quotidiana, Giovanni Fighera

    Edited by joe 7 - 25/9/2021, 16:46
     
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    INFERNO, CANTO 8

    QUINTO CERCHIO: IRACONDI


    LA PALUDE DELLO STIGE; FLEGIAS

    Siamo ancora nel Quinto Cerchio, quello degli Iracondi e Accidiosi, descritto prima. La palude dello Stige si allarga e Dante e Virgilio arrivano ai piedi dell'alta torre sulla sponda della palude. Dante aveva notato che da essa era partito un segnale luminoso, cui aveva risposto un segnale identico proveniente da un'altra torre, che sorge più lontano. Dante chiede a Virgilio il significato delle luci e chi ne sia l'autore: il maestro spiega che, attraverso il vapore della palude, Dante potrà scorgere colui che stanno aspettando. Dante vede avvicinarsi una piccola imbarcazione che si muove più veloce di una freccia. La barca è governata da un solo traghettatore, Flegiàs, che apostrofa Dante scambiandolo per un dannato: ma Virgilio lo zittisce, dicendogli che lui dovrà solo trasportarli attraverso la palude. Il demone reagisce con stizza, poi i due poeti salgono sulla barca (che affonda lievemente solo quando vi sale Dante, dotato di un corpo) e Flegiàs parte.

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    Flegiàs, demonizzato da Dante, nel mito classico, era il re dei Lapiti e aveva incendiato il tempio di Apollo a Delfi, uno dei templi più importanti della Grecia antica: infatti si era adirato perché il dio aveva sedotto sua figlia. Per questo affronto, però, Apollo, lo crivellò di frecce e lo scaraventò nel Tartaro, condannandolo a stare per l'eternità con un enorme masso sempre sul punto di cadergli addosso. La sua storia è narrata nell'Eneide. Il nome "Flegiàs" indica un avvoltoio dal piumaggio rosso; richiama anche il termine greco "phlego" e il termine latino "flagro", tradotti entrambi come "incendio". Tutto questo rende Flegiàs un demone rappresentativo degli iracondi, essendo appunto l'emblema di un'ira fulminea e deflagrante. Non è chiaro se la funzione di Flegiàs sia quella di traghettare solo le anime degli iracondi o anche quelle di tutti i dannati destinati al Basso Inferno.

    Il Flegiàs di Nagai parla di più dell'originale, ridendo e mandando minacce a ripetizione. Nel poema, Flegiàs dice solo: "Or sè giunta, anima fella!" (cioè anima dannata), confondendo Dante con uno dei dannati. Oltre a questo, dopo che è stato ammonito da Virgilio, non dice più nulla. Inoltre, sempre nel manga, Flegiàs nel suo tragitto con la barca fende i dannati iracondi smembrandoli, cosa che nel poema non accade.

    FILIPPO ARGENTI

    Mentre la barca attraversa la palude, si avvicina l'anima di un dannato che chiede a Dante la sua identità, visto che è ancora vivo, quindi è troppo presto per lui giungere all'Inferno (e in questo modo vuole spaventare il poeta facendogli credere che dopo morto andrà all'Inferno). Dante risponde che lui presto ripartirà e chiede a sua volta chi sia il dannato che gli parla. Questi non risponde, ma Dante lo riconosce come Filippo Argenti, al quale rivolge parole di condanna. Il dannato si protende verso la barca, cercando di afferrare Dante, ma Virgilio lo spinge via con violenza:

    "Via costà con li altri cani!" (Và via di qui, torna con gli altri cani!")

    Chi è nell'inferno non è un innocente tormentato, ma è un malvagio che ha perso la sua dignità di uomo e che si merita in pieno la sua eterna punizione: per questo, Virgilio lo tratta duramente. Virgilio poi pronuncia parole di elogio a Dante; poi rivolge un'ammonizione a tutti gli uomini alteri e orgogliosi, come lo fu l'Argenti, che in vita si credevano grandi, potenti e intoccabili, e all'Inferno finiranno per sempre come porci nel fango.

    "Quanti si tegnon or là sù gran regi (Quanti uomini si credono in vita dei grandi re)
    che qui staranno come porci in brago, (mentre qui all'Inferno saranno come porci nel fango)
    di sé lasciando orribili dispregi!". (lasciando di sé un orribile ricordo!)


    Dante manifesta il desiderio di vedere il dannato azzuffarsi coi compagni di pena, prima di lasciare lo Stige, e Virgilio afferma che ne avrà presto l'occasione. Poco dopo, infatti, Dante vede gli altri dannati avventarsi su Filippo Argenti facendone strazio, spettacolo che Dante gode pienamente. Lo scontro è così violento che lo stesso Filippo Argenti morde rabbiosamente se stesso.

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    Filippo Argenti cerca di salire sulla barca e Virgilio lo respinge: Nagai ha preso la scena dalle litografie di Gustave Dorè.


    Filippo Argenti era un fiorentino Guelfo Nero (Dante era un Guelfo Bianco, quindi rivale. Si veda qui). Oltre ad essere avverso a Dante, l'Argenti e la sua famiglia si erano sempre opposti al rientro di Dante a Firenze dopo l'esilio; inoltre, ne usurparono anche i beni. L'Argenti reagisce con stizza alla presenza di Dante e rifiuta di rivelare il proprio nome per orgoglio, salvo poi avventarsi furioso contro il poeta nel momento in cui lui lo riconosce e lo fa oggetto di parole ingiuriose di condanna.

    Nel manga, Dante non chiede a Filippo chi sia, mentre nel poema lo fa e l'Argenti dà una risposta evasiva. Nel poema, Dante non dice neanche il nome del dannato, cosa che invece faranno gli altri dannati, sbranandolo. Sempre nel manga, l'Argenti, protestando e dicendo di non essere malvagio, prova a salire sulla barca e viene ricacciato; ma nel poema non lo fa, viene solo scacciato da Virgilio.

    LA CITTA' DI DITE

    Mentre la barca di Flegiàs si allontana dagli iracondi, Dante sente un coro di voci dolorose che lo riempiono di angoscia: Virgilio lo informa che ormai sono vicini alla città infernale di Dite, popolata da un grande stuolo di demoni. Dante drizza lo sguardo e vede le torri della città che sono simili a quelle delle moschee, rosse come se fossero roventi. Virgilio spiega che il fuoco eterno che vi è dentro la città ne arroventa le mura, rendendole di colore rossastro. La barca si avvicina ai profondi fossati che cingono Dite: la barca fa un ampio giro prima di approdare all'argine, dove Flegiàs invita con fare imperioso i due poeti a scendere, perché lì c'è l'accesso alla città. Dante alza gli occhi e vede migliaia di diavoli sugli spalti della città, che lo guardano minacciosi e gli chiedono chi sia lui per entrare, da vivo, nell'Inferno.

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    La città infernale di Dite. Nagai la rappresenta come un castello medievale, mentre Dante invece l'ha descritta come un minareto.


    Virgilio fa cenno di voler parlare con loro in disparte e i diavoli acconsentono, urlando a Dante di tornare indietro da solo, mentre Virgilio dovrà rimanere nella città di Dite. Dante è colto da grande paura e invita Virgilio a riportarlo indietro, visto che il passaggio sembra loro negato. Ma lui lo rassicura, ricordando che il viaggio è voluto da Dio: quindi lo invita ad attenderlo lì e si avvicina alle mura della città per parlamentare coi diavoli. Dante attende con impazienza, roso dai dubbi, mentre Virgilio scambia coi diavoli parole che lui non può udire.

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    Virgilio parla coi diavoli di Dite. Nagai però li rappresenta come uomini, senza corna nè ali.


    Dopo poco tempo, però, i diavoli corrono dentro la città chiudendo le porte in faccia a Virgilio, al quale non resta che tornare sconsolato da Dante, con gli occhi bassi e la vergogna dipinta sul volto. Virgilio rassicura nuovamente Dante sul fatto che egli vincerà la prova, rammentando che l'alterigia dei diavoli non è nuova e fu già una volta vinta da Cristo trionfante, quando, il giorno della Sua resurrezione, entrò all'Inferno sfondandone la porta. Il maestro dichiara infine che un messo celeste, un angelo, sta già percorrendo la discesa infernale, dalla porta fino al punto dove adesso si trovano, e, grazie al suo intervento, il viaggio potrà proseguire.

    Dite, in latino Dis o Ditis o Dispater, era il nome di un'antica divinità latina degli inferi, indicata come "Dispater", versione rovesciata di "Iuppiter", che sta per "Padre Giove". Per estensione, il suo nome assume anche il significato di luogo, cioè il mondo dei morti, equivalente all'Ade. La città infernale, chiusa per Dante e Virgilio, si staglia con le sue mura e le torri rosse per il fuoco che divampa all'interno: la struttura di Dite è simile a quella di una moschea, perchè in quella città sono puniti gli eresiarchi (ne parleremo più avanti). Per la prima volta, il viaggio di Dante e Virgilio subisce qui un arresto: i diavoli reagiscono ai visitatori con stizza e ira, come gli iracondi dello Stige. Dante è addirittura terrorizzato al pensiero di essere abbandonato all'Inferno.

    L'intervento di Virgilio, che simboleggia la ragione umana, è fallimentare: con questo Dante vuol dire che, in certe circostanze, la ragione umana non basta più ed è necessario l'intervento divino per andare avanti.

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    Il fallimento di Virgilio.


    La ragione umana infatti, di per sè, non è onnipotente, nè onnisciente: è impossibile ritenere solo questa come unica capacità della comprensione di tutte le cose visibili e invisibili, come insiste invece il razionalismo. La ragione correttamente intesa, invece, riconosce che esistono cose che superano la stessa ragione, pur senza mai contraddirla. Dio stesso è Logos, Ragione, ma nello stesso tempo è oltre le nostre capacità di comprensione. Di Lui possiamo capire quello che ci dice la ragione umana insieme alla Rivelazione divina, cioè la venuta di Gesù Cristo.

    Tornando alla città di Dite, sarà necessario l'arrivo di un messo celeste, un Angelo, che avrà la funzione di eliminare l'ostacolo e rimproverare aspramente i diavoli della loro sterile opposizione, cosa che verrà narrata nel Canto successivo.

    CONFRONTO TRA MANGA E POEMA

    Nel manga, Virgilio, invece di consolare Dante, gli dice, nello stile giapponese, che, se vuole tornare indietro, faccia pure, che lui non vuole avere nulla da spartire con chi non è capace di portare a termine la sua missione. Sembra di sentire uno di quegli allenatori dei manga sportivi. Inoltre, Virgilio, sempre nel manga, dice a Dante che è suo destino compiere questo viaggio. Invece, nel poema, Virgilio dice chiaramente che è volontà di Dio che Dante faccia questo viaggio di salvezza. Un anonimo "destino", infatti, non esiste nel cristianesimo: esiste solo Dio e la Sua volontà, che è la volontà di un Padre buono e non di un Destino anonimo e impersonale.

    Edited by joe 7 - 25/9/2021, 16:47
     
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    INFERNO, CANTO 9 - SESTO CERCHIO: GLI ERESIARCHI (prima parte)

    L'INCERTEZZA DI VIRGILIO

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    Siamo sempre alle porte della città di Dite, che è l'ingresso al Sesto Cerchio e al seguito dell'Inferno, che è stato bloccato dai demoni, lasciando Dante e Virgilio fuori, soli e scossi, aspettando un aiuto dal Cielo che li possa salvare e progredire il loro cammino. Dante esprime le sue paure a Virgilio, che cerca di tranquillizzarlo: tuttavia, anche lui è perplesso. Però cerca di non farlo notare al suo discepolo. Dante si accorge tuttavia della titubanza di Virgilio e gli chiede se mai un'anima del Limbo, come lo è lui, sia mai discesa fino in fondo all'Inferno, mettendo implicitamente in dubbio la sua autorità, finora indiscussa. Virgilio lo tranquillizza, dicendogli che questo percorso fino in fondo all'Inferno lui lo aveva già fatto prima: infatti era accaduto che, poco dopo la sua morte, la maga Eritone (famosa necromante greca) lo aveva evocato per far ritornare temporaneamente sulla Terra l'anima di un morto che era nell'ultimo cerchio dell'Inferno: quindi egli conosce perfettamente la strada che conduce al fondo dell'Inferno. Qui Dante fa riferimento a un episodio del Bellum civile di Lucano, in cui si dice che Eritone aveva resuscitato un soldato per far rivelare a Pompeo l'esito della battaglia di Farsàlo; non sembra essere però il caso descritto da Virgilio. Va comunque detto che la conoscenza dei luoghi infernali da parte di Virgilio è limitata dal fatto che la sua prima discesa fino al fondo avvenne prima della discesa di Cristo negli Inferi per liberare le anime del Limbo, per cui egli ignora ad esempio che alcuni ponti rocciosi delle Malebolge sono crollati per il terremoto seguito alla morte e alla risurrezione di Gesù e ciò causerà l'inganno che sarà perpetrato ai suoi danni dai Malebranche. Del tutto inesperto sarà invece del Purgatorio, dove sarà addirittura costretto a chiedere più volte ai penitenti quale sia la via più rapida per l'ascesa. Non conoscendo ovviamente il Paradiso, Virgilio, alla fine del Purgatorio, si tirerà indietro.

    LE FURIE, MEDUSA

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    Medusa


    Virgilio aggiunge altre parole che però Dante non ascolta, poiché il suo sguardo è attirato sulla cima delle mura dall'apparizione delle Furie, o Erinni, sporche di sangue e coi capelli serpentini: Megera, Aletto e Tisifone. Si squarciano il petto con le unghie e si percuotono a palme aperte, gridando così forte da indurre Dante a stringersi a Virgilio. Le Furie invocano l'arrivo di Medusa per pietrificare Dante. Virgilio, quindi, lo esorta a voltarsi e a chiudere gli occhi, coprendoli anche con le mani, per non vedere Medusa, che lo trasformerebbe in pietra per sempre, rendendo vano il suo viaggio. Dante obbedisce: anzi Virgilio, non soddisfatto, mette anche le sue mani sopra quelle di Dante per sicurezza. Le Furie e Medusa sono la consueta demonizzazione di divinità classiche del mondo infero, che anche in questo caso si oppongono vanamente al prosieguo del cammino di Dante: Medusa però non viene mostrata direttamente (non potendola vedere, Dante non ha potuto descriverla), è solo evocata dalle minacciose parole delle tre Furie. Queste citano la discesa all'Averno di Teseo (l'eroe greco che uccise il Minotauro) e si rammaricano di non averne respinto l'assalto.

    IL MESSO CELESTE

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    I demoni della città di Dite disegnati da Nagai hanno tutto l'aspetto umano: Nagai ha voluto seguire la famosa rappresentazione di Dorè, che però era errata.


    Dante indica nel poema la necessità di comprendere l'intervento dell'Angelo: cioè la necessità dell'aiuto e del soccorso della Grazia divina per superare gli ostacoli del peccato, senza la quale la sola ragione è di per sé insufficiente. L'aiuto di Dio è necessario perché Dante vinca i suoi dubbi e la sua viltà, come già era accaduto nella selva per mezzo di Virgilio, e superi l'opposizione dei demoni, che è del resto vana, in quanto il suo viaggio è voluto dal Cielo, come il messo non manca di ricordare ai diavoli nei suoi rimproveri. All'inizio si sente un gran rumore proveniente dalla palude Stigia dove sono immersi gli iracondi (di cui abbiamo già parlato), simile a quello di un vento talmente impetuoso da abbattere le foreste. Virgilio permette a Dante di aprire gli occhi, così il poeta vede il messo celeste avanzare sull'acqua senza toccarla, scacciando dal viso, con la mano, il vapore delle paludi stigie, mentre al suo cospetto le anime degli iracondi si dileguano rapidamente "come rane davanti a una biscia". Virgilio fa cenno a Dante di inchinarsi di fronte all'angelo, che è pieno di disdegno verso quel luogo. Il messo celeste giunge alla porta di Dite e la apre, semplicemente indicandola con un bastoncino in mano. Poi rimprovera aspramente i diavoli, biasimando la loro tracotanza e il fatto che si oppongano vanamente al passaggio dei due poeti voluto da Dio. Ricorda loro che Cerbero si era rifiutato di far entrare all'Inferno Ercole, un fatto per cui la bestia ha avuto per punizione il mento e il gozzo spellati. A questo punto, il messo celeste torna da dove è venuto, senza rivolgere parola ai due poeti, i quali si avvicinano senza ostacoli alle mura di Dite.

    GLI ERESIARCHI

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    Dante e Virgilio entrano nella città di Dite senza incontrare più alcuna opposizione. Questa città rappresenta il confine tra l'Alto e il Basso Inferno, dove sono puniti i peccati più gravi, cioè quelli di violenza e frode: quindi, questo passaggio di Dante rendeva necessario un intervento superiore a quello di Virgilio. A questo punto, Dante, desideroso di vedere la condizione dei dannati, volge intorno lo sguardo, scorgendo ovunque delle tombe infuocate coi coperchi sollevati. Dante paragona queste tombe a quelle dell'antica necropoli di Des Alyscamps ad Arles, e a quelle della necropoli di Pola, oggi scomparsa.

    Arles-Les-Alyscamps
    La necropoli di Des Alyscamps


    Dai sepolcri escono dei lamenti miserevoli e Dante chiede spiegazioni a Virgilio. Il maestro spiega che dentro ci sono le anime degli eresiarchi e dei loro seguaci, condannati a bruciare in misura maggiore o minore a seconda della gravità dell'eresia che hanno seguito in vita. Gli eretici sono costretti a giacere in tombe infuocate coi coperchi sollevati. Nel Canto seguente saranno presentati gli eretici epicurei (credono la mortalità dell'anima, quindi per loro l'anima muore col corpo e non c'è aldilà). Virgilio spiega a Dante che in ogni tomba sono costretti i seguaci di una stessa setta eretica, tormentati in misura maggiore o minore dal fuoco a seconda della gravità del peccato commesso: anche questo Canto si chiude prima che l'episodio abbia termine e rimanda l'attenzione a quello successivo, in cui avverrà l'incontro con Farinata degli Uberti. Prima di andare avanti, bisogna ora chiarire il concetto di "eresia", che attualmente è stato molto travisato.

    ERESIA

    Un eresiarca è una persona che fonda una setta eretica composta dai suoi seguaci. L'eresia è il rifiuto di una, o più, verità rivelate del cristianesimo: infatti, "eresia" significa "scegliere", quindi l'eretico sceglie certe verità cristiane e ne rifiuta altre, provocando così un cristianesimo falso, alterato, come per esempio lo è quello protestante, che rifiuta certe verità cristiane e ne accetta altre. Nella Divina Commedia, ovviamente, i protestanti non ci sono, perchè l'eresiarca Martin Lutero nacque circa due secoli dopo Dante.

    L'argomento dell'eresia è oggi poco popolare, visto che, grazie alla stampa di almeno cinquecento anni, soprattutto quella illuminista, l'eretico è sempre visto oggi come l'eroe che pensa da solo e combatte contro la Chiesa Cattolica oppressiva e cattiva. Ma, così facendo, non si capisce la gravità dell'eresia, che porta ad una via diversa da quella della salvezza, quindi facendo rischiare la dannazione. Con questo non significa che un eretico si danni: però, se si salva, si salva nonostante l'eresia che professa, non grazie all'eresia che professa. La via della salvezza è solo quella cristiana cattolica: poi c'è chi ha seguito Cristo senza conoscerlo e può salvarsi. Ma questo non toglie il fatto che la via per salvarsi è una sola, quella cattolica.

    Per capirci, è come la differenza tra un cartello che indica Bologna mostrando la strada giusta per arrivarci (e quel cartello è la Chiesa Cattolica), mentre un altro cartello indica Bologna, ma porta ad un burrone (e quel cartello è l'eresia). L'eresia rovina la vita, facendo vivere in modo sbagliato e facendo credere che quello stile di vita sia buono. Come le monete false, per esempio: perchè lo Stato perseguita chi produce banconote false? Ma perchè queste rovinano lo stato di salute delle monete vere, che a lungo andare diventano carta straccia, cioè inaffidabili, rovinando così l'intera Nazione. Lo stesso per l'eresia e la vera religione cristiana: se si trascura di correggere l'eresia, la stessa fede cristiana perde di significato, non la si distingue più dall'eresia e agli uomini non viene più data una vera via per salvarsi, proprio per colpa degli eretici.

    L'eretico sceglie (appunto) certe cose e ne esclude altre, non secondo Dio ma secondo il suo ragionamento, basato sull'orgoglio e secondo la sfiducia che lui porta alla Chiesa Cattolica, non riconoscendola come portatrice della Verità data da Dio. Pensa anzi che la Chiesa abbia manipolato la verità cristiana per i suoi scopi di potere. In questo modo, però, l'eretico insulta Dio, credendoLo incapace di rivelare la Sua verità agli uomini, e modifica la via di salvezza che Dio in persona ha dato a tutti gli uomini attraverso Gesù e la Chiesa Cattolica. Per capirci, è come se l'eretico volesse guidare una macchina per conto suo, senza sentire le istruzioni di chi la sa guidare: alla fine, l'eretico la guida male, la rovina e rischia di finire male. Di conseguenza, l'eretico compie e fa compiere agli uomini delle azioni malvagie, credendole buone. Per esempio, un eretico può credere in un certo Dio e non nell'aldilà, nè nell'esistenza dell'anima: di conseguenza non sente il bisogno di comportarsi bene, visto che, secondo lui, non c'è nessuna punizione. Oppure crede che conti solo la fede e non le opere, quindi non si sente stimolato a fare delle buone opere, anzi evita di farle, al limite. E gli esempi potrebbero continuare.

    Inoltre, molto spesso gli eretici sono violenti e ricevono appoggi da persone e principi potenti, perchè quello che gli eretici sostengono fa comodo anche a loro: i potenti possono infatti, grazie agli eretici, avere un potere maggiore di quello che già hanno, senza avere alcun limite morale. Possono così agire facendo il male, o requisendo i beni di chiunque, o tiranneggiando chiunque, senza per questo temere alcuna punizione divina, secondo il pensiero eretico. E' in sostanza il modello dell'uomo politico d'oggi, che non teme Dio nè il Suo giudizio. Il punto è che, anche se non lo si teme, nè ci si crede, dopo la morte il Giudizio di Dio ci sarà lo stesso, anche per i potenti. E, come dice San Paolo, "è spaventoso cadere nelle mani del Dio Vivente!".

    Al contrario, i "cattivi inquisitori", invece di essere dei malvagi tipo quelli del "Nome della Rosa" o "Il Codice Da Vinci", erano persone che cercarono di insegnare la via giusta rischiando personalmente a vita, come San Pietro da Verona, che fu ucciso dagli eretici Catari in un agguato, piantandogli un coltello in testa (e infatti è sempre raffigurato così).

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    San Pietro Da Verona


    Tutto l'insegnamento cristiano è stato dato per comportarsi nel modo giusto: modificare, seppur di poco, questo insegnamento, porta a comportarsi male, anche se, a prima vista, questo non sembrerebbe evidente. Inoltre, l'eretico è diverso dal credente in un'altra religione: l'eretico conosce il cristianesimo, ma lo rinnega e lo modifica come vuole lui. Il credente di un'altra religione, invece, non conosce il cristianesimo e non è mai stato cristiano: quindi non è certo eretico. Però crede in una religione sbagliata, perchè non fondata su Gesù Cristo e sulla Chiesa. Il giudizio su di lui, comunque, è di Dio, non nostro: Lui lo sa se si è comportato bene o no, pur restando in un'altra religione. Perchè, come ho detto, può salvarsi chi ha seguito Cristo senza conoscerlo, pur essendo vissuto in un'altra religione. Che però rimane quella sbagliata: per questo è giusto rispettare che segue un'altra religione, ma è sbagliato pensare che tutte le religioni siano uguali. Dio è cattolico.

    LA VERSIONE DI NAGAI

    Le perplessità di Virgilio e di Dante sono state saltate da Nagai, come pure il racconto di Virgilio che prese un'anima infernale dall'evocazione di Eritone. Qui Nagai non cita le Furie e mette al loro posto le tre Gorgoni, che erano figlie delle divinità marine Forco e Ceto e si chiamavano Medusa, Steno ed Euriale. Le Gorgoni rappresentavano la perversione nelle sue tre forme: Euriale rappresentava la perversione sessuale, Steno la perversione morale e Medusa la perversione intellettuale. In particolare, Nagai chiama Medusa "dea dell'eresia", una definizione che non è di Dante. In ogni caso, non è una definizione sbagliata: infatti, essendo Medusa il simbolo della perversione intellettuale, mostra la deviazione intellettuale tipica dell'eresia, che è un modo di pensare "pietrificato e pietrificante", che quindi blocca tutto. E' tipico anche di chi ragiona senza vedere la realtà: se i malati di Covid sono solo 20, per esempio, si impongono subito il lockdown e le mascherine a decine milioni di persone, terrorizzandole e impedendo ogni attività dell'intera nazione. E' un'azione da "intelletto deviato", che non guarda in faccia la realtà e agisce in modo sproporzionato e sbagliato, provocando solo danni. Se poi sono persino voluti, è peggio ancora.

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    La furia celeste dell'Angelo


    L'angelo di Nagai dice: "Di quanti altri castighi avete bisogno per riuscire a capire, eh?" mentre l'angelo originale di Dante non parla di "capire" (sa che i demoni hanno già capito assai bene il male che fanno, e lo fanno consapevolmente, anche se sanno che finiranno male per questo: odiano e basta, senza motivo nè ragione, solo per odio). L'angelo dice piuttosto che ad opporsi al volere di Dio si sta ancora peggio, e questo vale sia per gli uomini che per i diavoli:

    Perché recalcitrate a quella voglia (perchè vi opponete a quel volere, cioè quello di Dio)
    a cui non puote il fin mai esser mozzo, (che non può mai non andare a buon fine: cioè il volere di Dio è sempre buono e viene sempre realizzato)
    e che più volte v’ha cresciuta doglia? (e che più volte ha accresciuto le vostre pene? cioè: opponendovi a Dio fate solo del male e voi stessi ancora di più, benchè siate già all'Inferno)


    Il cenno alla punizione fatta a Cerbero è stato saltato da Nagai.

    GLI ERRORI DI NAGAI SULL'ERESIA

    Nagai fa confusione tra l'eretico, che è un ex-cristiano, e il pagano, che è una persona che crede in altri dei, non un ex-cristiano. Quindi nel Cerchio degli Eresiarchi (ed eretici) ci sono ESCLUSIVAMENTE degli ex-cristiani, non dei non credenti. Riguardo a questi ultimi, se hanno amato Dio senza conoscerlo, quindi comportandosi bene, la via della salvezza è aperta per loro.

    Quindi il Virgilio di Nagai sbaglia dicendo: "Essi non ubbidirono ai giusti precetti di Dio, ma stoltamente adorarono delle false divinità: ora devono subire il castigo dell'Inferno. Grave è la colpa dei miscredenti!". Così pure il Dante di Nagai, che dice: "Mi chiedo se gli eretici siano veramente dei peccatori: anche coloro che sono nati in paesi dove non hanno mai avuto l'occasione di ricevere i giusti precetti e si sono limitati a seguire docilmente gli insegnamenti predicati nelle loro terre, devono quindi essere considerati dei peccatori? Devono patire a tal punto?".

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    O Dante nagaiano, un non credente NON E' un eretico!


    Insomma, come vedete, tutti e due confondono l'eretico col non credente. Non è una colpa non obbedire a ciò che non si sa. In ogni caso, in ogni persona, credente o meno, c'è una Legge Naturale, innata, scritta da Dio nel cuore di tutti, riassunta nei Dieci Comandamenti, alla quale si sentono tutti in dovere di rispettare, chi più chi meno: per esempio, la legge di non uccidere, di non commettere adulterio, eccetera. Chi non rispetta questo, allora, credente o meno, va punito. Anzi, il credente viene punito di più, visto che, conoscendo i Comandamenti, conosce meglio del pagano la Legge Naturale.


    BIBLIOGRAFIA:
    https://divinacommedia.weebly.com/inferno-canto-ix.html
    Bussola Quotidiana, Giovanni Fighera
     
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    INFERNO, CANTO 10 - SESTO CERCHIO: GLI ERESIARCHI (seconda parte)

    VALLE DI GIOSAFAT; EPICUREI

    Virgilio guida Dante fra le tombe infuocate della città di Dite, riservate agli eretici, costeggiando il lato interno delle mura. Dante è incuriosito e chiede al maestro se sia possibile vedere le anime che giacciono nei sepolcri, dal momento che sono aperti e non ci sono dei demoni a custodirli: infatti, dopo l'arrivo dell'angelo, erano scappati via tutti. Virgilio risponde affermativamente e aggiunge, per spiegare al discepolo, che queste tombe saranno chiuse per l'eternità il giorno del Giudizio Universale, quando le anime risorte per il Giudizio di salvezza o di condanna si saranno riappropriate del proprio corpo nella valle di Giosafat (si tratta della valle che si trova a Gerusalemme, tra il Monte degli Ulivi e la Spianata del Tempio). Virgilio, inoltre, spiega che in quest'area del Cerchio giacciono tutti gli eretici che furono seguaci di Epicuro (filosofo greco che proclamò la mortalità - o l'inesistenza - dell'anima), e promette a Dante che troverà lì Farinata Degli Uberti: una richiesta che lui non ha fatto, ma che Virgilio aveva intuito. Infatti, nel Cerchio dei Golosi, Ciacco aveva detto a Dante che avrebbe trovato lì Farinata. Dante si giustifica dicendo che, se gli tiene celati alcuni desideri, è solo per evitare di parlare a sproposito, cosa che lo stesso Virgilio gli aveva insegnato. Dante è interessato a questo Farinata, perchè a Firenze era stato un personaggio famoso.

    FARINATA DEGLI UBERTI: INIZIO

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    Farinata e Dante (Virgilio è in ombra)


    D'improvviso, una voce proveniente da una delle tombe infuocate chiama Dante, identificandolo come toscano e pregandolo di trattenersi, poiché il suo accento lo indica come originario della sua città. Dante ne ha timore e si stringe a Virgilio, che però lo invita a voltarsi e a guardare Farinata degli Uberti, che è visibile dalla cintola in su, con la fronte alta e il petto gonfio, come se disprezzasse tutto l'Inferno (tanto da aver "l’Inferno a gran dispitto") e lo stesso Giudizio di Dio. Farinata chiama all'inizio Dante in questo modo:

    "O Tosco, che per la città del foco (O toscano, che per questo Cerchio di fuoco)
    vivo ten vai così parlando onesto, (vivo ti incammini parlando la nostra lingua)
    piacciati di fermarti in questo loco. (ti piaccia fermarti qui)
    La tua loquela ti fa manifesto (Le tue parole mostrano che tu sei)
    di quella nobil patria natio, (nativo della nobile città di Firenze)
    a la qual forse fui troppo molesto." (alla quale io forse non feci del bene.)


    Farinata visse un secolo prima di Dante, quindi i due non si incontrarono mai in vita. Fu uno dei capi dei Ghibellini (favorevoli a una Firenze al servizio dell'Impero, avversi al Papa e alla Chiesa) ed eretico. Sconfisse i Guelfi (favorevoli al Papa e alla Chiesa, mantenendo l'indipendenza di Firenze) nella sanguinaria battaglia di Montaperti. Dopo la vittoria, l'Impero avrebbe voluto radere al suolo Firenze, città Guelfa e ribelle: ma Farinata vi si oppose, imponendo tuttavia l'esilio ai Guelfi. Successivamente, i Guelfi ritornarono a Firenze e gli Uberti furono esiliati definitivamente: non tornarono mai più a Firenze.

    Farinata chiede a Dante chi fossero i suoi antenati, e Dante risponde che lui è un Alighieri. Il dannato replica che gli Alighieri erano Guelfi, quindi nemici suoi e degli Uberti: lui cacciò i Guelfi (e gli Alighieri) per ben due volte da Firenze, dice sprezzante a Dante. Ma il poeta ribatte prontamente, dicendo che, se gli Alighieri furono scacciati due volte da Firenze, seppero però ritornare in città entrambe le volte, mentre non si può dire lo stesso degli Uberti, che furono esiliati in modo definitivo. Ma il loro battibecco si interrompe: dalla tomba infuocata di Farinata esce un altro dannato.

    CAVALCANTE DEI CAVALCANTI

    Si tratta di Cavalcante dè Cavalcanti, che si sporge però solo fino al mento, come se fosse inginocchiato. Si guarda intorno con ansia, cercando qualcuno accanto a Dante, che però non trova. Piangendo, chiede a Dante dove sia suo figlio e perché non lo sta accompagnando in questo viaggio: se Dante è lì a causa della sua grande intelligenza, anche suo figlio dovrebbe esserci, intelligente com'è! Cavalcante così si rivolge a Dante:

    "Se per questo cieco (se lungo questo oscuro)
    carcere vai per altezza d’ingegno, (Cerchio tu vai grazie alla tua intelligenza)
    mio figlio ov’è? e perché non è teco?" (allora dov'è mio figlio? Perchè non è con te (intelligente com'è lui, sottinteso)


    Dante capisce che quel dannato è il padre del suo amico poeta Guido dè Cavalcanti. Il padre, anima perduta, è convinto che esistano solo meriti umani: non sospetta che Dante, amico del figlio, possa essere in viaggio nell’aldilà per grazia di Dio (che Dante ha accolto, sia chiaro; poteva rifiutarla), in nome di una missione voluta dal Cielo. Dante così spiega a Cavalcanti; inoltre, precisa che l’amico Guido, figlio di Cavalcanti, non volle intraprendere la strada per raggiungere la verità, sprezzando la tradizione cristiana e la fede (indicando quindi il fatto di essere eretico, forse epicureo, come il padre): ecco le parole del poeta.

    Da me stesso non vegno: (non è per mio merito che percorro questa strada della salvezza)
    colui ch'attende là, (cioè Dio. Anche se può fare riferimento a Beatrice, l'arrivo definitivo è Dio)
    per qui mi mena (per questa strada mi porta)
    forse cui Guido vostro ebbe a disdegno (forse vostro figlio Guido disprezza questa via di salvezza)


    Cavalcante si alza allarmato e chiede a Dante se davvero suo figlio Guido sia morto (Dante infatti dice "ebbe", un verbo al passato). Il poeta è perplesso, visto che, siccome i dannati sanno della situazione della Terra, Cavalcante non dovrebbe fare questa domanda. Questo momento di perplessità farà disperare ancora di più il dannato, che torna di nuovo nella sua tomba per non uscirne più. Cavalcante, a differenza di Farinata, era Guelfo: tuttavia, sia lui che Farinata sono incapaci di comprendere le vere ragioni della loro dannazione. Farinata è tutto preso dagli odi politici, che non hanno più senso nel posto dove lui si trova, mentre Cavalcante parla solo di suo figlio e della sua intelligenza. Essendo entrambi epicurei, hanno una visione solo materiale della vita, che esclude la dimensione trascendentale. Cavalcante non comprende nulla del viaggio allegorico di Dante, essendo ormai totalmente sordo a tutto ciò che riguarda la fede cristiana, la grazia e la salvezza.

    FARINATA: LA CONTINUAZIONE

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    L'interruzione di Cavalcanti permette di mostrare la caratteristica precipua dei dannati: ovvero la loro totale incapacità di guardare il prossimo, di provare amore, compassione o simpatia per qualcuno. Infatti, Farinata, per nulla scomposto dall'accaduto, prosegue il suo discorso con Dante come se non fosse successo niente. Dice che, se i suoi avi non seppero rientrare in Firenze dopo la cacciata, questo gli provoca ben più dolore delle pene infernali (questa è una smargiassata detta da Farinata per spregio). Tuttavia, continua Farinata, non passeranno più di quattro anni fino al momento in cui anche Dante saprà quanto pesa non poter tornare nella propria città (cioè, gli predice che tra quattro anni lui sarà esiliato da Firenze). Farinata chiede poi per quale motivo il Comune di Firenze è così duro in ogni sua legge contro la sua famiglia degli Uberti: Dante risponde che ciò è per il ricordo della terribile battaglia di Montaperti, che arrossò di sangue il fiume Arbia. Farinata osserva sconsolato che a quella battaglia non partecipò lui solo, mentre fu l'unico a opporsi alla distruzione di Firenze in seguito alla vittoria dei Ghibellini.

    FARINATA: LA PREVEGGENZA DEI DANNATI

    Dante chiede a Farinata di risolvergli un dubbio, relativo alla facoltà che gli sembra abbiano i dannati di prevedere il futuro e che ha causato la sua precedente esitazione nel rispondere a Cavalcante. Farinata spiega che i dannati vedono, sì, il futuro, ma in modo imperfetto, riuscendo a scorgere gli eventi solo quando sono molto lontani; quando si avvicinano nel tempo o stanno avvenendo diventano loro invisibili e non sono in grado di saperne nulla, a meno che altri non portino loro delle notizie. Perciò, alla fine dei tempi, dopo il Giudizio Universale, la loro conoscenza del futuro sarà del tutto annullata. Dante comprende l'errore commesso e prega Farinata di informare Cavalcante che suo figlio Guido è in realtà ancora nel mondo dei vivi.

    FARINATA E GLI ALTRI DANNATI

    Virgilio richiama Dante, che perciò si affretta a domandare a Farinata con chi condivida la sua pena nella tomba di fuoco. Questi gli risponde di giacere lì con più di mille anime, tra cui quelle di Federico II di Svevia (imperatore del Sacro Romano Impero, molto apprezzato culturalmente ancor oggi, ma eretico, non credente nell'esistenza dell'anima e cristiano solo in apparenza) e del cardinale Ottaviano degli Ubaldini (cardinale del Mugello, anche lui non credeva nell'esistenza dell'anima), mentre tace degli altri. A quel punto Farinata rientra nel sepolcro e Dante segue Virgilio, ripensando tristemente alla profezia dell'esilio.

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    Federico II di Svevia, ritratto da Sergio Toppi


    VIRGILIO CONSOLA DANTE

    Dopo un pò, Virgilio chiede a Dante quale sia la ragione del suo smarrimento e il discepolo gli svela le sue preoccupazioni: Farinata gli ha predetto l'esilio da Firenze. Virgilio gli promette che quando sarà giunto in Paradiso, di fronte a Beatrice, lei gli fornirà ogni spiegazione più chiara relativa alla sua vita futura, ricordando a Dante che la grazia, non la sola conoscenza razionale, è l'obiettivo del viaggio dantesco. Per l'ennesima volta viene ribadito che la sola filosofia razionale è insufficiente a salvarsi. Poi Virgilio si volge a sinistra e lascia le mura per imboccare un sentiero che conduce alla parte esterna del Cerchio, da dove si leva un puzzo estremamente spiacevole: si stanno avvicinando al Settimo Cerchio, quello dei Violenti.

    COMMENTO: IL PERSONAGGIO DI FARINATA

    Farinata ha dedicato tutta la sua esistenza terrena alla passione politica, alla sua fazione, al suo partito. È definito come uno di coloro che "a ben far puoser li ‘ngegni" (cioè molto intelligente e dotato), ma ciò non è sufficiente alla sua salvezza. La fama di essere epicureo, di considerare quindi l’anima mortale, fa sì che Dante lo ponga tra gli eretici. Farinata e Cavalcanti usano una ragione che non è spalancata sul Mistero e riescono a concepire soltanto la propria misura, l’uso di una intelligenza che è ridotta alla sola fiducia nelle proprie forze, nelle proprie convinzioni politiche, presumendo di poter conquistare una salvezza tutta umana. Ma il valore di un uomo non dipende né da come nasce, né dall’altezza del suo ingegno. Dipende dal fatto che accetti che Qualcuno si prenda cura di lui o no, spalancandogli orizzonti razionali molto più ampi di quelli forniti dalle proprie sole vedute. Farinata non capisce la situazione di Firenze, per la stessa ragione per cui il suo compagno di tomba Cavalcanti non riesce a capire come mai suo figlio non è qui. Entrambi, dall’alto della loro presunzione, dimostrano di non capire nulla: non vedono quello che si svolge sotto i loro occhi. Il male, se abbracciato e accolto in noi, ha il potere di distruggere tutto quanto di buono è stato fatto da noi (per esempio, Farinata che salva Firenze dalla distruzione). Ecco perché il Padre Nostro, la preghiera che Gesù ci ha insegnato, si conclude con "non ci indurre in tentazione", che significa proprio "fa’ in modo che noi possiamo stare lontani dalla tentazione, o che la vinciamo col tuo aiuto". E questa è la traduzione corretta, mentre è errata quella attuale "non abbandonarci nella tentazione", che presume, quasi come una bestemmia, che Dio possa ABBANDONARE l'uomo nella sua colpa e così possa non aiutarlo a sfuggire all'Inferno e raggiungere il Paradiso. "Non abbandonarci nella tentazione" è una bestemmia nascosta, non una preghiera.

    L'INDIVIDUALISMO E L'ILLUSIONE DELLA PROPRIA AUTONOMIA SONO GIA' UN ANTICIPO DELL'INFERNO

    Farinata ha speso la vita solo per la sua passione politica, ma vive nella propria solitudine e nell'orgoglio. L'inferno infatti è l'illusione della propria autonomia, presentata come "aspirazione" al giorno d'oggi. L'Inferno è ben rappresentato nella realtà terrena dall'individualismo contemporaneo: scriveva Bernanos nel "Diario di un curato di campagna" che l’Inferno è non amare più, non conservare più la capacità di amare. In altre parole, potremmo anche dire che la condizione infernale è l’esperienza della propria assoluta autonomia, quella totale autonomia che, spesso, nell’epoca contemporanea è presentata come aspirazione cui tendere: cioè la totale assenza di legami, per cui noi viviamo come se gli altri non esistessero, siamo così incapaci di amare e di farci amare.

    L’Inferno in vita si sperimenta quando non si vive con una Presenza di fronte agli occhi, ma nella propria solitudine ci si abbandona alle proprie passioni che diventano l’orizzonte ultimo di riferimento. L’idolo ("immagine, fantasia") creato ben presto rivela la propria inconsistenza; il sogno tanto vagheggiato rapidamente dimostra la sua insufficienza a felicitarci. Già qui in vita possiamo sperimentare, come scrive s. Caterina da Genova, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Abbiamo, quindi, la prova della condizione delle anime dopo la morte nelle condizioni esistenziali che proviamo qui su questa Terra. Spesso è sufficiente rivolgersi con contrizione e spavento per la nostra umana miseria a Colui che tutto può o alla nostra intercedente presso il Figlio (la Madonna) per fuoriuscire dalla percezione di angoscia infernale e sentire la necessità di un’espiazione e di un’ascesi, che è il significato base della Divina Commedia: la salvezza dell'uomo dalla morte, dalla dannazione e dal non senso.

    LA VERSIONE DI NAGAI SU FARINATA

    Il manga ha delle differenze notevoli, stavolta, rispetto al poema originario. Per prima cosa, non c'è l'interruzione di Cavalcanti e Dante non sta cercando Farinata per parlargli. Inoltre, Farinata non viene rimproverato, anzi, per lui Dante (e Nagai) ha solo parole di ammirazione: "Ma tu sei Farinata, il grande condottiero Ghibellino! Colui che guidò le sue truppe nella battaglia di Montaperti dove noi Guelfi fummo sconfitti!" E poi il Dante di Nagai aggiunge: "Grande Farinata, anche tu infine hai sperimentato quanto sia difficile trovarsi a comandare e quanto sia duro il trapasso! Se anche un simile eroe è nell'Inferno a soffrire, allora..." poi non dice nulla, implicando però che il Giudizio di Dio sia sbagliato. Non si fa nessun cenno all'eresia di Farinata, che è rappresentato anzi come la povera vittima di una "ingiustizia" divina. Anche questa volta Nagai presenta i dannati come degli innocenti, passando sopra a quello che hanno commesso. Farinata è vissuto nell'orgoglio, nell'autosufficienza, nel rifiutarsi di credere nell'aldilà, nell'anima, nel giudizio di Dio, e insegnando agli altri a fare altrettanto col suo esempio, aprendosi così ad ogni malvagità, perchè non ha mai sentito di dover rispondere a Qualcuno. Ma questo Nagai non lo dice: Farinata per lui è un eroe, un condottiero, una vittima.

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    Scusa, Dante nagaiano, ma Farinata NON ERA una brava persona!

     
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    INFERNO, CANTO 11 - TRA IL SESTO E SETTIMO CERCHIO: STRUTTURA DELL'INFERNO

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    Lasciata alle spalle la città di Dite e il Sesto Cerchio degli Eresiarchi, i due poeti giungono all'orlo che conduce al Settimo Cerchio, dove c'è un ammasso di rocce causato da un crollo. Qui si leva un gran puzzo dal Cerchio sottostante, che costringe Dante e Virgilio a ritirarsi in un punto dove abituarsi al forte odore, per poi riprendere il cammino.

    UN PAPA ALL'INFERNO

    In quel posto c'è la tomba del papa eretico Anastasio II, il cui nome è scritto sul coperchio. Fu pontefice dal 496 al 498; fu eretico perchè accolse l'eresia monofisita, che dice che Gesù non era vero Dio e vero uomo, ma solo vero Dio con l'aspetto umano. Di conseguenza viene negata l'incarnazione, cioè Dio fatto uomo, e di conseguenza anche la salvezza e la risurrezione della carne. Da questa eresia viene il disprezzo del corpo e la mancanza di rispetto per l'uomo, non più considerato sacro perchè non davvero fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Quindi per il monofisita l'uomo, di conseguenza, è privo di veri diritti, che gli possono essere benissimo tolti dai potenti senza problemi perchè i potenti, nel fare questo, non sono considerati colpevoli.
    Oltre al fatto di offendere Dio perchè non mostra fiducia nelle Sue vie, proponendone invece delle proprie, un'eresia ha sempre delle conseguenze pratiche terribili per l'uomo e la sua vita terrena: ma a questo non si pensa mai. Infatti, nell'esempio citato, l'eresia monofisita di conseguenza appoggia la dittatura dell'uomo sull'uomo.

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    Papa Anastasio II



    QUELLO CHE LI ASPETTA NEL PROSSIMO CAMMINO

    Dante chiede a Virgilio di spiegargli cosa li aspetta da ora in poi all'Inferno. Virgilio risponde che, dopo la città di Dite e il Cerchio degli Eresiarchi, da qui in poi vengono condannati quelli che hanno commesso peccati di malizia: cioè peccati fatti razionalmente e con perfetta consapevolezza. Sono peccati fatti usando male la ragione, facendo il male sapendo benissimo di farlo. Quindi sono ancora più gravi dei precedenti, che fino ad ora (eccetto gli Eresiarchi) erano peccati di eccesso, cioè dovuti all'incapacità di dominarsi: i peccati di lussuria, gola, avarizia, prodigalità, ira. Di conseguenza, i peccati di malizia, essendo più gravi, perchè fatti intenzionalmente, col pensiero e l'intelletto, sono puniti ancora più severamente degli altri. I peccati di malizia sono o corporali (omicidio, eccetera) o spirituali (inganno e tradimento, per esempio. In questo caso sono chiamati anche peccati di frode). I peccati di malizia spirituale sono i più sgraditi a Dio perchè Lo offendono direttamente: quindi sono nei Cerchi più bassi.

    Il Settimo Cerchio ospita i violenti (peccati di malizia corporali). E' diviso in tre gironi, a seconda di quale sia stato il bersaglio della violenza:

    PRIMO GIRONE: VIOLENTI CONTRO IL PROSSIMO
    - omicidi
    - ladri

    SECONDO GIRONE: VIOLENTI CONTRO SE STESSI
    - fisicamente (suicidi)
    - contro i propri beni (scialacquatori)

    TERZO GIRONE: VIOLENTI CONTRO DIO
    - contro la Persona Divina (bestemmiatori)
    - contro la natura (sodomiti)
    - contro la bontà divina (usurai)

    Dante commenta che non capisce perché l'usura offende la bontà divina. Virgilio risponde che l'operosità umana cerca di imitare quella di Dio, che crea in continuazione, momento per momento. Secondo la Genesi (il primo libro della Bibbia), inoltre, l'operosità e il lavoro devono fornire i mezzi di sostentamento all'uomo. L'usuraio, invece, ottiene questi mezzi di sostentamento per un'altra via, disprezzando l'operosità, sia quella umana che quella divina. Per non parlare poi delle sofferenze che l'usuraio infligge ai debitori.

    L'Ottavo Cerchio ospita gli ingannatori, che ingannano chi non si fida. Gli ingannatori violano il vincolo naturale che lega gli uomini tra loro. Sono:
    - ipocriti
    - adulatori
    - indovini
    - falsari
    - ladri
    - simoniaci
    - ruffiani
    - barattieri (corrisponde alla concussione: cioè l'atto di un pubblico ufficiale che, abusando del suo potere, costringe qualcuno a dargli del denaro o altro attraverso ricatti o altra forma di imposizione. Tipo il vaccino e il Green Pass.)
    - e altri peccatori consimili.

    Il Nono Cerchio ospita i traditori, che ingannano chi si fida. Il tradimento, oltre a violare il vincolo naturale tra gli uomini (come fanno gli ingannatori), viola anche i vincoli speciali tra gli uomini: violano infatti la parentela, l'amicizia, la patria, fino al vincolo con Dio. Quindi è il peccato più grave di tutti.

    Inoltre, Virgilio, oltre a citare i peccati di incontinenza e malizia di cui abbiamo detto prima, cita anche un terzo caso ancora più grave, di cui Dante però non fa cenno nei gironi infernali che presenta nella Divina Commedia: si tratta della matta bestialità, essere cioè completamente schiavi del male. Probabilmente Dante fa riferimento a persone come serial killer e altri mostri simili.

    Terminata la sua spiegazione, Virgilio invita Dante a riprendere il cammino. Questo Canto è una pausa del viaggio, che prepara la discesa nei prossimi Cerchi e dà l'occasione per spiegare la topografia morale dell'Inferno.

    VERSIONE DI NAGAI

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    Questo non è certo un canto con argomenti facili da trattare, in un manga giapponese. Quindi Nagai ha modificato tutto il dialogo tra Dante e Virgilio, impostandolo nel modello orientale tipo "Caro Dante, coi tuoi sforzi sei arrivato fin qui, ora devi continuare facendo sforzi ancora più duri". In sostanza, Dio qui non c'entra: conta solo la propria volontà umana e i propri sforzi umani. Qui siamo completamente sul piano orizzontale. Sembra di leggere "Dante e le sue avventure da esploratore dell'aldilà", invece di una Divina Commedia rivolta ad ogni uomo.

    Anche con l'aiuto di Virgilio e di Beatrice (aiuti solo umani, notate: gli aiuti di Dio, della Madonna, di Santa Lucia non sono mai nominati da Nagai), il Dante nagaiano è comunque "colui che ha fatto un'impresa eccezionale", come se fosse andato all'Inferno per allenarsi a diventare più forte, manco fosse Dragonball, invece di farlo per salvarsi l'anima. Il Dante reale, quello della Divina Commedia, non fa niente: si lascia guidare da Dio attraverso le persone che Lui gli fa incontrare. Il Dante di Nagai, invece, è un Dante "self-made-men", che si fa aiutare solo da altri uomini, che desidera vedere coi suoi occhi il fondo dell'inferno e riuscire nell'impresa per poi raccontarla. Quindi il Dante di Nagai, in sostanza, è lì per fare allenamento diventando più forte e per fare un documentario.
     
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    INFERNO, CANTO 12: SETTIMO CERCHIO, PRIMO GIRONE - I VIOLENTI CONTRO IL PROSSIMO; I TIRANNI

    IL MINOTAURO

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    Dante e Virgilio scendono dal Sesto al Settimo Cerchio: il percorso è impervio, perchè la discesa è in pratica una frana. Davanti a loro compare il Minotauro, che appena li vede si morde dalla rabbia: essendo il demone custode dei violenti, la sua furia è tale che morde se stesso. Virgilio grida al Minotauro che nessuno di loro due è Teseo (l'eroe che uccise il Minotauro con l'aiuto di Arianna): Dante non è qui per indicazione di Arianna, ma per vedere le pene dei dannati. Il Minotauro si allontana saltellando, come un toro che nell'arena ha ricevuto un colpo mortale, e i due poeti continuano la loro discesa.

    LA DISCESA CROLLATA

    Dante paragona la frana, che i poeti stanno cercando di attraversare a fatica, a quella che ha percosso il letto dell'Adige, in seguito a un violento terremoto accaduto nel 1117 a Calliano (TN).

    Frana-di-Calliano
    Frana ai piedi del Monte Barco, nel Trentino Alto Adige, comune di Calliano, nella provincia di Trento, dopo il terremoto del 1117. La grandezza delle case a destra dà un'idea dell'ampiezza della frana.


    Questi sono i versi relativi:

    Qual è quella ruina che nel fianco (Come quella frana che colpì il letto)
    di qua da Trento l’Adice percosse (dell'Adige a sud di Trento)
    o per tremoto o per sostegno manco, (per un terremoto o per mancanza di sostegno)

    che da cima del monte, onde si mosse, (tale che dalla cima del monte da cui si mosse)
    al piano è sì la roccia discoscesa (fino alla pianura la roccia è sì dirupata)
    ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse: (ma darebbe accesso a qualcuno che scendesse dall'alto:)

    cotal di quel burrato era la scesa (così era la discesa di quel burrone infernale)

    Dante vorrebbe sapere come mai è successo un crollo simile in questa zona, tanto da dover discendere praticamente come dal ciglio scosceso di una montagna, ma non ha il coraggio di chiederlo a Virgilio. Ma l'altro lo previene e gli risponde: la prima volta in cui era passato di lì (ne abbiamo parlato prima) tutto era ancora intatto, perchè Cristo non era ancora risorto. Quando avvenne la Sua risurrezione, Gesù scese nel Limbo liberando le anime dei patriarchi biblici (dal Credo che dice "discese negli Inferi"). In quel momento, tutta la valle infernale tremò, scossa da un terremoto fortissimo, e fu questo a causare il crollo. Sul fatto di Gesù che porta in Paradiso solo le anime dei Patriarchi biblici (Adamo, Eva, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè ecc.) e non le altre, lasciandole nel Limbo, si è già parlato prima. Il Limbo non è una verità di fede, è solo un'ipotesi. Dante ha fatto questa distinzione tra i salvati e i rimasti nel Limbo, per far capire quanto sia importante la salvezza cristiana, alla quale non si può accedere con le sole forze umane, ma anche, e soprattutto, grazie all'azione di Cristo. E' impossibile andare in Paradiso basandosi sulle sole proprie forze: ci vuole l'aiuto di Dio, nella persona di Gesù Cristo.

    IL FLEGETONTE, IL FIUME DI SANGUE BOLLENTE

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    Poco dopo, arrivano al Flegetonte, il fiume di sangue bollente in cui sono immersi i violenti contro il prossimo, cioè assassini e tiranni, il massimo livello di assassinio possibile. Bruciano nel sangue che loro stessi hanno versato. I tiranni sono quelli immersi più a fondo nel Flegetonte, soffrendo ancora di più degli altri. Alla faccia della citazione "Una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica" (Stalin). Nel Flegetonte il tiranno paga per ogni SINGOLA morte, non importa se sia un milione o mille miliardi di omicidi: paga per tutti quanti, a uno a uno, soffrendo eternamente e orribilmente, per l'eternità. Per avere un'idea della sofferenza, provate a mettere un dito nell'acqua bollente: non ve lo dimenticherete più. E si tratta solo di un dito, e solo per un attimo. Figurarsi tutto il corpo e per l'eternità.

    I CENTAURI

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    Il Flegetonte è un'ampia fossa a forma di semicerchio, in cui scorre il sangue bollente del fiume. Tra la parete del Cerchio e il fiume corrono dei centauri armati di arco e frecce, che trafiggono chi prova a uscire dal Flegetonte, anche se di poco. I centauri vedono Dante e Virgilio: uno di loro, Nesso (il centauro che provocò indirettamente la morte di Ercole), chiede quale sia il loro peccato, minacciandoli con l'arco. Virgilio risponde che spiegherà tutto al loro capo, Chirone (il centauro che insegnò ad Achille). Virgilio spiega a Chirone che il suo compito è mostrare al discepolo l'Inferno, poiché questo è il volere divino. Chiede quindi a Chirone di incaricare uno dei centauri di portare in groppa Dante e fargli attraversare il Flegetonte, dal momento che Dante ha un corpo fisico. Chirone incarica Nesso di guidare i due poeti fino al guado.

    I TIRANNI E GLI ASSASSINI

    Nesso scorta Dante e Virgilio attraversando il Flegetonte dove è più basso, mentre i dannati immersi nel sangue levano alte grida. Il centauro indica a Dante spiriti immersi sino alle ciglia e spiega che sono tiranni, e ne cita alcuni:
    - Alessandro di Fere, che fu tiranno della Tessaglia (Grecia), nella città di Fere;
    - Dionisio (o Dionigi) di Siracusa, tiranno famoso per la sua crudeltà, oppresse la Sicilia; è chiamato "feroce" da Virgilio;
    - Ezzelino da Romano, talmente spietato e temuto da essere soprannominato "il feroce" e "il terribile": fu anche scomunicato. Fu tiranno della zona di Treviso, nel 1200. Famoso fu il suo (inutile) incontro con Sant'Antonio da Padova.
    - Obizzo d'Este, tiranno di Ferrara nel 1200.

    Più avanti Dante, vede dei dannati immersi sino alla gola: sono gli assassini. Tra di loro, Nesso indica Guido di Montfort che uccise a Viterbo, per vendetta, Enrico, il cugino del re d'Inghilterra, ammazzandolo mente era a Messa, profanando così la Chiesa e subendo la scomunica. Altri dannati emergono fino al petto e tra questi Dante riconosce più di uno; altri ancora sono immersi solo sino ai piedi (quindi commisero omicidi meno atroci: ma sempre di omicidi si trattava).

    Nel punto di maggior profondità, dove ci sono i peggiori tiranni e assassini, totalmente immersi, si trovano:
    - Attila (capo degli Unni, tutti sanno chi era. Devastò la Francia e l'Italia)
    - Pirro (re dell'Epiro, che si trovava tra Grecia e Albania. La sua tirannide era così spietata che i Tarantini, sottomessi a Pirro, chiesero l'aiuto di Roma).
    - Sesto Pompeo (figlio del più famoso Pompeo rivale di Cesare, fu tiranno delle isole Corsica, Sardegna e Sicilia e fece anche continui atti di pirateria contro Roma).
    - Rinieri da Corneto (spietato predone della Maremma, famoso per la sua efferatezza)
    - Rinieri dei Pazzi (ladro e assassino brutale, fu anche scomunicato per le sue efferatezze contro un vescovo e dei sacerdoti, uccisi in modo barbaro in un loro viaggio)

    Dopo essere giunto sull'altra sponda, il centauro fa scendere Dante, ceh riprende il cammino con Virgilio.

    COMMENTO

    La violenza è il tema dominante del Canto e lo si vede fin dall'inizio, con la comparsa del Minotauro: un mostro per metà uomo e per metà toro, che è simbolo della violenza omicida (il Minotauro sbranava le sue vittime) che è il peccato di chi, pur dotato di ragione umana, si è abbandonato a istinti bestiali e ha arrecato danno al prossimo, nella persona fisica (omicidio) o nei beni (furto). Il Minotauro, che probabilmente è custode di tutto il 7° Cerchio e non solo del primo girone, dove sono puniti assassini e tiranni, tenta di ostacolare il passaggio dei due poeti, come le altre figure demoniache già viste in precedenza (Pluto, Caronte, ecc.), ma è ammonito da Virgilio, che gli ricorda la morte inflittagli da Teseo. I veri custodi del primo girone sono i Centauri, che, al pari del Minotauro, condividono sia la natura umana che quella bestiale. Nell'antichità i Centauri erano considerati esseri saggi e sapienti, nel Medioevo erano invece demonizzati per la loro natura semibestiale. La loro funzione è quella di impedire ai dannati, immersi nel fiume di sangue, di emergere dal Flegetonte più di quanto abbia stabilito la giustizia divina, usando le loro frecce.

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    I Centauri sono costretti ad essere collaborativi con Dante, facendo loro guadare il fiume di sangue. Il Canto presenta una nutrita serie di esempi di violenti contro il prossimo, tra cui spiccano soprattutto i tiranni, particolarmente famosi per la loro efferatezza omicida, che spesso raggiunse livelli spaventosi. Il Flegetonte non è esplicitamente nominato in questo Canto, ma sarà illustrato a Dante da Virgilio nel Canto 15.

    CONFRONTO CON LA VERSIONE DI NAGAI

    Nagai non fa alcun cenno a Gesù Cristo che è sceso negli inferi provocando il terremoto: anzi, trascura il cenno al crollo dell'area. Inoltre, il Virgilio di Nagai fa arrabbiare il Minotauro dicendogli che era stata sua sorella Arianna ad aiutare Teseo ad ucciderlo. Ma nella Divina Commedia Virgilio fa solo un cenno ad Arianna e insulta il Minotauro, che si allontana furioso zoppicando come un toro ferito in una corrida; nel manga di Nagai il Minotauro continua a mordersi al mano sbattendo la testa contro la parete.
    Quando nel manga Virgilio fa vedere a Dante i dannati nel Flegetonte, dice che, oltre agli omicidi e ai tiranni, ci sono anche coloro "che commisero peccato contro Dio", cosa non vera, visto che i bestemmiatori sono in un altro girone. Nagai fa un lungo elogio del capo dei centauri, Chirone, nominandolo "esperto nella astronomia, medicina, musica, arte della guerra e della caccia": cose comunque vere, secondo le leggende greche. Ma così lo presenta come se fosse un grande letterato e uomo di cultura, e non un demonio mezzo uomo e mezzo cavallo che tormenta i dannati. Nella Commedia originale non ci sono questi elogi su Chirone. Nel manga compaiono i tiranni Alessandro e Ezzelino da Romano.
     
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