DIVINA COMMEDIA NAGAI

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    PARADISO CANTO 12 (prima parte) - QUARTO CIELO DEL SOLE - SPIRITI SAPIENTI DELLA SECONDA CORONA: SAN BONAVENTURA, SAN DOMENICO

    San-Domenico
    San Domenico riceve il rosario dalla Madonna, che le dice che con questo rosario sconfiggerà tutte le eresie. Di San Domenico si diceva che: "O parlava di Dio, o parlava con Dio".


    San Tommaso d'Aquino ha appena terminato di parlare, quando la prima corona di spiriti sapienti (detta da Dante la "santa mola", perché ruota orizzontalmente come la macina di un mulino) riprende a ruotare orizzontalmente attorno a se stessa: non fa in tempo a compiere un giro completo, che arriva una seconda corona di altre dodici anime, che la circonda, formando così due cerchi. Cantano in modo così armonioso che vincono le nostre Muse e le nostre Sirene (cioè i canti terreni), tanto quanto l'originale superi la copia, o quanto il raggio diretto superi quello riflesso.

    Le due corone sembrano due arcobaleni concentrici e degli stessi colori, l'uno riflesso dell'altro, che ricordano il mito di Iride inviata da Giunone/Hera sulla Terra (Iride era la messaggera degli dei: quando scendeva sulla Terra per recare un messaggio, tracciava appunto un arcobaleno. Nell'Eneide è appunto Giunone a mandare Iride). L'arcobaleno esterno è il riflesso di quello interno, come lo era il riflesso della ninfa Eco con tutte le altre voci (Dante si riferisce al mito di Eco, che, innamorata di Narciso e non corrisposta, fu consumata dall'amore fino a ridursi alla sola voce, che ripeteva sempre gli altri suoni). Inoltre l'arcobaleno è anche segno del patto tra Dio e l'uomo dopo il Diluvio Universale, con cui Dio promette a Noè che non ci sarà più il Diluvio.

    SAN BONAVENTURA

    San-Bonaventura
    San Bonaventura di Bagnoregio, francescano e Dottore della Chiesa.


    Le danze e i canti, pieni di felicità e di carità, terminano nello stesso momento, ad una volontà concorde, proprio come gli occhi che, obbedendo alla volontà, si aprono e si chiudono simultaneamente. Dall'interno di uno dei lumi appena giunti viene la voce di un beato, che induce subito Dante a prestarle la massima attenzione, come fa l'ago magnetico con la Stella Polare. Il beato è san Bonaventura (1218-1274), francescano e dottore della Chiesa.

    Il suo vero nome era Giovanni Fidanza e nacque a Bagnoregio (Viterbo) nel 1218. A otto anni ebbe una grave malattia, ma San Francesco lo guarì miracolosamente, segnandolo sulla fronte con la croce ed esclamando: “O bona ventura!”. Da qui il nome: "bonaventura" significa infatti "fortunato". Fu anche filosofo e teologo, tanto che fu chiamato Dottore Serafico. Il suo contributo alla dottrina teologica è importantissimo: espresse la necessità di subordinare la filosofia alla teologia, in quanto l’oggetto di quest’ultima è Dio, quindi è più importante della filosofia. Studiò e insegnò alla Sorbona di Parigi e fu amico di san Tommaso d'Aquino. La sua biografia su San Francesco è considerata la biografia ufficiale del Santo ed è chiamata Legenda Maior: ad essa si ispirò Giotto per il suo ciclo delle storie su San Francesco nella basilica di Assisi. Fu ministro generale dell'Ordine francescano, del quale è ritenuto quasi un secondo fondatore. Morì a Lione durante un concilio e per questo fu sepolto nella cattedrale della città. Nel 1434, in una traslazione in un'altra chiesa, la sua lingua fu trovata in perfetto stato. Nel 1562, sempre a Lione, la città cadde in mano agli ugonotti, che, essendo protestanti e odiando il cattolicesimo e le chiese cattoliche, le profanarono tutte, come pure i resti dei santi sepolti nelle cripte o sotto gli altari (essendo protestanti, aborriscono il culto dei santi). Furono così profanati anche i resti del corpo di San Bonaventura: furono distrutti e sparpagliati ai quattro venti. Però, prima di questo atto sacrilego, il 14 marzo 1490, a seguito della ricognizione del corpo del santo a Lione, fu estratto il braccio destro, per donarlo alla sua città d’origine, Bagnoregio, e, nel 1491, fu collocato nella concattedrale di San Nicola. Oggi il braccio di san Bonaventura è l’unica reliquia al mondo del santo. E' festeggiato il 15 luglio.

    SAN BONAVENTURA INIZIA L'ELOGIO DI SAN DOMENICO

    Il francescano San Bonaventura dice che l'ardore di carità lo spinge a parlare del fondatore dell'Ordine Domenicano, perchè il domenicano san Tommaso d'Aquino aveva appena parlato bene del fondatore del suo ordine, san Francesco: dal momento che entrambi combatterono per lo stesso fine, è giusto che la loro gloria risplenda insieme. Bonaventura spiega che la Chiesa, a quei tempi, appariva incerta ed esitante, quando Dio la soccorse facendo nascere questi due campioni, le cui azioni indussero il popolo cristiano a ravvedersi.

    e cominciò: "L’amor che mi fa bella (e (san Bonaventura) iniziò: "La carità che mi abbellisce)
    mi tragge a ragionar de l’altro duca (mi spinge a parlare dell'altro condottiero cristiano (san Domenico)
    per cui del mio sì ben ci si favella. (per il quale qui si parla così bene del mio (san Francesco).

    Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca: (È giusto che, se si parli di uno, si parli anche dell'altro: )
    sì che, com’elli ad una militaro, (cosicché, poiché combatterono insieme,)
    così la gloria loro insieme luca. (anche la loro gloria risplenda all'unisono.)

    Da notare l'importante osservazione "l'amor che mi fa bella" (detto al femminile, perchè San Bonaventura parla della sua anima). Infatti, Dante qui fa capire che, se si vuole essere belli anche fisicamente, non solo dentro, bisogna per prima cosa amare. Chi non ama a poco a poco si imbruttisce. Se vi guardate attorno ve ne accorgete.

    L’essercito di Cristo, che sì caro (L'esercito di Cristo (la Chiesa), che a così caro prezzo (con la morte di Gesù)
    costò a riarmar, dietro a la ‘nsegna (fu riarmato, si muoveva dietro le insegne)
    si movea tardo, sospeccioso e raro, (lento, con esitazione e scarso di numero,)

    quando lo ‘mperador che sempre regna (quando l'Imperatore che regna in eterno (Dio)
    provide a la milizia, ch’era in forse, (provvide alla milizia che era in pericolo,)
    per sola grazia, non per esser degna; (non perché ne fosse degna ma per sua grazia;)

    e, come è detto, a sua sposa soccorse (e, come già detto (da Tommaso d'Aquino), soccorse la sua sposa (la Chiesa)
    con due campioni, al cui fare, al cui dire (con due campioni (Domenico e Francesco), le cui azioni e parole)
    lo popol disviato si raccorse. (indussero il popolo sbandato a ravvedersi.)

    TERMINI MILITARI NELLA CHIESA: NON SONO CONTROSENSI, ANZI NE SONO L'ESSENZA

    Da notare i termini militareschi con cui Dante indica la Chiesa: "esercito", "insegna", "milizia", "riarmare", termini oggi poco usati e poco compresi. Dio stesso è definito 'mperador, temine carico di significati militari e guerreschi nel linguaggio classico (Cesare era definito "imperatore", termine che significa "condottiero", "detentore del potere militare", "generale vittorioso", non solo "sovrano di un impero"); Domenico e Francesco sono definiti campioni della Chiesa (altro termine militaresco: il "campione" è un leale e generoso difensore), il cui scopo era quello di raccogliere l'esercito cristiano ("milizia") ormai sbandato ("sviato") e riorganizzarlo (raccorse"). Il linguaggio militaresco sottolinea come vita militia est ovvero «la vita è un combattimento» in primo luogo contro il proprio peccato e il male per affermare l’unico vero bene, quel Cristo che è via, verità e vita.
    Mi ricordo che alcuni pensavano che fosse un'eresia o una bestemmia parlare dei Cavalieri dello Zodiaco come erano definiti originariamente, cioè come "I Santi cavalieri di Athena": come se un santo fosse un uomo di pace e non dovesse mai essere un combattente. Invece il cristiano lo è. "Non sono venuto a portare la pace, ma la spada", dice il Cristo. E ancora: "Il regno dei Cieli è dei violenti", cioè di chi fa violenza verso se stesso per migliorare e combattere il peccato. Se non si combatte, in sostanza, non si vince.

    Cavalieri


    Infatti, la Chiesa è divisa in tre parti: la Chiesa Militante, cioè quella che combatte su questa Terra; la Chiesa Purgante, cioè la Chiesa che paga i suoi peccati nel Purgatorio, e la Chiesa Trionfante, cioè quella del Paradiso. Noi cristiani viviamo nella Chiesa Militante, in cui si combatte contro il peccato dentro di noi e attorno a noi (con la buona parola e con l'esempio): quindi si tratta di milizia, combattimento. Il cristiano che ha ricevuto la Cresima è chiamato Soldato di Cristo, che deve quindi combattere in suo nome. Si tratta del combattimento spirituale contro il diavolo e contro la parte malvagia che è dentro ciascuno di noi ed è attratta dal maligno. Una cosa che richiama sempre la battaglia: per esempio, San Massimiliano Kolbe, il santo francescano e martire di Auschwitz, aveva fondato la "Milizia dell'Immacolata", in cui i frati dovevano combattere (appunto, "milizia") con ogni mezzo giusto (preghiera, stampa, esempio, testimonianza, insegnamento, sacrificio) per testimoniare Cristo e salvare le anime attraverso l'aiuto dell'Immacolata, appunto la Madonna. E' la stessa lotta che sta facendo Dante nella Commedia: nell'Inferno riconosce le sue colpe, nel Purgatorio si purifica dalle sue colpe, nel Paradiso contempla la sua vittoria finale ottenuta con la Grazia di Dio, rappresentata prima da Virgilio, poi da Beatrice. In sostanza, per raggiungere il Paradiso si deve combattere confidando nell'aiuto di Dio: questo è il messaggio di Dante e della Chiesa.

    VITA DI SAN DOMENICO

    Bonaventura inizia a parlare di San Domenico: in quella parte dell'Europa dove lo zefiro (vento leggero e primaverile di ponente, cioè che viene da Ovest) dà inizio alla primavera, lì dove tramonta il Sole (quindi nell'Ovest dell'Europa), sorge la città di Caleruega (nel poema "Calaroga": è il paese natale di San Domenico, a nord della Spagna, nella regione di Castiglia). Caleruega, dice San Bonaventura, è sotto la protezione dello stemma di Castiglia:

    sotto la protezion del grande scudo (sotto la protezione dello stemma (di Castiglia)
    in che soggiace il leone e soggioga: (in cui il leone sta sotto e sopra (la torre)

    In sostanza, descrive lo stemma di Castiglia, che è questo:

    Stemma-di-Castiglia


    In quella città nacque san Domenico, il supremo difensore della fede cristiana, che fu benevolo con i suoi e spietato con i nemici:

    dentro vi nacque l’amoroso drudo (lì nacque l'amoroso vassallo)
    de la fede cristiana, il santo atleta (della fede cristiana, il santo difensore della Chiesa,)
    benigno a’ suoi e a’ nemici crudo; (benevolo coi suoi e crudele coi nemici;)

    "Drudo" significava "amante" in termine spregiativo (anche Dante lo usa in quel senso all'Inferno, nel Canto 18, parlando di Taide, nella bolgia degli adulatori: "Taïde è, la puttana che rispuose / Al drudo suo"). Ma qui Dante si riferisce al significato originario, cioè cavalleresco: "vassallo", "difensore". Anche "atleta" vuol dire "difensore"; inoltre, il verso parla di "crudeltà coi nemici": come detto prima, Dante usa qui dei termini militari, caratteristici del Cristianesimo. Il "nemico" con cui Domenico è crudele non sono nè gli uomini nè gli eretici, ma il peccato, e con esso il diavolo, che minaccia la vita eterna degli uomini, eretici e non. E' stato osservato che, mentre Francesco era paragonato a un Sole nascente e la città di Assisi era detta appunto Oriente, Domenico nasce invece nell'Occidente del mondo cristiano, per cui sembra che i due santi provengano da punti opposti per convergere entrambi al cuore della Cristianità.

    La mente di San Domenico fu subito piena di virtù, come fu chiaro nel sogno premonitore che la madre Giovanna fece mentre lo aspettava: la donna sognò di partorire un cane bianco e nero (i colori dell'Ordine Domenicano), con in bocca una fiaccola, che poi incendiava il mondo.

    San-Domenico
    San Domenico, col rosario e il tipico abito domenicano. Da notare il cane sottostante, bianco a macchie nere, con una fiaccola in bocca.


    Ben presto Domenico fu battezzato e nel battesimo ("sacra fonte") divenne sposo della Fede ("le sponsalizie fuor compiute al sacro fonte / intra lui e la Fede"). Le mistiche nozze tra Domenico e la Fede sono paralleli a quanto detto per le nozze tra San Francesco e la Povertà. La donna che fece da madrina (cioè testimone del Battesimo) fece anche lei un sogno rivelatore delle future imprese del santo (vide il bambino con una stella in fronte, simbolo della sua missione religiosa), per cui dal Cielo le venne l'ispirazione a dargli il nome "Domenico", cioè "del Signore". E fu "l'agricoltore che Cristo chiamò per coltivare il proprio orto", dice Dante per bocca di San Bonaventura.

    LA LOTTA DI SAN DOMENICO CONTRO LE ERESIE

    Domenico dimostrò sin dall'infanzia l'amore verso Cristo e i suoi insegnamenti (la povertà e l'umiltà), al punto che la sua nutrice spesso lo trovava disteso per terra, come se dicesse: "Sono nato per questo". Suo padre poteva ben chiamarsi Felice e sua madre poteva ben chiamarsi Giovanna, se il significato del suo nome (Giovanna = Grazia di Dio) è corretto. Il giovane Domenico si dedicò tutto agli studi filosofici, non certo per sete di ricchezze come fa chi studia il diritto canonico, bensì per amore di Dio:

    Non per lo mondo, per cui mo s’affanna (non per i beni terreni, per cui ci si affanna)
    di retro ad Ostiense e a Taddeo, (dietro i manuali di diritto canonico dell'Ostiense e di Taddeo,)
    ma per amor de la verace manna (ma per amore della sapienza divina)

    Ostiense e Taddeo erano Enrico da Susa, vescovo di Ostia (da cui il soprannome Ostiense) e il fiorentino Taddeo d'Alderotto: entrambi erano autori di apprezzati volumi di diritto canonico. San Domenico divenne presto un esperto teologo ("gran dottor si feo") e si servì della sua sapienza per difendere la Chiesa ("si mise a circuir la vigna", cioè a custodire la Vigna di Cristo, che è la Chiesa). Chiese al Papa il permesso di combattere le eresie. In questo passaggio, Dante critica il Papa:

    E a la sedia che fu già benigna (E al soglio pontificio, che un tempo era più benevolo)
    più a’ poveri giusti, non per lei, (verso i poveri giusti, non per errore suo)
    ma per colui che siede, che traligna, (ma per quello del Papa, che devia dalla giusta strada,)

    Domenico non chiese al Papa di poter lasciare un terzo o metà delle sue ricchezze (di Domenico) ai poveri, nè di occupare un seggio ecclesiastico vacante, nè di intascare le decime riservate ai poveri (qui Dante critica le avidità nella Chiesa). Chiese di combattere le eresie, in nome di quel seme (cioè la Fede) dal quale sono nate le ventiquattro piante (le 24 anime delle due corone) che ora circondano Dante. Ottenuto l'avallo papale, San Domenico iniziò a combattere efficacemente le eresie, in particolare quelle dei Catari o Albigesi, viste come "sterpi", cioè arbusti secchi e spinosi ("li sterpi eretici percosse / l’impeto suo"), soprattutto in Provenza (regione francese) dove esse erano maggiormente allignate ("dove le resistenze eran più grosse"). Il suo esempio fu poi seguito dai suoi confratelli, per cui nacquero da lui diversi "ruscelli" (i tre rami dei Domenicani - predicatori, suore e terz’ordine - e gli innumerevoli conventi fondati in Europa) che continuarono, dopo la sua morte, ad irrigare l'orto del popolo cristiano ("orto catolico"), così che le sue piante (i cristiani) siano ravvivate ("che i suoi arbuscelli stan più vivi.")

    BIASIMO DEI FRANCESCANI DEGENERI

    Bonaventura spiega che, se Domenico fu una ruota del carro della Chiesa che combatté e vinse la sua battaglia contro le eresie, Dante dovrebbe capire l'eccellenza dell'altra ruota (san Francesco), che san Tommaso aveva poco prima elogiato col suo discorso. Tuttavia, ora il solco tracciato da quella ruota è abbandonata, sì che ora "ch’è la muffa dov’era la gromma": la gromma è lo strato di tartaro che il vino buono forma sulle pareti interne delle botti, ma che diventa muffa, se la botte non è curata: immagine affine a quella del buon vignaiolo indicata prima. Quindi, Bonaventura - che è francescano - vuol dire che ora tra i francescani c'è il male al posto del bene. L'Ordine francescano, infatti, un tempo seguiva i passi del suo fondatore, ma oggi procede in senso opposto, anzi, sono tanto deviati che camminano a ritroso ("quel dinanzi a quel di retro gitta") e ben presto si distingueranno i francescani fedeli alla Regola da quelli degeneri ("il loglio"), che rimpiangeranno di non essere messi nel granaio. Certo, spiega Bonaventura, a cercare con cura si troverebbero ancora dei francescani fedeli agli insegnamenti di san Francesco, ma fra questi non ci sono certo Ubertino da Casale (capo dei Francescani Spirituali, bollato successivamente per eresia dal Papa) né Matteo d'Acquasparta (capo dei Francescani Conventuali, morto nel 1302, durante la redazione della Commedia; era vicino a Bonifacio VIII, il Papa più volte stigmatizzato da Dante, e fu molto coinvolto in faccende politiche), che vogliono rispettivamente inasprire e ammorbidire la Regola di San Francesco, in modo tale che sbagliano entrambi.

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xii.html
     
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    PARADISO CANTO 12 (seconda parte) - QUARTO CIELO DEL SOLE - GLI SPIRITI SAPIENTI DELLA SECONDA CORONA

    La-seconda-corona
    La prima e la seconda corona: immagine di Dorè.


    GLI SPIRITI DELLA SECONDA CORONA

    Il beato che, nel canto precedente, aveva fatto l'elogio a San Domenico, si presenta infine a Dante come Bonaventura da Bagnoregio (non si era ancora presentato), con una definizione curiosa:

    Io son la vita di Bonaventura / da Bagnoregio, (Io sono l'anima di Bonaventura / da Bagnoregio)

    Infatti, "anima" e "vita" sono la stessa cosa: "perdere l'anima" significa proprio perdere la vita, ma per sempre, cioè finire all'Inferno; "salvare l'anima" significa salvare la vita, ma per sempre, cioè andare in Paradiso. Bonaventura precisa che, nelle cariche ecclesiastiche che aveva ricoperto (infatti, oltre ad essere francescano, fu cardinale, maestro alla Sorbona di Parigi e per vent'anni fu ministro generale dell'Ordine Francescano), mise sempre in secondo piano i desideri mondani. Poi presenta gli altri 11 spiriti che formano la Seconda Corona
    di beati insieme a lui (della Prima Corona abbiamo già parlato nel Canto 10, che ho dovuto dividere in sei sezioni: si veda l'elenco qui). Il primo beato della seconda corona, ovviamente, è San Bonaventura; il secondo è Sant'Illuminato, descritto qui sotto. Seguiranno tutti gli altri.

    SANT'ILLUMINATO DA RIETI

    Francescano, accompagnò San Francesco alla visita al Sultano d'Egitto nelle Crociate. Fu anche il primo a percepire la presenza delle stimmate in San Francesco.

    SANT'AGOSTINO DA ASSISI

    Francescano e mistico: gravemente malato, vide in visione, a letto, l'anima di San Francesco salire al cielo dopo la sua morte. Si svegliò di soprassalto e disse: "Aspettami, padre, vengo anch'io con te!" e morì in quel momento, seguendo così San Francesco in Paradiso.

    Illuminato e Augustin son quici, (Qui (nella seconda corona) ci sono Illuminato da Rieti e Agostino da Assisi,)
    che fuor de’ primi scalzi poverelli (che furono tra i primi seguaci di Francesco che andarono scalzi in povertà,)
    che nel capestro a Dio si fero amici. (facendosi amici di Dio nel cinto francescano.)

    BEATO UGO DI SAN VITTORE

    Ugo-di-San-Vittore


    Ugo di San Vittore (1096-1141) fu teologo, filosofo, cardinale e vescovo cattolico francese. Fu tra i principali teorici della Scolastica (filosofia cristiana). E' venerato come beato e viene festeggiato l'11 Febbraio. Grande studioso, uno dei suoi motti era: "Impara tutto. Vedrai che in seguito nulla sarà superfluo. La conoscenza ristretta non è gioiosa."
    Grazie a Ugo e ai suoi scritti, si completò il processo di chiarificazione e razionalizzazione del testo scritto: infatti lui introdusse le spaziature tra le parole. Allora non c'erano spaziature: le parole erano tutte attaccate insieme, e bisognava capire da soli quando finiva una parola e iniziava un'altra. Per esempio: leparoleeranotutteattaccateinsieme.
    Ugo introdusse anche la punteggiatura, che prima non c'era: quindi introdusse la virgola, il punto, il punto e virgola, i due punti, eccetera. Purtroppo oggi questa cosa importantissima, cioè la punteggiatura, è trascurata, rendendo le frasi e i periodi poco comprensibili: non si capisce il soggetto, nè a cosa si riferisce quell'azione, eccetera. Ma questo non è tornare alla tradizione della scrittura prima di Ugo di San Vittore: questa è semplice ignoranza della sintassi e della grammatica.
    Ugo introdusse anche la divisione dei libri in capitoli con indici alfabetici: ovviamente non c'erano nemmeno quelli. I libri non erano suddivisi in capitoli e non avevano neanche un indice. Quindi, ringraziate il "buio Medioevo" quando scrivete.

    Ogni singola parola acquistò così indipendenza, e si crearono le condizioni per lo sviluppo della lettura silenziosa. Infatti, fino ad allora il testo si leggeva sempre a voce, mai in silenzio. La fama di Ugo di San Vittore fu molto vasta, sia per la sua sapienza, che per le sue esperienze mistiche. Fu chiamato "il secondo sant'Agostino" e aprì la strada a San Tommaso d'Aquino, sostenendo la connessione tra la ragione e la fede. La ricerca del sapere sacro e profano (cioè: non sacro, ma umano) si deve articolare così su due piani paralleli: il primo è quello della rivelazione e dell'illuminazione, che provengono da Dio (cioè il sapere sacro); il secondo è quello dell'investigazione affidata all'uomo, che si deve rivolgere alle cose esterne, alla sua anima e alla sua ragione (cioè sapere profano). Quello che la ragione non può spiegare, e che dev'essere pertanto oggetto di fede, è indicato come "mirabile": cioè, supera la ragione, senza mai negarla. Da questi presupposti, Ugo di San Vittore compose una duplice dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio:
    1) esistenza di Dio a partire dalla certezza dell'anima, esistente e finita (cioè non infinita), che quindi deve partire da una causa creatrice, cioè Dio;
    2) esistenza di Dio a partire dalla certezza delle cose esterne, le quali, in quanto soggette alla caducità, presuppongono a loro volta un Creatore, appunto Dio.
    La natura è vista da Ugo di San Vittore come "l'autografo del libro di Dio", perchè creata e istituita da Dio perchè manifesti la Sua infinita sapienza (e quindi non va vista come una cosa da adorare e conservare come fanno oggi: la natura è una creatura, non un Essere da adorare!)

    Queste riflessioni di Ugo di San Vittore segnano una tappa del lungo cammino teologico-filosofico che porterà all'idea della natura come espressione del Pensiero di Dio: questo sarà il motore della rivoluzione scientifica del '600-'700, sviluppando la convinzione che la conoscenza delle leggi che regolano la natura fosse la strada maestra per avvicinarsi alla comprensione del Pensiero di Dio. Invece, una Natura scritta oggi con la maiuscola e adorata come un Essere superiore al posto di Dio non porterà a nessun progresso scientifico, ma porterà piuttosto a un regresso, con un pensiero e un modo di pensare che sarà equivalente a quello dell'Età della Pietra. Il secolo buio che stiamo vivendo è questo, non il Medioevo, che invece fu un periodo di luce.

    L'opera più importante di Ugo di San Vittore è il De sacramentis christianae fidei ("Sui sacramenti della fede cristiana"): una prima grande Summa Teologica medievale, in cui definisce i Sacramenti. Inoltre, sviluppa la chiave per la comprensione delle Sacre Scritture, distinguendo tra il significato letterale (quello che si legge) e il senso profondo oltre le righe (allegoria).

    PIETRO MANGIADORE

    Detto anche Pietro Conestore, fu il più famoso maestro di sacra dottrina del secolo 1000, insieme a Pietro Lombardo (Canto 10). Fu detto "Mangiadore", che significa "divoratore di libri", per indicare la sua vasta conoscenza. Insegnò teologia a Parigi, poi volle ritirarsi a una vita di preghiera e solitudine, lasciando ai poveri tutte le sue sostanze. Fu accolto nel monastero di San Vittore, ove morì tra il 1179 e il 1185.

    PIETRO DA LISBONA, o PIETRO SPANO, o PAPA GIOVANNI XXI

    E' l'unico Papa (a parte, ovviamente, San Pietro) citato da Dante in Paradiso: col nome laico, però, non con quello di Papa. Nacque a Lisbona e fu chiamato, oltre a Pietro da Lisbona, anche Pietro Spano, cioè "spagnolo". Visse nel '200 e studiò e insegnò medicina: successivamente intraprese la strada ecclesiastica, poi divenne cardinale e pontefice nel 1276. Cercò di conciliare i re Rodolfo d'Asburgo e Carlo d'Angiò, poi Alfonso X di Castiglia e Filippo III di Francia. Intraprese la Crociata contro i Saraceni. Condannò diverse dottrine filosofiche non cristiane. Morì a Viterbo il 20 maggio 1277. Di lui furono famosissime e assai diffuse nelle scuole medievali le Summulae logicales. Si trattava di un manuale di logica aristotelica, diviso in dodici trattati ("i dodici libelli" citati da Dante). Per oltre 300 anni (quindi fino al 1600, quasi) fu considerato un importante testo di riferimento per le università europee.

    In campo medico, la sua opera principale è il Thesaurum Pauperum ("II tesoro dei poveri"): una raccolta di rimedi per i mali più diffusi (infatti lui era anche medico). Fu trascritta in più versioni e tradotta in diverse lingue fino a tutto il '700. Curiosamente, Pietro da Lisbona/Giovanni XXI non è mai stato nominato santo dalla Chiesa. Non significa che non lo sia, ma solo che Dante lo ha messo in Paradiso, anche se non era un "santo ufficiale".

    IL PROFETA NATAN

    Natan
    Natan rimprovera il re Davide del suo peccato con Betsabea e dell'omicidio di Uria l'Ittita.


    Natan era profeta di corte e consigliere del re Davide. Annunciò a Davide l'alleanza che Dio stava facendo con lui: fu uno dei primi vaticini sulla futura venuta di Gesù. Più tardi, Natan rimproverò Davide per aver commesso adulterio con Betsabea, mentre lei era la moglie di Uria l'Ittita, la cui morte il re aveva anche organizzato per nascondere l'adulterio (dal Secondo Libro dei Re, capitolo 12, versetti 7-14). Natan presiedette anche all'unzione di re Salomone, il figlio di Davide.

    SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

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    Una delle famose sentenze di Giovanni Crisostomo.


    “Crisostomo” significa “bocca d'oro”: lui fu chiamato così a causa della sua incredibile capacità di predicare. Nacque ad Antiochia (344-354) e divenne vescovo di Costantinopoli. Fustigatore dei costumi, nemico delle eresie, amato dal popolo, fu però odiato dai potenti. Infatti, l'imperatrice Eudossia e il patriarca di Alessandria, Teofilo, lo condannarono all'esilio: le persecuzioni subite ne provocarono la morte nel 407. Le sue ultime parole furono: "Gloria a Dio in tutte le cose".

    Le sue opere furono numerose. Fu un uomo innamorato della morale cristiana, vissuta come "amore in atto". Riteneva che il monachesimo non fosse la sola via per raggiungere la perfezione; la vita sacerdotale al servizio dei credenti e in mezzo alle mille tentazioni del mondo era per lui il miglior modo di servire Dio. Fu sepolto nella Basilica di San Pietro a Roma.

    Ci sono ancor oggi delle polemiche sugli scritti di Giovanni Crisostomo contro gli Ebrei: scritti che furono abilmente utilizzati dai nazisti, estraendoli dal contesto, per giustificare le loro atrocità. Ma sono invece comprensibili nel contesto in cui lui li scrisse: a quei tempi i cristiani (che erano ancora una minoranza) erano ferocemente perseguitati dagli ebrei, che minacciavano la loro fede e facevano credere che la religione ebraica fosse quella vera. Anche dopo l'Editto di Costantino del 313, infatti, i cristiani erano ancora una minoranza e gli Ebrei avevano degli appoggi potenti. I cenni delle persecuzioni, ed esecuzioni, degli ebrei contro i cristiani sono descritti anche negli Atti degli Apostoli: lo stesso ebreo San Paolo, prima di convertirsi, fu un feroce persecutore di cristiani. Se tanti ebrei si fecero cristiani, molti altri non solo rimasero ebrei, ma perseguitarono tenacemente i cristiani. Solo se si leggono questi scritti in quel contesto è possibile capire perchè il Crisostomo li realizzò. Non c'erano allora buoni rapporti tra cristiani ed ebrei: soprattutto da parte degli ebrei, che perseguitavano ferocemente i cristiani.

    SANT'ANSELMO D'AOSTA, o SANT'ANSELMO DI CANTERBURY

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    Statua di Sant'Anselmo, ad Aosta.


    Anselmo d'Aosta (1033-1109), noto anche come Anselmo di Canterbury (perchè morì laggiù; invece era nato ad Aosta, da qui l'altro nome), fu teologo, filosofo e arcivescovo di Canterbury. Era stato uno dei massimi esponenti del pensiero cristiano. E' noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio, che influenzarono fortemente la filosofia successiva.

    Ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture, in cui il Re d'Inghilterra pretendeva di interferire nelle decisioni della Chiesa nelle "investiture", vale a dire nelle elezioni dei sacerdoti e vescovi. Il re, infatti, avrebbe voluto dei religiosi più arrendevoli e concilianti coi suoi modi di pensare (adulterio, rapina, omicidi, eccetera), ottenendo così un cristianesimo addomesticato a suo uso e consumo.

    Ma la Chiesa, con Anselmo, gli negò sempre quel "diritto". Fu canonizzato (cioè, nominato santo), poi proclamato dottore della Chiesa. E' festeggiato il 21 Aprile. Fu sepolto nella cattedrale di Canterbury. Però le sue spoglie furono profanate durante il regno di Enrico VIII e con la nascita della sua Chiesa Anglicana (in questo caso, si può dire che il re vinse la sua "lotta alle investiture"). Gli anglicani furono feroci contro i cattolici: non solo uccidendoli e torturandoli, ma anche profanandone le chiese e le reliquie dei santi. Come avvenne appunto col corpo di Anselmo d'Aosta, di cui si persero per sempre le tracce a causa del fanatismo anglicano.

    ELIO DONATO

    Elio Donato fu un famoso maestro di grammatica latina (l'arte della scrittura, in sostanza, perchè allora il latino era la lingua più usata). Nella sua scuola studiò anche S. Girolamo. Durante il Medioevo, e quindi anche nel periodo di Dante, fu largamente utilizzato nelle scuole il suo corso di grammatica latina, distinto in due sezioni: la prima elementare (Ars Minor), la seconda più avanzata (Ars Maior). Non si parla di una sua beatificazione: ma Dante lo inserisce nel Paradiso lo stesso, anche se non è un santo "ufficiale".

    SAN RABANO MAURO

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    La colomba, il simbolo dello Spirito Santo. Infatti, Rabano Mauro compose uno dei canti più famosi dedicati allo Spirito Santo: il "Veni Creator Spiritus".


    San Rabano Mauro, abate e teologo, nacque a Magonza (Germania) intorno al 784 ed entrò nella famosa abbazia benedettina di Fulda. Divenne poi arcivescovo di Magonza e combattè le posizioni eretiche di Godescalco, o Gotescalco, suo ex-allievo. Costui proclamava la salvezza cristiana solo per alcuni e la dannazione eterna per gli altri, che non erano stati salvati da Cristo. Invece, Rabano disse chiaramente, seguendo il cristianesimo cattolico, che Cristo era venuto per salvare tutti, e non solo alcuni. Il protestantesimo, tuttavia, seguirà l'impostazione di Gotescalco.

    Rabano Mauro fu il più grande dotto del suo tempo: trasmise alla sua epoca tutto il sapere teologico dei Padri della Chiesa e contribuì alla vita spirituale dell’età carolingia. Si meritò il titolo di “Precettore della Germania”. Spiegò e commentò molti libri sacri del Vecchio e del Nuovo Testamento, utilizzando con sapienza le opere dei grandi Padri: s. Girolamo, s. Agostino e s. Gregorio Magno. Inoltre, scrisse vari manuali e omelie per l’educazione del clero; realizzò delle poesie e iscrizioni per chiese e sepolcri.

    Ma la sua opera più grande fu il “De Universo”: un compendio enciclopedico in 22 libri, con la descrizione di tutto il sapere del suo tempo. Compilò anche un "Martirologio", cioè un elenco dei santi venerati, con note della loro vita o del loro martirio. Gli viene attribuito il celebre inno “Veni Creator Spiritus”, qui sotto presentato.

    VENI CREATOR SPIRITUS (in italiano)
    Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato.
    O dolce consolatore, dono del Padre altissimo, acqua viva, fuoco, amore, santo crisma dell'anima.
    Dito della mano di Dio, promesso dal Salvatore, irradia i tuoi sette doni, suscita in noi la parola.
    Sii luce all'intelletto, fiamma ardente nel cuore; sana le nostre ferite col balsamo del tuo amore.
    Difendici dal nemico, reca in dono la pace, la tua guida invincibile ci preservi dal male.
    Luce d'eterna sapienza, svelaci il grande mistero di Dio Padre e del Figlio uniti in un solo Amore.
    Sia gloria a Dio Padre, al Figlio, che è risorto dai morti e allo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.
    Amen.


    Morì il 4 febbraio 856 a Magonza e le sue reliquie furono deposte nel monastero di S. Albano a Magonza. Successivamente, furono profanate e disperse dai protestanti. Nominato santo, è festeggiato il 4 Febbraio.

    GIOACCHINO DA FIORE

    Gioacchino-da-Fiore


    Gioacchino da Fiore, personaggio controverso, nacque a Celico, in provincia di Cosenza, nel 1130-45. Entrò nel ramo cistercense dell'Ordine benedettino e si recò in Terra Santa, per poi ritornare in Italia. Si convinse dell'inadeguatezza del monachesimo tradizionale di fronte alla crisi che attraversavano allora il mondo civile e quello ecclesiale. La sua analisi (detta "esegesi") della Bibbia fu l'occasione per proporre il radicale rinnovamento morale all'interno della Chiesa. Nel 1189, sui monti della Sila, fondò il monastero di S. Giovanni in Fiore, che divenne il centro del nuovo ramo dell'Ordine benedettino, chiamato Ordine Florense, che ottenne l'approvazione, con regolare bolla papale, da papa Celestino III. La vena riformatrice e l'ansia di purezza di Gioacchino attirarono molti francescani della corrente spirituale, ed il dono della profezia che gli veniva attribuito suscitò numerose opere attribuite erroneamente a lui, però con un carattere visionario più che profetico. Queste "opere" riunirono alcuni eretici di diverse provenienze in alcuni gruppi chiamati "gioachimiti" ed ispirati, più o meno liberamente, al pensiero di Gioacchino. Tutti questi elementi misero presto in moto la censura dell'ortodossia e la condanna delle idee di Gioacchino fu netta e decisa, fin dal concilio Lateranense del 1215, anche ad opera di S. Bonaventura (lo stesso santo che presenta a Dante proprio Gioacchino). Nel 1202, Gioacchino da Fiore morì a Canale, nei pressi di Cosenza: la sua salma fu trasportata e tumulata nella cripta di S. Giovanni in Fiore. Papa Onorio III, con una bolla del 1220, lo dichiarò perfettamente cattolico e ordinò che questa sentenza fosse divulgata nelle chiese.

    Sfrondata dai molti errori, opera per lo più dei suoi seguaci, la dottrina di profondo rinnovamento proposta dal beato Gioacchino si basa sulla profezia della "terza età". Ad ogni persona della Trinità, infatti, lui attribuiva un'età storica: all'età del timore - quella del Padre - si era succeduta, con l'Incarnazione, l'età della grazia che ora, sul finire del secolo (non è chiaro quale, comunque), doveva concludersi nell'età dello Spirito Santo, in cui alla chiesa delle gerarchie, vittima della corruzione, avrebbe dovuto sostituirsi la chiesa della spiritualità, guidata da un papa angelico.

    Le "profezie gioachimite" furono aspramente combattute da San Bonaventura, che ora invece è posto accanto a Gioacchino in perfetta concordia ("E lucemi da lato / il calabrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato", cioè: "colui che risplende al mio fianco / è l'abate calabrese Gioacchino da Fiore, / dotato di capacità profetiche"), in modo parallelo a quanto si è visto tra san Tommaso d'Aquino e Sigieri di Brabante nel Canto 10. L'accenno a Gioacchino da Fiore conferma ulteriormente il fatto che che in Paradiso i contrasti terreni sono ormai superati, come si è visto nell'episodio di Piccarda Donati (Canto 3), che nessun risentimento nutriva per chi l'aveva rapita dal chiostro.

    Il tratto che accomuna gli ultimi Spiriti Sapienti della Seconda Corona è l'essere stati difensori, con lo spirito profetico e la predicazione, della moralità in generale e della Chiesa in particolare. Come Natan rimproverò al re Davide i suoi peccati e Giovanni Crisostomo predicò contro l'immoralità della civiltà bizantina, così Gioacchino da Fiore sferzò la corruzione della Chiesa del suo tempo.

    CONCLUSIONE DEL CANTO

    Bonaventura conclude il suo discorso, spiegando che egli ha pronunciato l'elogio di san Domenico, paladino della Chiesa cristiana, per la cortesia di san Tommaso d'Aquino e le sue chiare parole su San Francesco, che hanno indotto lui e gli altri beati della seconda corona a danzare e a cantare.

    COMMENTO

    Si è parlato di canti simmetrici, anche se grande è la differenza nella presentazione dei discepoli dei due santi. San Tommaso fa, infatti, precedere alla vita di san Francesco un’ampia presentazione delle anime che costituiscono con lui la Prima Corona di beati, mentre san Bonaventura delineerà i discepoli di san Domenico (la Seconda Corona) in maniera più sbrigativa e a conclusione del lungo racconto. Inoltre, la contrapposizione interna nei Francescani, con la lacerazione tra Conventuali e Spirituali, che aveva dilaniato i frati minori nel Duecento ed è descritta da Dante, non compare nei Domenicani, che infatti hanno avuto nei secoli uno sviluppo meno tribolato. San Tommaso aveva sottolineato il carattere caritatevole dei francescani e la cultura dei domenicani; lo stesso fa San Bonaventura, presentando il "fare" francescano e il “dire” domenicano: con entrambi, comunque, Dio ha soccorso il suo popolo disperso.

    IL DANTE DI NAGAI

    Dante
    Nel manga, Dante piange nel vedere (a occhi chiusi) le vite di San Francesco e San Domenico; qui però non c'è nessuno che glieli racconta.


    Le due Corone di beati non sono state descritte nel manga: sono al massimo accennate come "corone di angeli". San Tommaso d'Aquino non presenta San Francesco a Dante, nè appare San Bonaventura per elogiare San Domenico. Qui Dante vede i due santi e le loro vite a occhi chiusi, piangendo: non ci sono intermediari. Inoltre, Beatrice dice che "tutti gli angeli che vivono nel Cielo del Sole si stanno radunando per darci il benvenuto, danzano e cantano per noi". Ma, nella Commedia originale, in questi canti non compaiono angeli: sono i santi che danzano e cantano. E non lo fanno per Beatrice o per Dante, come se facessero uno spettacolo per loro. Cantano e danzano per Dio. Anche qui, insomma, "Dio" è assente nel manga: persino in Paradiso non è citato...
     
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    PARADISO CANTO 13 - QUARTO CIELO DEL SOLE - TOMMASO D'AQUINO SPIEGA LA QUESTIONE DI SALOMONE

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    La Regina di Saba incontra Re Salomone


    GLI SPIRITI SAPIENTI E LE STELLE IN CIELO

    Dante cerca di descrivere adeguatamente il movimento rotatorio delle due corone di spiriti sapienti, composte ciascuno dai dodici spiriti di cui abbiamo parlato finora. Per farlo, invita il lettore a immaginare le quindici stelle più splendenti della volta celeste. Infatti, le stelle di prima grandezza, ufficialmente conosciute a quei tempi, erano quindici, descritte nell'Almagesto di Tolomeo1. Poi aggiunge le sette stelle dell'Orsa Maggiore, che, che essendo una costellazione circumpolare, non tramonta mai e resta sempre nel polo artico (e con queste siamo arrivati a 22 stelle):

    imagini quel carro a cu’ il seno (immagini poi il Carro dell'Orsa Maggiore,)
    basta del nostro cielo e notte e giorno, (a cui lo spazio del nostro polo è sufficiente per il moto diurno e notturno,)
    sì ch’al volger del temo non vien meno; (cosicché al volgere del suo timone non tramonta mai;)

    Infine, Dante aggiunge le due stelle, più basse, dell'Orsa Minore. Il poeta descrive la costellazione dell'Orsa Minore come se fosse un corno, la cui punta coincide con la Stella Polare, mentre la parte bassa (la bocca del corno) è formata appunto dalle due stelle più basse dell'Orsa Minore. La Stella Polare si trova sull'asse sulla quale Dante immagina che ruoti il Primo Mobile (cioè il Nono Cielo, sotto cui stanno tutti gli altri Cieli che Dante sta attraversando adesso. Ricordiamo che ora è nel Quarto Cielo del Sole, dedicato agli Spiriti Sapienti. Sopra il Primo Mobile c'è l'Empireo, o Cielo Immobile, in cui c'è la Presenza di Dio):

    imagini la bocca di quel corno (immagini la parte bassa di quel corno (l'Orsa Minore)
    che si comincia in punta de lo stelo (che ha il vertice nella punta (la Stella Polare) dell'asse)
    a cui la prima rota va dintorno, (attorno a cui ruota il Primo Mobile ("prima rota")

    Abbiamo così in tutto 24 stelle, come i 24 beati delle due corone. Dante paragona queste stelle a quelle in cui Arianna, la figlia di Minosse ("Minoi" lo chiama il poeta), si era trasformata dopo la sua morte. Sembra che Dante abbia letto un'altra versione di Arianna. oggi perduta, perchè, nel mito attualmente conosciuto, Arianna, dopo essere stata abbandonata da Teseo, fu presa in sposa dal dio Dioniso. Per le nozze, Dioniso fece dono ad Arianna di un diadema d'oro creato da Efesto che, lanciato in cielo, andò a formare la costellazione della Corona Boreale (una costellazione del Nord). Invece, nella versione letta da Dante, è la stessa Arianna a trasformarsi in una costellazione dopo la morte.

    Se queste ventiquattro stelle, continua il poeta, formassero due corone concentriche che ruotano una in senso opposto rispetto all'altra, esse darebbero un'immagine sbiadita delle due corone di beati che danzano e cantano davanti agli occhi di Dante e Beatrice. Infatti, quello spettacolo trascende a tal punto le cose del mondo ("ch’è tanto di là da nostra usanza"), quanto lo è lo scorrere lento della Chiana (fiume della Toscana: ai tempi di Dante, si impaludava nella Val di Chiana, ricordata come luogo di malaria, e scorreva lentissimo).

    Il canto intonato dai beati non inneggia agli dei Bacco o Apollo, ma alla Trinità e alla duplice natura di Cristo, umana e divina:

    Lì si cantò non Bacco, non Peana, (Lì non si inneggiava agli dei Bacco o Apollo ("peana" significa inno in onore di Apollo, quindi per associazione indica Apollo stesso)
    ma tre persone in divina natura, (ma alle tre persone della Trinità)
    e in una persona essa e l’umana. (e alla duplice natura di Cristo, divina e umana.)

    Il canto e la danza dei beati nelle due corone viene completato, poi si fermano gioiosi e ansiosi di risolvere gli altri dubbi di Dante.

    SAN TOMMASO D'AQUINO RIPRENDE LA PAROLA

    Il silenzio felice dei beati è interrotto da san Tommaso d'Aquino, che, poco prima, aveva raccontato a Dante la vita di san Francesco (Canto 11). E inizia dicendo che, dopo aver risolto, sempre nel Canto 11, il primo dubbio di Dante relativo ai Domenicani ("l’una paglia è trita" e "la sua semenza è già riposta": cioè ha risolto il primo dubbio, "paglia", di Dante e l'ha messo via), ora è pronto a sciogliere l'altro dubbio, come gli dice l'amore di Dio ("dolce amor l'invita"). L'altro dubbio riguardava la frase di San Tommaso d'Aquino su Salomone, che il beato aveva dichiarato essere l'uomo più saggio mai vissuto. Si veda il Canto 10, quarta parte:

    entro v’è l’alta mente u’ sì profondo (dentro vi è l'alta mente dove fu infuso un sapere così profondo,)
    saver fu messo, che, se ‘l vero è vero (che, se le Scritture dicono il vero,)
    a veder tanto non surse il secondo. (non ci fu un uomo più saggio di lui (Salomone).

    Eppure, alla fine della sua vita, Salomone era finito male, seguendo donne straniere che adoravano altri dei. Per cui è necessaria una spiegazione. Tommaso d'Aquino inizia a farla, dicendo che Dante è convinto che in Adamo, dalla cui costola è stata creata Eva, e in Cristo, che morendo sulla croce redense l'umanità del peccato originale, sia stata infusa da Dio la massima sapienza consentita a un uomo. Si tratta della scienza infusa, cioè il conoscere ogni cosa.

    Tra l'altro, Dante confronta il peccato originale di Adamo e di Eva con la salvezza di Cristo:

    adamo_eva-large
    Gesù Cristo, con Adamo ed Eva.


    Tu credi che nel petto onde la costa (Tu credi che nel petto (di Adamo), da dove fu presa la costola)
    si trasse per formar la bella guancia (per creare la bella guancia (di Eva)
    il cui palato a tutto ‘l mondo costa, (il cui palato è costato all'umanità il peccato originale (per aver gustato il frutto proibito),

    e in quel che, forato da la lancia, (e nel petto di Cristo che, trafitto dalla lancia)
    e prima e poscia tanto sodisfece, (redense tutti gli uomini vissuti prima e dopo)
    che d’ogne colpa vince la bilancia, (dallo stesso peccato originale,)

    quantunque a la natura umana lece (fu infusa tutta la sapienza ("lume")
    aver di lume, tutto fosse infuso (che è lecita ("lece") alla natura umana)
    da quel valor che l’uno e l’altro fece; (da Dio stesso ("quel valor") che creò l'uno e l'altro)

    Questo aveva suscitato il dubbio di Dante, visto che Tommaso aveva detto che nessun uomo è mai stato più saggio di Salomone. E Adamo allora? Il beato invita Dante ad ascoltare con attenzione il suo ragionamento, che gli spiegherà in che modo ciò che lui aveva detto e ciò che Dante crede sono parte della stessa verità. Da notare, en passant, che Dante dice chiaramente che il sacrificio di Cristo ha redento tutti gli uomini vissuti prima e dopo di lui: non solo quelli dopo, ma anche quelli prima. E' un aspetto che è stato spesso trascurato: il sacrificio di Cristo, infatti, anche se è avvenuto nel tempo, nello stesso tempo trascende il tempo.

    TOMMASO SPIEGA LA SAPIENZA DI SALOMONE

    Tommaso risponde a Dante, dicendo che quello che il poeta crede (cioè che Adamo e Cristo abbiano avuto entrambi la Scienza Infusa, cioè il conoscere ogni cosa) coincide con quello che ha detto lui su Salomone (che cioè nessun uomo fu più saggio di lui), perchè fanno parte della stessa verità ("il tuo credere e ‘l mio dire / nel vero farsi come centro in tondo": cioè, le due affermazioni fanno parte della stessa verità, come tutti i punti del cerchio sono alla stessa distanza dal centro), ed ora glielo spiegherà.

    Per prima cosa, inizia, devi sapere che tutte le cose incorruttibili ("ciò che non more") e corruttibili ("ciò che può morire") sono riflesso della Trinità. Qui Dante dà una descrizione perfetta della Trinità: il Figlio è l'Idea che viene dal Padre. "Idea", cioè "Logos" (Ragione), "Parola", "Verbo": come dice il Vangelo di San Giovanni proprio all'inizio, "In principio era il Verbo, e il Verbo era Dio, e il Verbo era presso Dio". Il Figlio è generato dal Padre attraverso l'Amore, cioè lo Spirito Santo. Leggete qua la sintesi di Dante, che ha dell'incredibile: parla della Trinità in due sole terzine di un poema! Ecco la prima terzina:

    Ciò che non more e ciò che può morire (Ciò che è incorruttibile e ciò che è corruttibile)
    non è se non splendor di quella idea (non è altro che riflesso di quell'Idea (il Figlio)
    che partorisce, amando, il nostro Sire; (che il nostro Signore ("Sire": il Padre), amando, genera con lo Spirito Santo; )

    Poi la seconda, in cui parla del Figlio, detto "viva luce" che procede ("si mea": è un latinismo, da "meare", cioè "passare", "derivare") dal Padre. Il Padre, a sua volta, è indicato come "suo lucente": infatti, il termine significa "che emana luce". Inoltre, sono inscindibili : il Padre, il "lucente", non si separa dal Figlio, "viva luce", nè dall'amore che c'è tra loro due, cioè lo Spirito Santo, chiamato da Dante "l'amor che a lor s'intrea". Cioè, lo Spirito Santo è l'Amore che si inserisce tra loro due: "s'intrea" è un neologismo, cioè una parola inventata ad Dante per esprimere un concetto non spiegabile con altre parole. "Intreare" significa proprio "porsi come terzo elemento accanto ad altri due".

    ché quella viva luce che sì mea (perché quella viva luce (il Figlio) che promana (o procede)
    dal suo lucente, che non si disuna (da chi la genera (il Padre, "suo lucente"), che non si disunisce)
    da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea, (da Lui né dallo Spirito Santo che si inserisce come terzo fra Loro)

    Ora, la Trinità, questa viva luce, manda i suoi raggi, che vengono raccolti nei Nove Cori Angelici. Qui non bisogna fare confusione: questi non sono i Nove Cieli del Paradiso, ma sono le Nove Gerarchie Angeliche, presenti nell'Empireo, il punto più alto del Paradiso, dove è presente Dio (vedere lo schema qui). I Nove Cori Angelici sono chiamati da Dante le "nove sussistenze", cioè le nove "esistenze": esistono infatti in modo direttamente dipendente da Dio. La luce della Trinità manda i suoi raggi nei Nove Cori Angelici, senza mai perdere la sua unità. Da qui scende più in basso, di Cielo in Cielo ("di atto in atto": ogni Cielo è un "atto", un'azione, perchè tutti i Cieli sono in movimento, a differenza dell'Empireo), fino alle "ultime potenze", cioè gli elementi dei mondo sublunare e materiale: il nostro mondo, insomma. La luce divina si riduce al punto da fare cose effimere, dette "brevi contingenze", attraverso i movimenti dei Cieli: cose effimere con seme (viventi) o senza seme (i non viventi o inanimati).

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    La Creazione di Michelangelo.


    Ora, la materia delle cose create e l'influsso dei Cieli non sono identici (cioè, la grazia divina non è uguale per tutti: se no, saremmo tutti fatti con lo stampino). Quindi la materia riflette più o meno la luce dell'idea divina, a seconda dei casi. Per esempio, due peri possono dare delle pere buone o meno buone. E gli uomini, pur essendo uguali, nascono con indole diversa ("diverso ingegno", dice Dante). Se la materia creata fosse la migliore possibile, e l'influsso astrale fosse nella migliore condizione, allora l'essere creato - in questo caso, l'uomo - rifletterebbe tutta la luce divina. Ma questo non avviene mai, perché la natura che genera è imperfetta, a causa del peccato originale: è simile a un artista che realizza la sua opera con mano tremante.

    Se lo Spirito Santo, però, imprimesse direttamente la luce della potenza divina, allora la cosa creata - l'uomo, in questo caso ("cosa" non nel senso di "oggetto", ma di "concetto", "essenza") - sarebbe pienamente perfetta. E in questo modo, all'inizio, la Terra fu creata, degna di tutta la perfezione degli esseri animati, compreso Adamo. Pure in questo modo la Vergine fu resa incinta di Cristo, Dio fatto uomo. Ecco come Dante esprime questo confronto:

    Così fu fatta già la terra degna (Così la Terra fu creata degna)
    di tutta l’animal perfezione; (di tutta la perfezione degli esseri animati (quando fu creato Adamo; "animal" nel senso di "esseri animati", non di "animale")
    così fu fatta la Vergine pregna; (così la Vergine fu resa incinta di Cristo-uomo; )

    Quindi, conclude San Tommaso, il pensiero di Dante circa la somma perfezione della conoscenza di Adamo e di Gesù è corretto. Oltre ad Adamo, anche Eva, ovviamente, aveva la scienza infusa: ma Dante si riferisce ad Adamo come ai "progenitori", quindi parlava di Adamo ed Eva, insieme.

    Tommaso d' Aquino anticipa l'obiezione del poeta, cioè: come fu possibile, allora, che la sapienza di Salomone, come lui ha detto, fosse senza pari, come lo era quella di Adamo e Gesù? Salomone non aveva la scienza infusa come loro. Eppure San Tommaso, dalle sue parole, sembrerebbe dire il contrario.

    Tommaso invita Dante a riflettere: chi era Salomone? Un re. E Dio gli apparve in sogno, invitandolo a chiedergli cosa volesse da lui (Primo libro dei Re, capitolo 3, versetti 4-12). Ora, essendo re, Salomone gli chiese la saggezza necessaria a governare con giustizia. Non aveva chiesto la sapienza in quanto tale (cioè, appunto, la scienza infusa), al fine di conoscere i problemi insolubili per la mente umana.

    A questo proposito, Tommaso ne elenca quattro, di problemi insolubili: uno di natura teologica, uno di natura logica, uno di natura filosofica/metafisica e uno di natura geometrica:

    1) Quale sia il numero degli angeli. E' un numero talmente sterminato che è impossibile contarli.

    2) Un problema di logica aristotelica: se una premessa necessaria (cioè una premessa che non può essere altrimenti, che deve essere fatta così) e una premessa contingente (cioè non necessaria, solo possibile), insieme, hanno mai prodotto una conseguenza necessaria? (cioè una conseguenza che non può essere altrimenti, che deve essere così). So che è complicato da seguire: è pura filosofia. Questo, comunque, è un problema filosofico di base, su cui si era molto riflettuto nell'antichità e nel Medioevo, senza mai trovare una risposta soddisfacente. Nemmeno adesso si ha una risposta.

    3) Il problema dell'esistenza di un primo moto, non generato da un altro moto. Infatti, ogni movimento è regolato da un altro movimento che è stato fatto prima: per esempio, per abbassare una cosa, la devi prima alzare. Qui si parla invece di un moto che avviene da solo, senza alcun'azione precedente: è il concetto di Primo Mobile, cioè Dio.

    4) Il problema se in un semicerchio si può inscrivere un triangolo non rettangolo. Infatti, qualsiasi triangolo inscritto in un semicerchio (e quindi coi vertici che coincidono col semicerchio) è sempre un triangolo rettangolo, la cui ipotenusa coincide con il diametro della semicirconferenza. Non ci sono altre soluzioni: ma qui si reputa possibile un'alternativa, che per logica non dovrebbe esserci.

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    Questi esempi mostrano quanto fosse elevato il pensiero nel "buio" Medioevo: oggi neanche a scuola si capisce di cosa si sta parlando, se si presentano questi casi.

    Riassumendo, Salomone voleva solo quella sapienza necessaria a ricoprire il suo ruolo di sovrano. Quando Tommaso aveva detto che non c'era stato un uomo più saggio di lui, lui si riferiva in rapporto a tutti gli altri re, non a tutti gli altri uomini: infatti i re sono molti, ma pochi di questi sono saggi e giusti. Quindi l'affermazione di Tommaso non è in contraddizione con quanto Dante crede, riguardo alla sapienza di Adamo e Cristo.

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    Salomone chiede a Dio la sapienza necessaria per essere un buon re.


    MONITO DI TOMMASO A NON DARE GIUDIZI PRECIPITOSI

    Quanto detto da Tommaso deve indurre Dante - e ogni uomo - a usare i piedi di piombo, quando si giudica su una questione che non è ovvia. Infatti, l'uomo stolto si lascia andare a giudizi affrettati su ciò che non conosce. Poi l'opinione corrente lo porta a conclusioni errate, poi l'amore per la sua tesi gli impedisce di riconsiderare la sua idea sbagliata. E quindi gli impedisce di riflettere per conto suo: un errore frequentissimo oggi, in un tempo di mass media imperante. Chi va a cercare la verità - continua San Tommaso - e non ne è capace, cioè non ne ha i mezzi perchè non riflette davvero e non ha delle vere guide, ma ha come guida solo l'opinione comune - lascia la riva, cioè fa la sua "analisi" inutilmente, e con proprio danno, perchè raggiunge così delle conclusioni sbagliate, di cui però è sicurissimo. Questa è l'ottusità.

    Questo errore si vede, continua San Tommaso, nei filosofi come:
    - Parmenide (V sec. a.C.) sostenitore dell'esistenza del solo visibile, l'Essere, visto come l'unica realtà possibile e necessaria. Quindi rifiuta l'aldilà perchè non visibile. Inoltre, rifiuta il concetto di essere che nasce dal nulla, che invece è proprio quello che accade nella Genesi, in cui Dio crea dal nulla.
    - Melisso di Samo (metà V sec. a.C.), discepolo di Parmenide. Approfondisce la filosofia del maestro, aggiungendo che l'Essere è infinito (invece è finito: anche l'universo, per quanto grande, ha una fine). In pratica, si tratta di una divinizzazione del creato.
    - Brisone di Eraclea. Discepolo di Socrate, tentò di risolvere la quadratura del cerchio, una cosa di per sè impossibile.

    Lo stesso errore commisero anche famosi eretici come Sabellio (autore di una dottrina che negava la Trinità) e Ario (negava la natura divina di Cristo), che deformarono con le loro false dottrine la verità delle Scritture.

    Gli uomini non devono essere precipitosi nel giudicare, conclude San Tommaso, come colui che pensa che il grano sia già maturo anche se non lo è ancora: spesso un pruno rinsecchito in inverno fa sbocciare i suoi fiori a primavera. Oppure, una nave può percorrere speditamente la sua rotta, però può naufragare in vista del porto (tipo il Titanic...). E conclude: non si creda del destino eterno di un uomo che ruba e di uno che fa pie offerte: infatti il primo può redimersi e salvarsi, il secondo può peccare e finire dannato.

    Non creda donna Berta e ser Martino, (Non credano donna Berta e ser Martino)
    per vedere un furare, altro offerere, (che, se vedono un uomo che ruba e un altro che fa pie offerte,)
    vederli dentro al consiglio divino; (essi siano già giudicati da Dio;)

    ché quel può surgere, e quel può cadere». (infatti il primo può salvarsi, l'altro può finire dannato».)

    Donna Berta e Ser Martino sono dei nomi convenzionali di uso assai frequente nel Medioevo: indicano delle persone qualunque, come i nostri Tizio e Caio. I titoli "donna" e "ser" vogliono forse indicare saccenteria presuntuosa.

    COMMENTO

    Questo Canto costituisce una parentesi, o approfondimento (come il Canto 2, che parlava delle macchie lunari; i Canti 4 e 5, che parlavano di Platone e del problema di fare dei voti davanti a Dio; e il Canto 7, che parlava della crocifissione di Gesù e del problema ebraico), essendo dedicato soprattutto al problema della sapienza di Salomone. Può sembrare un argomento ozioso e di scarso interesse anche per i contemporanei del poeta: ma, in realtà, Dante affronta la questione assai più delicata dei limiti della sapienza umana rispetto al giudizio divino, che, da un lato, si collega al suo «traviamento» intellettuale di cui si è già parlato, dall'altro anticipa il grande tema della giustizia divina, di cui si parlerà nel Cielo di Giove.

    Il Canto si apre con la descrizione delle due corone di spiriti che ruotano in senso opposto: per descriverli, Dante ricorre a una similitudine tratta dall'ambito astronomico: il lettore provi a immaginare le quindici stelle più lucenti del cielo, più le sette dell'Orsa Maggiore e le due più basse dell'Orsa Minore (24 in tutto) che formino per assurdo due corone concentriche, e avrà solo una pallida idea del meraviglioso spettacolo cui lui ha assistito nel Cielo del Sole. È il consueto tema della "visione inesprimibile con parole umane", per cui il poeta è costretto a ricorrere a complesse e intellettualistiche similitudini per rappresentare solo una traccia di quanto ha visto (come ha spiegato all'inizio del Primo Canto del Paradiso). Ma è anche il preannuncio del tema al centro del Canto, ovvero il limite insuperabile della sapienza (e dunque della ragione) umana che non può conoscere tutto, come nel caso di complesse questioni filosofiche e scientifiche e del delicato problema della salvezza, che sarà ampiamente discusso nel Canto 20. Dante sottolinea che il canto dei beati va al di là di ogni realtà umana, quindi non si può descrivere col solo ausilio della parola poetica (cfr. X, 70-75; XII, 7-9), anche perché esso inneggia alla Trinità il cui mistero qui è oggetto della dotta spiegazione di san Tommaso.

    Tommaso d'Aquino riprende la parola dopo la fine del canto degli altri spiriti (San Bonaventura che ha parlato di San Domenico), per sciogliere il dubbio di Dante riguardo a quanto da lui detto prima a proposito di Salomone, ovvero che in lui fu posta da Dio tanta sapienza che "a veder tanto non surse il secondo" (Canto 10). Tale affermazione trae spunto dal passo biblico in cui Dio appare in sogno al re d'Israele e gli chiede cosa desideri: Salomone risponde di volere la saggezza necessaria a giudicare il suo popolo e distinguere il bene dal male. Dio esaudisce la sua richiesta e dichiara: "Ti ho dato un cuore saggio e sapiente, al punto che nessuno è stato simile a te in precedenza, né alcuno nascerà in futuro".

    Il dubbio di Dante nasce dal fatto che egli sa, in base alla dottrina cristiana, che la massima sapienza fu quella infusa da Dio in Adamo e in Cristo-uomo, che erano perfetti, in quanto creati direttamente da Dio: quindi, quello che ha detto Tommaso d'Aquino sembra contraddire questo fatto. Ma il santo dimostra il contrario, con una lunga e complessa spiegazione filosofica, simile a una lectio magistralis, cioè una lezione di alto livello, tenuta da un insegnante con notevoli competenze e grande fama. Per esempio, c'è stata la Lectio Magistralis di Papa Ratzinger a Ratisbona il 12 Settembre 2006.

    Lectio-Magistralis
    La Lectio Magistralis di papa Ratzinger a Ratisbona.


    Partendo dal mistero della Trinità, che egli non spiega in quanto inconoscibile all'uomo, Tommaso d'Aquino spiega come solo ciò che è creato direttamente da Dio è perfetto: cosa che non si può certo dire per Salomone. La sapienza chiesta a Dio da Salomone e a lui concessa, infatti, riguardava solo il suo ufficio di re, quindi la necessità di saper giudicare e distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato: ovvero il tema trattato nel libro della Sapienza della Bibbia, che, tradizionalmente, è attribuito a Salomone stesso (e che contiene il famoso verso "Diligite iustitiam, qui iudicatis terram" cioè "Imparate la giustizia, voi (potenti) che giudicate la Terra. Ed è chiaro che la giustizia, comunque, la devono imparare tutti: ma i potenti in particolare, perchè hanno maggiore responsabilità).

    Tommaso sottolinea dunque il limite invalicabile della ragione umana, che deve arrestarsi di fronte ad argomenti superiori alle sue forze, come quelli della fede, per cui sembra di leggere un riferimento abbastanza trasparente al cosiddetto «traviamento» di Dante, cioè al suo tentativo di arrivare alla piena conoscenza solo grazie alla ragione e all'intelletto. Da qui, probabilmente, nasce il monito finale del beato a non emettere giudizi precipitosi e superficiali, come hanno fatto in passato filosofi pagani e degli eretici: troppa facilità nel giudicare su delicati argomenti filosofici può portare a pericolose deviazioni che portano alla propria rovina.

    Altrettanta prudenza è necessaria anche rispetto al tema, ugualmente delicato sul piano dottrinale, della salvezza, che viene decretata dalla giustizia divina in modi non sempre conoscibili dalla ragione umana: ciò è legato anzitutto al destino ultraterreno dello stesso Salomone, cui la Scrittura attribuiva il peccato di lussuria senile e la cui salvezza era dubbia per gli uomini: ma si riferisce in generale a tutti i casi di inattese dannazioni e clamorose salvezze che Dante ha mostrato nel corso del poema, di cui Guido da Montefeltro (Inferno, Canto 27) e Manfredi di Svevia (Purgatorio, Canto 3) erano gli esempi più lampanti.

    Tommaso ribadisce che solo Dio, nella sua infinita saggezza, può conoscere in anticipo il destino escatologico delle persone, per cui un uomo può rubare e poi ravvedersi guadagnando la salvezza, mentre un altro può fare pie offerte e in seguito peccare e finire all'Inferno. E' il delicatissimo problema della predestinazione: per quanto sia difficile da capire, Dio sa del destino eterno di ciascuno, e, nello stesso tempo, ciascuno è assolutamente libero di salvarsi o di dannarsi. Anche se questa sembra una contraddizione, è così: è un mistero che non si può spiegare a viste umane.

    L'uomo è e resta assolutamente libero di salvarsi o meno, e il suo destino è sempre da definire. Questo sarà ampiamente spiegato dall'aquila nel Cielo di Giove, che vedrà anche in quel caso due clamorosi esempi di salvezza imprevedibile, ovvero l'imperatore Traiano e Rifeo, che saranno fra i beati dell'occhio dell'aquila e che la sola sapienza umana, con tutti i limiti che san Tommaso ha ben evidenziato in questo Canto, non può pretendere di comprendere razionalmente.

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xiii.html

    -------------------------------
    1 L'Almagesto ("Grande trattato") era un'importante opera astronomica scritta intorno al 150 d.C. da Claudio Tolomeo (100-168: fu un astronomo, astrologo e geografo greco, con cittadinanza romana. Fu autore di importanti opere scientifiche: la principale fu appunto l'Almagesto). Per più di mille anni, fino ai tempi di Dante, l'Almagesto costituì la base delle conoscenze astronomiche. Tolomeo fu il fondatore del "sistema tolemaico", secondo il quale era il Sole a girare intorno alla Terra, considerata un pianeta fisso. Solo nel '500 entrò in vigore la visone copernicana, in cui era la Terra invece a girare intorno al Sole. L'idea copernicana non era una novità: infatti era un'ipotesi già sostenuta sin dai tempi dell'antica Grecia da Aristarco di Samo (astronomo e matematico).
     
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    PARADISO CANTO 14 - QUARTO CIELO DEL SOLE: SALOMONE E LA RISURREZIONE DEI CORPI - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE

    Paradiso-14
    Sempre più in alto: excelsior.


    BEATRICE SVELA UN DUBBIO DI DANTE SULLA RESURREZIONE DEI CORPI; CANTO E DANZA DEI BEATI

    Come la superficie dell'acqua, che è sull'orlo di un vaso pieno, quando è colpito da un colpetto all'esterno, forma, come reazione all'azione, delle onde concentriche che vanno dal bordo al centro; oppure, se si è gettato un sasso nell'acqua, forma delle onde che vanno dal centro al bordo, così a Dante sembra sia la voce di Beatrice, che ora risuona, quando San Tommaso d'Aquino tace, dopo aver parlato nei precedenti Canti. Infatti, dalla voce interrotta di Tommaso, risuona, come un'onda, quella di Beatrice, che è stata zitta lungo tutti i Canti in cui San Tommaso ha parlato.

    Infatti, lei svela alle anime sapienti, che sono insieme a San Tommaso, il nuovo dubbio di Dante, anche se lui non l'ha ancora detto nè pensato. In Paradiso non solo si legge il pensiero: si sa già anche ciò che penserai.

    Il nuovo dubbio di Dante è questo: quella luce che avvolge i beati, così intensa e potente, rimarrà con loro quando i loro corpi saranno risorti? Bisogna ricordare che Dante è in Paradiso prima del grande Giorno del Giudizio, quando Dio giudicherà tutta l'umanità e ciascuno riavrà il proprio corpo. Quindi, per adesso, tutti, sia all'Inferno, che in Purgatorio, che in Paradiso, o soffrono o gioiscono, ma nessuno di loro - salvo rare eccezioni, di cui parleremo più avanti - ha il proprio corpo.

    Inoltre, come corollario, Dante si chiede: quando avranno i loro corpi, la loro vista - visto che vedranno con gli occhi del proprio corpo - potrà sostenerne lo sguardo di una luce così grande?

    Ora le anime dei beati, che danzano nel loro cerchio, sono invitate a spiegare la cosa a Dante. E lo fanno in un modo che a Dante ricorda quelle persone che danzano in cerchio e, spinte da una maggior gioia, alzano la voce e rendono ancora più lieti i loro gesti: i beati, infatti, cantando e girando in danza in modo meraviglioso e ancora più accentuato di prima, mostrano la loro gioia nel rispondere. Nel vedere questo, Dante nota che chi teme la morte, che ci destina alla vita eterna in Paradiso, non ha evidentemente visto la gioia della beatitudine mostrata da queste anime.

    Esse intonano tre volte un canto che inneggia alla Trinità, con una melodia tale che sarebbe il giusto premio per qualunque merito:

    Qual si lamenta perché qui si moia (Chi si lamenta del fatto che si muore sulla Terra)
    per viver colà sù, non vide quive (per vivere in Cielo, non ha visto in questo luogo)
    lo refrigerio de l’etterna ploia. (il refrigerio (l'appagamento) dell'eterna pioggia (beatitudine).

    Quell’uno e due e tre che sempre vive (Quel Dio che è uno e trino e vive sempre)
    e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno, (e regna in questa Trinità,)
    non circunscritto, e tutto circunscrive, (non circoscritto e tale da circoscrivere ogni cosa,)

    tre volte era cantato da ciascuno (era cantato tre volte)
    di quelli spirti con tal melodia, (da quelli spiriti con una melodia tale)
    ch’ad ogne merto saria giusto muno. (che sarebbe il giusto premio ("muno": da "munus", premio: è un latinismo) a qualunque merito.("merto")

    Dante ha descritto la Trinità con un raffinato chiasmo (cioè, l'inversione reciproca di due concetti):

    "Quell'uno e due e tre che sempre vive
    e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno"
    ,

    in cui c'è perfetta corrispondenza fra i tre numeri (uno e due e tre; tre e 'n due e 'n uno) e i verbi "vive / regna", separati in entrambi i versi dall'avverbio "sempre".

    SALOMONE RISOLVE IL DUBBIO DI DANTE

    Ora, Dante sente una voce che viene dalla Prima Corona dei Beati, che è inscritta nella Seconda Corona: è quella di re Salomone, anche se nel poema questo non si dice esploicitamente.

    La voce di Salomone viene da un punto dove risiede una ancora luce più luminosa delle altre della Prima Corona. Per dire "luminoso", "splendente", Dante usa la parola "dia", cioè "divina": "luce più dia". Inoltre, Dante descrive la voce di Salomone come una voce modesta, umile, simile forse a quella dell'arcangelo Gabriele, quando fece l'Annunciazione a Maria. Non si sa perchè Dante abbia fatto un'associazione simile.

    La voce di Salomone (lui non si fa vedere da Dante, resta nella Corona) spiega al poeta che, fino a quando durerà la festa del Paradiso, cioè per sempre ("Quanto fia lunga la festa / di paradiso"), il loro amore sempre splenderà con questa luce ("si raggerà dintorno cotal vesta", cioè "irradierà intorno a noi questo splendore".) E quello splendore è il riflesso dell'amore divino e della Grazia illuminante, su di loro. Questo è già grande, immenso, mentre sono in quello stato, cioè senza il loro corpo: ma lo sarà ancora di più, quando, nella Risurrezione e nel Giudizio finale, ciascuno di loro si riapproprierà del proprio corpo risorto. Allora sarà la completa beatitudine e gioia. Ecco come Dante spiega la resurrezione dei corpi nelle sue terzine:

    Come la carne gloriosa e santa (Non appena ci saremo rivestiti della nostra carne gloriosa e santa,)
    fia rivestita, la nostra persona (la nostra persona)
    più grata fia per esser tutta quanta; (sarà più gradita (a Dio) perchè sarà nuovamente integra;)

    per che s’accrescerà ciò che ne dona (perciò sarà maggiore il dono)
    di gratuito lume il sommo bene, (di grazia divina che ci viene elargito da Dio,)
    lume ch’a lui veder ne condiziona; (dono che ci permette di contemplarlo;)

    Aumentando la visione di Dio, aumenterà anche il loro ardore di carità, cioè il loro amore. Tuttavia, il corpo resterà visibile all'interno della luce, proprio come il carbone che arde è visibile nella fiamma che lo avvolge, e la loro vista potrà sostenere lo sguardo della luce, perché gli organi del corpo saranno rafforzati:

    né potrà tanta luce affaticarne: (e un tale splendore non potrà abbagliarci:)
    ché li organi del corpo saran forti (poiché gli organi del corpo saranno rafforzati)
    a tutto ciò che potrà dilettarne. (per poter godere di tutto ciò che potrà darci gioia)

    Tra l'altro, si pensa che la similitudine del carbone sia stata tratta dalle Sentenze di san Bonaventura: "il corpo che risorgerà avrà per sua natura un colore tale e sarà avvolto da una tale luminosità come il carbone è avvolto dalla fiamma".

    Ovviamente, questa è solo un'ipotesi di San Bonaventura, che cerca di descrivere ciò che non si può descrivere: nessuno può dire chiaramente come saremo una volta risorti. Queste sono cose oltre l'umano, non si possono spiegare. Fare paragoni col carbone e le fiamme fa solo pensare di diventare in Paradiso dei carboni infiammati, non spiega bene la cosa. Saremo sempre noi stessi, questo sì, ma non si può capire umanamente cosa diventeremo. Resta il fatto che alla resurrezione parteciperà comunque anche il nostro corpo, proprio quello che abbiamo qui. Per questo il Cristianesimo ha sempre rifiutato la reincarnazione, e pure la cremazione (che è il rifiuto del credere nella rusurrezione dei corpi).

    Risurrezione
    La Resurrezione di Cristo è l'anticipazione della resurrezione dei nostri corpi.



    APPARIZIONE DI ALTRE ANIME

    Dopo che Salomone ha finito la sua spiegazione, tutti gli altri spiriti pronunciano insieme "Amen", cioè: "Sì, "Così sia", "Così è". Tra l'altro, Dante, al posto di "Amen", dice "Amme", che è la forma toscana di "Amen", diffusa in quei luoghi ancor oggi.

    I beati, dicendo così, manifestano il loro grande desiderio di riavere i loro corpi mortali. E forse non solo per loro, ma anche per le loro madri e tutti i loro cari, che non hanno più rivisto nella carne da quando sono divenuti beati.

    Improvvisamente, Dante vede aumentare la luce tutt'intorno, come l'orizzonte quando si rischiara, e gli sembra di intravedere le luci di altri beati, come a sera, quando si scorgono le prime stelle in cielo e non si è sicuri di distinguerle bene. I nuovi spiriti compiono un giro attorno alle prime due corone e la loro luce (chiamata da Dante "vero sfavillar del Santo Spiro", cioè "autentico sfolgorio dello Spirito Santo") diventa tale che la vista di Dante ora non riesce più a sostenerla.

    ASCESA AL CIELO DI MARTE

    Beatrice, in quel momento, si mostra così bella al poeta che per lui è impossibile descriverla, come le tante altre cose viste durante questo viaggio ultraterreno. Quando Dante può rialzare lo sguardo, si accorge di essere salire più in alto, verso il Cielo superiore: il Quinto Cielo, quello di Marte, dove ci sono gli Spiriti Combattenti per la fede:

    vidimi translato / sol con mia donna in più alta salute. (vidi che ero stato trasportato con Beatrice a un più alto grado di beatitudine (nel Cielo seguente, di Marte).

    Dante capisce di essere salito al Cielo superiore perchè la stella (o il pianeta, ma Dante lo chiama "stella") che lui sta osservando è di colore rosso, che è il tipico colore di Marte. Anzi, qui è più intenso del solito:

    Ben m’accors’io ch’io era più levato, (Mi accorsi di essere salito più in alto,)
    per l’affocato riso de la stella, (per lo splendore pieno di fuoco della stella)
    che mi parea più roggio che l’usato. (che mi sembrava più rossa ("roggio") del solito ("usato").

    Il termine "riso", qui tradotto con "splendore", è stato messo da Dante con un'ardita estensione semantica: il "riso" qui significa "spirito fulgente di letizia", "anima gioiosa di Paradiso" e, per estremo, come "splendore", "luminosità". Il riso, infatti, fa splendere i volti: da qui l'associazione di Dante tra riso e splendore.

    APPARIZIONE DELLA CROCE

    Subito dopo, Dante rende grazie a Dio, che gli ha concesso un tal privilegio di arrivare fino a quel punto. O meglio, "a Dio feci olocausto", cioè "feci offerta di me stesso a Dio".

    "Olocausto" significa "offerta", "sacrificio": quindi Dante ringrazia Dio facendo offerta di tutto se stesso. Infatti, in greco, olocausto (da "holos", "tutto", e "kaio", "brucio") significa "vittima interamente bruciata" come offerta agli dei.

    Dante capisce che la sua offerta è stata bene accetta, perchè vede due raggi luminosi, con luci rosse e bianche molto intense all'interno ("tanto lucore e tanto robbi": "tanto luminosi e tanto rossi"). Questi due raggi sono disposti a croce ("venerabil segno") nella profondità di Marte ("nel profondo Marte"), cioè davanti al pianeta di Marte. I due raggi si intersecano perpendicolarmente, come fanno gli assi che dividono il cerchio - in questo caso, il pianeta Marte - in quattro quadranti uguali: la croce che ne risulta è quindi una "croce greca", a bracci uguali. In sostanza, un più (+).

    Nel vedere questo, Dante esclama estasiato: "O Dio, tu li abbellisci così!" cioè "O Eliòs che sì li addobbi!". Eliòs è il nome greco del dio Sole, ma qui Dante intende riferirsi a Dio. Anche perchè usa la pseudo-etimologia di Ely, il nome ebraico di Dio, preso dall'etimologo Uguccione da Pisa. Da notare anche l'"Elaì" pronunciato da Gesù sulla croce: "Mio Dio, Mio Dio, perchè mi hai abbandonato?" cioè "Elaì, Elai, lemà sabactani"?

    In questi due raggi a croce scorrono veloci delle luci, simili alle stelle più o meno luminose di cui è costellata la Via Lattea, distesa tra gli opposti poli celesti. Dante non saprebbe descrivere quella croce, perché in essa è come se lampeggiasse Cristo, anche se il poeta non riesce a capire come. Quindi i lettori dovranno cercare di immaginare da sé quale fosse la visione del poeta.

    Nelle terzine in cui Dante descrive questo fatto, pronuncia il nome di Cristo tre volte, facendo tre rime con la stessa parola, e richiamando nello stesso tempo la Trinità. Infatti, i richiami alla Trinità nel Paradiso sono numerosi.

    Croce-di-Marte
    Dante contempla la grandiosa Croce nel Cielo di Marte.


    Lungo i bracci orizzontali e verticali della croce, le luci dei beati (gli spiriti combattenti per la fede, come abbiamo detto) corrono con un forte sfolgorio quando si incontrano, simili ai corpuscoli di polvere che talvolta si vedono all'interno di un raggio di luce che filtra attraverso una fessura:

    Di corno in corno e tra la cima e ‘l basso (Lungo l'asse orizzontale ("di corno in corno, quindi da una parte all'altra") e lungo quello verticale della croce)
    si movien lumi, scintillando forte (si muovevano dei lumi (gli spiriti combattenti), che scintillavano intensamente)
    nel congiugnersi insieme e nel trapasso: (quando si univano e passavano oltre:)

    I beati intonano un canto indicibile, paragonabile alla nota indistinta emessa da uno strumento a corde come l'arpa, tale da far rapire Dante in spirito. Egli capisce solo che si tratta di un inno di lode, poiché distingue le parole «Risorgi» e «Vinci».

    DANTE E' RAPITO IN ESTASI

    Dante è a tal punto incantato da tutto ciò, che nessun'altra cosa vista fino a quel momento (Beatrice compresa) sembra avergli fatto un simile effetto.

    Dante specifica: forse le sue parole sono sembrate eccessive, poiché qui ha anteposto quello spettacolo alla bellezza indicibile degli occhi di Beatrice. Tuttavia, Dante spiega al lettore che lo sguardo della donna amata, Beatrice, acquista sempre maggior bellezza man mano che si sale nei Cieli, e lui, nel nuovo cielo di Marte, non ha ancora osservato gli occhi di Beatrice. Dante, conclude lui, può quindi essere scusato per la sua affermazione, non avendo egli escluso che la bellezza degli occhi di Beatrice sia superiore a quella del Cielo di Marte. Il Canto finisce con questa curiosa precisazione fatta dal poeta.

    COMMENTO

    Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, corrispondenti al dubbio di Dante sulla resurrezione dei corpi, svelato da Salomone, e all'ascesa al Cielo di Marte, con l'apparizione della croce degli spiriti combattenti. E' una sorta di "passaggio" che chiude la lunga parentesi dedicata agli spiriti sapienti del Cielo del Sole e le due corone dei Dodici Beati, per introdurre il lettore al trittico dei prossimi Canti (il 15°, il 16° e il 17°), che saranno tutti dedicati all'antenato di Dante, il combattente crociato Cacciaguida, e alla definizione dell'alta missione del poeta.

    Questo Canto si apre con Beatrice (e, curiosamente, si conclude parlando di Beatrice). Dopo un silenzio durato tre canti (11, 12, 13), lei riprende il suo ruolo di guida e si rivolge alle anime del Cielo del Sole, cioè gli Spiriti Sapienti, invitandole a sciogliere il dubbio di Dante, che lei aveva intuito prima ancora che il poeta l'avesse pensato. Dante ricorre a un'immagine semplice e familiare, quella delle onde concentriche sulla superficie d'acqua di un vaso, che vanno dall'orlo al centro se il vaso è percosso, e viceversa se si getta qualcosa nell'acqua, per rappresentare la voce di san Tommaso, che va dalla corona dei bati a Beatrice e da lei ai beati.

    Il dubbio del poeta riguarda la resurrezione dei corpi mortali e la loro luminosità, quando i beati se ne saranno rivestiti: se cioè questa luminosità aumenterà e, in tal caso, se i loro occhi corporei potranno sostenerne la vista. La questione, ampiamente dibattuta dalla dottrina cristiana del tempo, era stata già accennata da Virgilio nel sesto canto dell'Inferno. Infatti, alla domanda di Dante circa la maggiore o minore intensità delle pene dei dannati dopo la resurrezione dei corpi, Virgilio aveva risposto usando la fisica aristotelica (non la visione di fede) e aveva precisato che l'unione di corpo e anima renderà quest'ultima più perfetta, quindi aumenterà maggiormente la sensibilità al dolore o alla gioia.

    Beatrice, poi, era tornata sull'argomento della resurrezione dei corpi nel settimo canto del Paradiso, affermando che essi sono incorruttibili, in quanto creati da Dio, e perciò destinati a risorgere alla fine dei tempi, dopo aver perso temporaneamente tale perfezione in seguito al peccato originale.

    Il problema viene poi definitivamente risolto da Salomone, che è l'anima che risponde all'appello di Beatrice, e svela il dubbio di Dante. Anche se non è stato indicato col nome, l'identificazione di questo beato trova concordi quasi tutti i critici, anche se con alcune eccezioni, data l'ambiguità del passo. Il re biblico spiega che la luce di cui i beati sono rivestiti non solo resterà dopo la resurrezione dei corpi, ma aumenterà a causa della loro accresciuta capacità di vedere Dio, il che amplificherà la loro gioia e, di conseguenza, il loro splendore.

    Non per questo il corpo sarà invisibile, poiché lo si potrà vedere come il carbone avvolto dalla fiamma, per cui i beati saranno visibili l'uno all'altro e la luminosità dei loro corpi non arrecherà danno alla loro vista, poiché i loro occhi saranno rafforzati, come tutti gli organi dei loro corpi terreni. Dante precisa dunque che i beati riacquisteranno il loro aspetto terreno e potranno vedersi reciprocamente, il che sarà una consolazione e una gioia, in quanto permetterà di rivedere i volti delle persone amate sulla Terra: è quanto il poeta afferma descrivendo la gioia dei beati alle parole di Salomone e il loro desiderio di riavere i loro corpi materiali.

    La gioia dei beati alle parole di Salomone è poi accompagnata dall'apparizione di altre anime di spiriti sapienti, che circondano le due corone e fanno aumentare ancora di più lo splendore del Cielo, preparando l'ascesa del poeta e di Beatrice a quello successivo di Marte.

    Il Cielo di Marte ha un colore rosseggiante: alla luce bianca e abbagliante del Cielo del Sole, che abbiamo seguito finora, si sostituisce quindi quella rossa della stella di Marte, su cui spicca ben presto la croce rossa-biancheggiante in cui si muovono le luci rosse e bianche degli spiriti combattenti (è stato osservato che questo Canto può essere definito «della luce», anche per l'argomento trattato nella prima parte).

    La croce è paragonata alla Via Lattea che si distende fra gli opposti poli celesti, quindi il suo colore è bianco come quello della Fede (gli spiriti rossi e bianchi di questo Cielo combatterono in nome di essa) e il suo simbolo rimanda al sacrificio di Cristo e alla redenzione dal peccato originale. E' possibile che sia stato anche un richiamo alle Crociate, cui rimandano personaggi come il crociato Cacciaguida e altri spiriti inclusi da Dante in questa schiera.

    I beati non formano la croce, ma si muovono lungo gli assi orizzontale e verticale di essa, come luci di colore rosso e bianco paragonati ai corpuscoli di polvere che attraversano un raggio di luce che filtra attraverso una fessura, con un'immagine altrettanto familiare rispetto a quella di apertura di Canto (le increspature dell'acqua sulla superficie di un vaso colmo).

    Nonostante ciò, la raffigurazione ha qualcosa di grandioso e prepara in tono solenne la presentazione dell'avo Cacciaguida nel Canto seguente, in quanto nella croce sembra lampeggiare Cristo (Dante si scusa col lettore di non poterne dare una descrizione adeguata, in accordo alla poetica dell'«inesprimibile») e i beati intonano un inno di lode di cui il poeta non coglie che poche parole, «Risorgi» e «Vinci», che rimandano alla resurrezione di Cristo.

    La melodia del canto è di una bellezza indicibile, tale da rapire Dante in estasi, al punto di posporre la gioia per questo spettacolo alla bellezza degli occhi di Beatrice (e già al suo ingresso in questo Cielo il poeta aveva sentito l'esigenza di fare olocausto, «offerta di tutto se stesso» a Dio per ringraziarlo della grazia che gli ha concesso).

    L'insistenza con cui, nei versi finali, Dante si scusa per aver osato mettere in secondo piano la bellezza della donna rispetto allo spettacolo celeste si spiega con il valore allegorico di Beatrice, che rappresenta la teologia, cioè lo studio e la contemplazione di Dio, che può tuttavia essere posposta alla magnificenza del trionfo della croce, che Dante contempla.

    Il poeta sottolinea, comunque, che non ha ancora guardato gli occhi di Beatrice da quando è asceso al Cielo di Marte, e poiché essi si fanno più belli man mano che si sale, non può escludere che il loro splendore sia superiore a quello del Cielo stesso.

    BIBLIOGRAFIA
    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xiv.html
     
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    PARADISO CANTO 15 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - L'AVO CACCIAGUIDA (prima parte)

    Cacciaguida
    Dante, con Beatrice, incontra l'avo Cacciaguida tra gli Spiriti Combattenti: infatti morì combattendo da Crociato contro i Musulmani in Terrasanta.


    SILENZIO DEI BEATI E APPARIZIONE DI CACCIAGUIDA

    Dante descrive il silenzio degli spiriti combattenti, che, dopo il loro canto, detto "dolce lira", tacciono per permettergli di parlare:

    Benigna volontade in che si liqua (La volontà di fare il bene ("benigna"), in cui si manifesta ("liqua", da "liquare", "manifestarsi")
    sempre l’amor che drittamente spira, (sempre l'amore ben diretto,)
    come cupidità fa ne la iniqua, (così come la cupidigia si manifesta nella volontà malvagia,)

    silenzio puose a quella dolce lira, (fece stare in silenzio quel dolce canto)
    e fece quietar le sante corde (e fece acquietare le sante corde)
    che la destra del cielo allenta e tira. (che la mano di Dio allenta e tira (cioè: i beati interruppero il canto).

    Infatti, gli spiriti combattenti, presenti nella grandiosa immagine della croce descritta da Dante nel precedente canto, mettono fine alla loro musica melodiosa, spinti dalla volontà di fare il bene e quindi consentire a Dante di esporre i suoi desideri. E Dante osserva che non ha senso pensare che i santi non ascoltino mai le preghiere degli uomini, visto che qui i santi si sono interrotti tutti insieme per poter ascoltare la preghiera del solo Dante.

    Come saranno a’ giusti preghi sorde (Com'è possibile che alle giuste preghiere siano sorde)
    quelle sustanze che, per darmi voglia (quelle anime, visto che per indurmi)
    ch’io le pregassi, a tacer fur concorde? (a pregarle, furono tutte concordi nel tacere?)

    Il poeta conclude severamente che chi preferisce dei beni da nulla - e lo fa fino alla fine, per tutta la sua vita - al posto di questo amore così enorme, così immenso, che lascia senza fiato e senza parole, è giusto che finisca nell'Inferno per una così grande trascuratezza. E' un pò come chi disprezza i grandiosi regali di un ricco che lo ama molto, ma gli preferisce piuttosto le carrube dei maiali, che lo trattano male.

    Bene è che sanza termine si doglia (È giusto che soffra in eterno)
    chi, per amor di cosa che non duri, (colui che, per amore di beni effimeri,)
    etternalmente quello amor si spoglia. (si priva in eterno dell'amore di Dio.)

    COMPARE CACCIAGUIDA

    Dante-Cacciaguida
    Cacciaguida nella rappresentazione di Nagai.


    Allo stesso modo di una stella cadente, che d'improvviso attraversa il cielo sereno (con l'unica differenza che chi guarda la stella cadente non la vede scomparire: le stelle cadenti normali, infatti, alla fine scompaiono), così fa una delle luci dei beati (cioè l'anima di Cacciaguida), che, dall'enorme croce luminosa, si muove, senza però staccarsene. Passa infatti lungo il braccio destro della croce, dall'estremo del braccio verso il centro; poi, scende verso il basso.

    Il beato non abbandona la croce, ma si muove lungo questa, proprio come fa una gemma che resta attaccata al suo nastro. Dante paragona questa luce a un fuoco che è dietro a una parete di alabastro ("che parve foco dietro ad alabastro"). Infatti, le finestre delle chiese tante volte erano fatte di alabastro, un materiale alternativo al vetro, che è capace di lasciar trasparire la luce del sole.

    Dante vede che quella luce, cioè quel beato che gli si avvicina, Cacciaguida, che per adesso lui non riesce a riconoscere e che non si è ancora presentato, si avvicina in un modo talmente devoto, ossequioso, felice, che lui lo paragona all'anima di Anchise, il padre di Enea, che, dopo la sua morte, incontra il figlio Enea, da vivo, nei Campi Elisi (l'aldilà pagano simile al Paradiso), come racconta Virgilio, "nostra maggior musa".

    Cacciaguida ancora non si presenta a Dante, ma, pieno di gioia nel vedere un suo discendente in cielo, gli parla. Le sue prime parole, però, non sono in italiano, ma in latino, un caso unico nella Commedia (tranne negli altri casi particolari e precedenti, di cui parlieremo tra poco):

    "O sanguis meus, o superinfusa ("O mio discendente, o abbondante)
    gratia Dei, sicut tibi cui (grazia divina, a chi come a te fu aperta)
    bis unquam celi ianua reclusa?". (due volte la porta del Cielo?")

    IL LATINO NELLA DIVINA COMMEDIA

    cicerone-senato
    Cicerone parla al Senato Romano e un sacerdote dice la Messa in latino. Essendo totalmente precisa nelle definizioni, e avendo una costruzione sintattica con un ordine rigorosamente matematico, il latino è la lingua solenne per eccellenza. Per questo è sempre stata la lingua ufficiale della Chiesa.


    Nell'INFERNO le parole in latino sono molto poche. Interi canti si succedono, ma solo in volgare. C’è addirittura una frase in lingua “satanica”, famosissima: "Pape Satàn, pape Satàn aleppe!" (Canto 7 dell'Inferno: è stato pronunciato dal cane da guardia Pluto, al Quarto Cerchio (avari e prodighi).

    Non mancano comunque dei latinismi in quantità (il latinismo è una parola presa direttamente dal latino: per esempio, “pulcro”, cioè "bello", da "pulchrus", che significa appunto "bello" in latino). Ci sono anche dei passi ispirati da celebri versi latini.

    Ma in tutto ci sono solo quattro parole latine, e si trovano nel primo e secondo Canto dell'Inferno:
    - "Miserere" (Canto 1), cioè "Abbi pietà di me": Dante lo dice nella selva oscura, non nell'Inferno, quando vede per la prima volta Virgilio;
    - "sub Iulio" (sempre nel Canto 1), "sotto Giulio (Cesare)": lo dice Virgilio parlando della sua vita. Qui siamo sempre nella selva oscura, non nell'Inferno come luogo.
    - "Vas" (Canto 2), termine che Dante usa in riferimento a San Paolo, chiamato Vas d’elezione, cioè "strumento della scelta (divina)".

    Inoltre, nel 34° Canto dell'Inferno, cioè l'ultimo canto, c'è un verso intero in latino: "Vexilla regis prodeunt inferni", che imita l'incipit dell’Inno alla Croce di Venanzio Fortunato: ma è capovolto, mostrando i "vessilli di satana", il re dell'Inferno, non quelli di Cristo, in una sorta di solenne e religioso orrore.

    L’Inferno, infatti, è la cantica del buio, del frastuono e del disgusto, dove il nome di Cristo non è degno di comparire. E tutta la cantica dell'Inferno sembra quasi indegna della lingua latina, che è timidamente attestata all’inizio (fuori dall'Inferno, nella selva oscura) e alla chiusura della cantica.

    Nel PURGATORIO, invece, le parole latine compaiono numerose in tutta la Cantica. Sono riferibili a preghiere, passi evangelici, testi biblici e religiosi in genere. Sono parole singole, o coppie di parole, endecasillabi interi: la lingua latina è costantemente presente, e in misura decisamente superiore rispetto alle altre due cantiche, sia quella del Paradiso che quella dell'Inferno. La sua ricca presenza culmina in una terzina quasi completamente in latino, collocata nell’ultimo canto (il 33°):

    Modicum, et non videbitis me; (Fra poco non mi vedrete)
    et iterum, sorelle mie dilette, (e di nuovo, sorelle mie dilette,)
    modicum, et vos videbitis me. (fra poco voi mi vedrete.)

    Sono parole solenni tratte dal Vangelo di Giovanni (sedicesimo capitolo, versetto 16), con le quali Gesù annuncia la propria morte e risurrezione, auspicio di una Chiesa riformata e corretta. Ho contato la notevole somma di centosei parole latine nel Purgatorio, un numero immensamente superiore a quello dell’Inferno. La lingua latina, come la luce, illumina la lunga strada che deve percorrere il peccatore per redimersi: è lingua nobile, della fede e della preghiera.

    Nella cantica del Purgatorio è presente anche un’altra lingua, il provenzale, cioè il francese di quei tempi (Canto 26), pronunciata dal penitente, e trovatore, Arnaut Daniel:

    El cominciò liberamente a dire: (Lui cominciò volentieri a dire:)
    «Tan m’abellis vostre cortes deman, («La vostra cortese domanda mi piace a tal punto,)
    qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. (che non posso né voglio nascondere la mia identità.)

    Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; (Io sono Arnaut, che piango e vado cantando;)
    consiros vei la passada folor, (preoccupato guardo la mia passata follia d'amore,)
    e vei jausen lo joi qu’esper, denan. (e vedo gioioso la gioia che spero, davanti a me.)

    Ara vos prec, per aquella valor (Ora vi prego, per quella virtù)
    que vos guida al som de l’escalina, (che vi guida alla sommità di questa scala,)
    sovenha vos a temps de ma dolor!». (di rammentarvi al momento opportuno del mio dolore!»)

    Dopo aver detto questo, il Daniel scompare entro le fiamme che lo purificano. Il provenzale non è la lingua “chioccia”, disarmonica, incomprensibile, demoniaca dell'Inferno, ma è nobile come il latino, è poetica e musicale, una piccola tentazione che ricorda la vita terrena. Il latino è ben presente in questa cantica della speranza del Purgatorio: è lingua di consolazione e di solidarietà umana.

    Nel PARADISO la lingua latina ha una buona rappresentanza, ma in misura minore rispetto al Purgatorio. Ho potuto contare solo sessantotto parole, latinismi esclusi. Due intere terzine sono in latino: la prima include due parole ebraiche e si trova all’inizio del settimo canto, ed è cantata dall'imperatore Giustiniano:

    "Osanna, sanctus Deus sabaòth, ("Osanna, o santo Dio degli eserciti,)
    superillustrans claritate tua (che illumini dall'alto con la tua luce)
    felices ignes horum malacòth!". (i beati fuochi di questi regni!")

    "Sabaoth" è un termine ebraico e significa "degli eserciti": appunto "Dio degli eserciti". Oggi il termine è visto come troppo "aggressivo" ed è stato sostituito nella Messa con "Dio dell'Universo". Malacòth è un altro termine ebraico che significa "dei regni": l'originale è "mamlacoth", che Dante ha alterato per farlo "adattare" al poema. Superillustrans, cioè "che illumini dall'alto", è una creazione di Dante: il latino ha solo superillustris, cioè "illustrissimo". Questo canto è un'invenzione dantesca: "Osanna sanctus Deus" riecheggia il Sanctus della Messa, che oggi è detto in italiano, e cioè:

    "Santo, santo, santo il Signore Dio dell’universo;
    i cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
    Osanna, osanna nell’alto dei cieli.
    Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
    Osanna, osanna nell’alto dei cieli."


    La solennità della terzina è aumentata dalla presenza delle parole ebraiche.

    Infine, la seconda terzina, interamente in latino, è proprio quella di Cacciaguida. Ha una caratteristica che la distingue da tutte le altre: non deriva dall’ambito religioso, perché contiene le parole con cui Cacciaguida accoglie il suo discendente:

    "O sanguis meus, o superinfusa ("O mio discendente, o abbondante)
    gratia Dei, sicut tibi cui (grazia divina, a chi come a te fu aperta)
    bis unquam celi ianua reclusa?". (due volte la porta del Cielo?")

    Non ho certo la pretesa di competere con gli studi accurati degli esperti che si sono occupati e si occupano di questi versi latini. A me, però, basta osservare che, in questa terzina, unica in tutta la Commedia, Dante usa la lingua latina pura, senza contaminazioni con altre lingue.

    A mio modesto parere, questa sembra essere stata una scelta linguistica, finalizzata a dare particolare rilievo all’incontro di Dante col suo avo. Sono parole destinate a restare per sempre impresse nella mente di noi lettori, per l’alto valore espresso e per la forma solenne di lezione morale su cui riflettere.

    E qui ci fermiamo. La differente presenza del latino nelle tre Cantiche porta a una conclusione sicura: il latino non è una lingua “da Inferno”: è una lingua nobile, che tace nel mondo della perdizione, ed è invece degna cittadina delle cantiche della salvezza e della beatitudine divina. Come la luce, che, in diversi gradi, accompagna l’uomo nel suo cammino verso le stelle.

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xv.html

    https://www.latinamente.it/notizie/443-la-presenza-della-lingua-latina-nella-divina-commedia.html
     
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    PARADISO CANTO 15 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - L'AVO CACCIAGUIDA (seconda parte)

    Dante-1
    Il Cielo di Marte dei Combattenti per la fede, dalla Divina Commedia di Nagai.



    CACCIAGUIDA INVITA DANTE A PARLARE

    Quando Cacciaguida - che Dante non ha ancora riconosciuto - nella prima parte di questo Canto ha finito di dire la sua terzina in latino, Dante, sorpreso per le parole dello spirito, si volta verso Beatrice e rimane doppiamente stupefatto: sia per quello che ha detto Cacciaguida nel salutarlo, che per l'ardente bellezza degli occhi della donna, che contengono un sorriso tale da far sprofondare nella beatitudine il poeta.

    Cacciaguida riprende a parlare: ma l'ardore della sua carità, della sua gioia e della sua felicità nel vedere in Paradiso il suo discendente Dante gli fa dire delle cose talmente profonde che Dante non può capire, perchè si tratta di concetti che vanno oltre l'umano. Quando Cacciaguida ha finito di esprimere la sua grande gioia, in quel momento scende al limite della nostra ragione umana e, per prima cosa, loda Dio per quello che vede: "Benedetto sia tu, o Dio uno e trino, che sei tanto cortese verso il mio discendente!" (da notare l'ennesimo richiamo alla Trinità):

    la prima cosa che per me s’intese,
    «Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
    che nel mio seme se’ tanto cortese!».

    Poi Cacciaguida si rivolge a Dante, dicendogli: "Tu, o figlio (cioè "discendente"), hai finalmente esaudito, in questa luce divina in cui ti parlo, il gradito e lontano desiderio che avevo espresso (cioè quello di vederti), leggendo dal gran volume (cioè dalla mente divina), dove ogni cosa è immutabile; e hai esaudito questo mio desiderio, grazie a Beatrice, che ti ha dato le ali per questo alto volo (cioè, ti ha condotto fin qui):

    E seguì: «Grato e lontano digiuno, (e seguì: "(Il mio) gradito e lontano desiderio)
    tratto leggendo del magno volume (che avevo espresso, leggendo dalla mente di Dio (il "magno volume")
    du’ non si muta mai bianco né bruno, (dove non si cambia il bianco nè il bruno (cioè, dove tutto è immutabile)

    solvuto hai, figlio, dentro a questo lume (hai esaudito, o figlio, in questa grande luce)
    in ch’io ti parlo, mercè di colei (in cui ti parlo, (e questo) grazie a colei (Beatrice)
    ch’a l’alto volo ti vestì le piume." (che per l'alto volo ti diede le piume.")

    Cacciaguida continua: "Tu, Dante, ritieni, e giustamente, che il tuo pensiero venga a me da quello divino", cioè: per grazia di Dio, io posso leggerti nella mente, "così come dall'uno, cioè Dio, se lo si conosce, derivano il cinque e il sei". Cioè: se si conosce Dio, l'Uno, da questa conoscenza derivano "il cinque e il sei", cioè tutti gli altri numeri, i pensieri di tutti, in sostanza. E' come dire che, quando si ama Dio, si amano di conseguenza tutti gli altri, tanto da sapere benissimo quello che pensano. Questo è amore, più che telepatia.

    "Per questo" continua l'avo "visto che sai che ti posso leggere nella mente, non mi chiedi direttamente chi sono, nè perché io sembri più felice di tutti gli altri per la tua presenza qui." Ed è vero:

    Tu credi ‘l vero; ché i minori e ‘ grandi (Tu pensi il vero; infatti le anime più e meno beate)
    di questa vita miran ne lo speglio (del Paradiso osservano nello specchio (la mente divina)
    in che, prima che pensi, il pensier pandi; (nella quale, prima ancora che tu pensi, si riflette il tuo pensiero; )

    Tuttavia, Cacciaguida invita lo stesso Dante a parlare con la sua bocca, per fargli quelle domande che lui già sa: così, il suo ardore di carità si manifesterà in modo più completo.

    CACCIAGUIDA SI PRESENTA

    Dante rivolge allora lo sguardo a Beatrice per chiederle se può parlare: lei, naturalmente, sa già la sua richiesta prima ancora che lui lo faccia e gli dà un cenno d'assenso, con un sorriso che fa crescere le ali al suo desiderio di rivolgersi a Cacciaguida.

    Allora il poeta dice al beato che, nelle anime del Paradiso, il sentimento è pari all'intelligenza: Dio, infatti, li ha elevati a una tale altezza che, per loro, conoscere e amare è la stessa cosa. Ma, per i mortali come Dante, che sono ancora imperfetti, non è così: quindi, il poeta dice che può ringraziare lo spirito solamente col proprio cuore per la festosa accoglienza ricevuta, invece che anche con l'intelletto.

    Poi lo supplica di rivelargli il proprio nome, chiamandolo "splendente topazio, che sei incastonato questo prezioso gioiello (la croce)": "vivo topazio / che questa gioia preziosa ingemmi".

    Lo spirito risponde, chiamandolo "O fronda mia", cioè "O mio discendente", e gli dice che è compiaciuto di lui mentre lo aspettava. Si presenta innanzitutto come suo antenato: anzi, come il capostipite della sua famiglia ("io fui la tua radice"). Quindi, fu con Cacciaguida che iniziò la dinastia illustre degli Alighieri.

    Poi continua parlando di suo figlio, Alighiero I, bisnonno di Dante (Cacciaguida infatti è il trisavolo, o trisnonno, di Dante), da cui era iniziato il nome della sua dinastia. Cacciaguida dice che suo figlio Alighiero I, da tempo, si trova in Purgatorio (Dante, curiosamente, non l'aveva incontrato) e gli chiede di pregare per lui: "Colui dal quale deriva il tuo cognome e che gira da più di cent'anni nella I Cornice del Purgatorio, fu mio figlio e tuo bisnonno: è opportuno che tu abbrevi la sua lunga fatica con le tue preghiere."

    Enea
    Enea incontra Anchise, suo padre, nell'Aldilà: è stato il modello dell'incontro tra Dante e Cacciaguida.



    IL DIVERSO DESTINO DEI PARENTI DI DANTE

    E' da notare che nella Divina Commedia Dante ha: un parente all'Inferno, Geri del Bello; un altro in Purgatorio e appena descritto qui, Alighiero I; e appunto il parente in Paradiso, Cacciaguida.

    Geri del Bello è nell'Ottavo Cerchio (detto Malebolge) dell'Inferno, quello dei Fraudolenti: più precisamente, è nella Nona Bolgia, quella dei Seminatori di discordie, ed è accennato nel Canto 29 dell'Inferno. Dante nemmeno parla con Geri del Bello, quindi non è facile ricordarselo. Inoltre, Geri non saluta nemmeno Dante, come fa Cacciaguida: invece, lo accusa puntandogli contro il dito, senza dir nulla, perchè Dante non ha vendicato la sua morte. Infatti, nell'Inferno c'è solo l'accusa: senza contare che qui Dante condanna anche la vendetta per l'uccisione dei parenti. Geri del Bello era il cugino di Alighiero II, il padre di Dante: fu accusato di rissa e percosse in un processo a Prato (infatti Geri è tra i seminatori di discordie). Sembra che l'assassino di Geri sia stato un certo Brodaio dei Sacchetti (il nome della famiglia), e la sua morte fu vendicata trent'anni dopo, con l'omicidio di uno dei Sacchetti. La riconciliazione tra gli Alighieri e i Sacchetti avvenne solo molti anni dopo per volontà delle autorità, tanto furono lunghi e profondi gli odi familiari.

    Alighiero I, figlio di Cacciaguida e bisnonno del poeta, come abbiamo detto, da più di un secolo è nella Prima Cornice del Purgatorio, cioè quella dei Superbi. Il suo nome, che poi divenne il cognome di Dante, deriva da quello degli Aldighieri, che era la famiglia della moglie di Cacciaguida.

    CACCIAGUIDA RIEVOCA LA FIRENZE ANTICA

    Successivamente, prima ancora di dire il suo nome, Cacciaguida descrive a Dante la Firenze in cui era vissuto ai suoi tempi:

    Fiorenza dentro da la cerchia antica, (Ai miei tempi) Firenze era ancora racchiusa nell'antica cinta muraria,)
    ond’ella toglie ancora e terza e nona, (da dove sente ancora le ore canoniche (dalla chiesa di Badia)
    si stava in pace, sobria e pudica. (e se ne stava in pace, sobria e morigerata.)

    Cacciaguida dice che Firenze ai suoi tempi era ancora circondata dalla vecchia cinta muraria, che risale all'anno 900-1000 ed era assai più ristretta di quella dei tempi di Dante (1300), realizzata nel 1173, dopo la morte di Cacciaguida. La "terza" (ore 9 del mattino) e "nona" (ore 15 del pomeriggio) erano le ore canoniche, cioè le ore della preghiera in comune. Cacciaguida fa riferimento all'antica chiesa di Badia. E perchè Cacciaguida ricorda proprio queste due ore? Perchè erano le ore della giornata in cui si iniziava e si finiva il lavoro.

    CHIESA DI BADIA

    Chiesa-Badia


    Si tratta dell'abbazia benedettina di Santa Maria a Firenze, meglio conosciuta come Badia Fiorentina. E' un importante luogo di culto cattolico del centro storico di Firenze; è intitolato alla Vergine Maria. "Badia" è una contrazione popolare della parola "abbazia". A Firenze e dintorni sono esistite cinque abbazie benedettine, situate come ai punti cardinali della città: a nord la Badia Fiesolana, a ovest la Badia a Settimo, a sud l'abbazia di San Miniato, a est la Badia a Ripoli e al centro, appunto, la Badia Fiorentina, l'abbazia per eccellenza di Firenze, frequentata anche da Cacciaguida. Proprio qui, secondo la Vita Nova, Dante vide Beatrice per la prima volta, durante una messa. In seguito, dopo la pubblicazione della Commedia, Boccaccio tenne nell'aula di Santo Stefano, nella Badia Fiorentina, la prima delle celebri letture della Divina Commedia.

    CACCIAGUIDA LODA LA FIRENZE DI UN TEMPO

    Le donne della Firenze dei suoi tempi, continua Cacciaguida, non esibivano sfarzi esagerati come le catenelle, le corone, le gonne ricamate, le cinture, che diventavano più appariscenti della persona ("che fosse a veder più che la persona."). Le figlie, nascendo, non facevano paura al padre per l'uso di sposarsi precocemente e per l'ampiezza della dote (cioè: non facevano dei matrimoni sfrenati oltre ogni misura, nè ridicolaggini e sfarzi ostentati in modo volgare):

    Non faceva, nascendo, ancor paura (La figlia, nascendo, non faceva ancora paura al padre,)
    la figlia al padre, che ‘l tempo e la dote (poiché l'età delle nozze e l'entità della dote)
    non fuggien quinci e quindi la misura. (non erano ancora sproporzionate (oggi le ragazze si sposano presto e con dote eccessiva).

    Inoltre, in città non c'erano case troppo grandi e vuote per il lusso, né i cittadini si davano alla lussuria imitando Sardanapalo1 come invece fanno nella Firenze attuale. Cacciaguida continua coi suoi paragoni, dicendo che il monte Uccellatoio, che sorge alle porte di Firenze, non aveva ancora sormontato il Monte Mario a Roma: questo monte, coi suoi 140 metri d'altezza, è il rilievo più imponente di Roma e uno dei punti più panoramici della città.

    Cacciaguida vuole dire che Firenze, a quei tempi - simboleggiata dal monte Uccellatoio - non aveva ancora raggiunto il grande fasto e decadenza che ha avuto Roma, simboleggiata dal Monte Mario. All'imponenza della Firenze di adesso, cioè quella dei tempi di Dante, seguirà un rapido declino, proprio come accadde a Roma:

    Non era vinto ancora Montemalo (Monte Mario a Roma non era ancora superato)
    dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto (dal vostro monte Uccellatoio, il quale sarà superato)
    nel montar sù, così sarà nel calo. (sia nel crescere sia nella rapida decadenza (Firenze declinerà in fretta come l'antica Roma).

    Cacciaguida vide Bellincione Berti, illustre fiorentino di allora, andare in giro vestito in modo semplice, mentre sua moglie non si ricopriva certo il volto di belletti; altri illustri cittadini (i Nerli e i Vecchietti) si accontentavano di vesti di pelle, mentre le loro spose stavano in casa a lavorare al telaio. Le donne di Firenze a quel tempo erano certe di non morire in esilio, ma in patria; nemmeno erano abbandonate dai mariti, che non andavano fino in Francia a commerciare come i mariti della Firenze attuale. Si dedicavano ad allevare i figli, a filare la lana, a raccontare le leggende della fondazione di Firenze da parte dei Romani.

    A quei tempi antichi, conclude Cacciaguida, tutti sarebbero rimasti stupiti da certe sfacciate donne fiorentine dei tempi di Dante (come Cianghella, famosa per la sua vita dissoluta, e Lapo Salterello, giurista di corrotti costumi). Proprio come oggi i fiorentini depravati dei tempi di Dante rimarrebbero sconvolti davanti a persone di grande virtù come furono Cincinnato (il celebre dittatore romano che vinse gli Equi e poi tornò ad arare il suo campo) e Cornelia (figlia di Scipione l'Africano e madre dei Gracchi, esempio di virtù e onestà per le donne di Roma: Dante, anzi, la mette tra gli "spiriti magni" del Limbo (Quarto Canto dell'Inferno)

    CACCIAGUIDA RIVELA IL SUO NOME E LA SUA STORIA

    Infine, Cacciaguida rivela il suo nome: dice di essere nato in quella bella città di allora, partorito dalla madre, che nelle doglie invocava il nome di Maria, poi fu battezzato nel Battistero di Firenze col nome di Cacciaguida. Si pensa che Cacciaguida sia nato nel 1091 e la sua morte avvenne nel 1148, durante la Seconda Crociata.

    A così riposato, a così bello (In una convivenza così pacifica e bella,)
    viver di cittadini, a così fida (in una comunità così unita di cittadini,)
    cittadinanza, a così dolce ostello, (in una così bella dimora)

    Maria mi diè, chiamata in alte grida; (mi fece nascere mia madre, invocando Maria nelle grida del parto; )
    e ne l’antico vostro Batisteo (e nel vostro antico Battistero di S. Giovanni (di Firenze)
    insieme fui cristiano e Cacciaguida. (fui battezzato col nome di Cacciaguida.)

    Cacciaguida presenta anche la sua famiglia: ebbe due fratelli, Moronto ed Eliseo, e sposò una donna proveniente dalla Val Padana, il cui cognome, Alighieri, è quello ora portato da Dante. Secondo alcuni studiosi, la moglie di Cacciaguida veniva da Ferrara e apparteneva alla famiglia degli Aldighieri. Non si sa perchè il cognome della moglie fu poi trasmesso ai figli.

    In seguito, Cacciaguida seguì l'imperatore Corrado III2 nella Seconda Crociata (1147-1149), dopo che il sovrano lo aveva investito cavaliere, per il suo retto operare. Andò dunque a combattere contro gli infedeli in Terrasanta, usurpata dai popoli islamici a causa della trascuratezza dei papi. Dagli infedeli fu poi ucciso in battaglia (probabilmente nella battaglia campale di Dorileo, in Turchia) e da quella morte giunse alla pace del Paradiso.

    Poi seguitai lo ‘mperador Currado; (Poi seguii l'imperatore Corrado III;)
    ed el mi cinse de la sua milizia, (ed egli mi fece cavaliere,)
    tanto per bene ovrar li venni in grado. (a tal punto gli piacqui con il mio retto operare.)

    Corrado-III
    Re Corrado III di Svevia: fu il re sotto il quale Cacciaguida combattè. Aveva anche il titolo di Imperatore ("lo 'mperador Currado"), ma non gli fu mai riconosciuto.


    Dietro li andai incontro a la nequizia (Lo seguii in Terrasanta, contro la malvagità)
    di quella legge il cui popolo usurpa, (di quella religione (l'Islam) il cui popolo usurpa quei luoghi,)
    per colpa d’i pastor, vostra giustizia. (a causa della trascuratezza dei pontefici.)

    Come si vede, Cacciaguida, essendo stato combattente, non ci va leggero coi musulmani: parla di "religione malvagia", perchè ostacola quella vera di Cristo, e dell'usurpazione dei luoghi santi (infatti furono i cristiani i primi ad abitare in Terra Santa, non i musulmani: quindi la loro fu effettivamente un'usurpazione). Inoltre, Cacciaguida critica il Papa (non quello dei suoi tempi, ma quello dei tempi di Dante, Bonifacio VIII) perchè ha abbandonato l'idea di riconquistare la Terra Santa, istituendo il Giubileo nel 1300: in questo modo, il pellegrinaggio a Gerusalemme fu sostituito per sempre col pellegrinaggio a Roma. Era come dire che ormai Gerusalemme è da considerare inespugnabile e consegnata per sempre in mano ai musulmani. Non si ha l'idea della sensazione di disfatta e sconfitta che provarono i cristiani di allora, come Dante, nel sapere questa triste verità, alla quale dovettero rassegnarsi: Gerusalemme non era più cristiana.

    Quivi fu’ io da quella gente turpa (Lì quella gente maledetta)
    disviluppato dal mondo fallace, (mi strappò dal mondo fallace (mi uccise),
    lo cui amor molt’anime deturpa; (il cui amore svia molte anime;)

    Cacciaguida attacca ancora i musulmani, chiamandoli "gente turpa", cioè "maledetta", dice il traduttore, che però è un eufemismo. "Turpe", infatti, significa: moralmente vergognoso, che offende gravemente la dignità, l’onestà e il pudore; sconcio, sozzo, ributtante (per esempio: un’azione turpe; parole, atti, gesti turpi; una turpe proposta; voleva così soddisfare le sue turpe voglie; uomo, donna di turpi costumi; un turpe individuo; "un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia" (Manzoni). Sono termini pesanti, quelli che usa Cacciaguida, che però richiamano la violenza guerresca che c'era a quei tempi. Lì si combatteva sul serio e si moriva sul serio. Quindi non c'erano eufemismi tra di loro. Anche i musulmani non ci andavano leggeri coi cristiani, definendoli "giaurri", cioè "sporchi infedeli".

    e venni dal martiro a questa pace». (e venni da quel martirio direttamente a questa pace».)

    Nella morte violenta per amore di Cristo, vengono espiati tutti i peccati e si raggiunge subito il Paradiso, senza passare per il Purgatorio: è quello che è successo a Cacciaguida e a tutti i martiri per la fede.

    COMMENTO

    Il Canto apre il «trittico» dedicato al personaggio di Cacciaguida e inaugura l'importante discorso relativo alla missione civile e poetica di Dante, non a caso collocato in posizione centrale nella Cantica e nell'intero poema.

    In particolare, questo Canto è caratterizzato da un linguaggio solenne e stilisticamente prezioso, con una fitta serie di rimandi alla classicità e al testo biblico che innalzano notevolmente il tono del dialogo fra il poeta e il suo avo.

    E' evidente il parallelismo tra Anchise e Cacciaguida, che infatti saluta il suo discendente con l'espressione latina sanguis meus, che è ripresa letteralmente dall'Eneide.

    Nel prossimo Canto 17, Cacciaguida profetizzerà a Dante il suo futuro esilio, investendolo quindi della sua missione, proprio come Anchise fa col figlio Enea, che dovrà fondare Roma.

    L'incontro fra Dante e Cacciaguida ha quindi un'importanza che va al di là dell'ambito personale e familiare, in cui potrebbe sembrare circoscritto, e investe la sostanza stessa del poema, con la definizione della missione sacrale di cui il poeta si sente investito e la cui dichiarazione solenne affida all'anima di questo suo oscuro antenato, scelto in quanto martire morto combattendo per la fede e vissuto in una Firenze molto diversa da quella attuale, da cui Dante sarà esiliato.

    La rievocazione della Firenze ideale di Cacciaguida richiama l'accusa di Forese Donati (canto 13 del Purgatorio).

    Il paragone tra Firenze e Roma è significativo, perchè Dante riteneva che gli abitanti della sua città di sangue «puro» discendessero proprio dai Romani, mentre quelli venuti da Fiesole, e in seguito inurbatisi dal contado, avevano contaminato questa originaria purezza, portando in città l'avidità di guadagno, che tutto aveva corrotto. E' anche la tesi sostenuta da Brunetto Latini nel Canto 15 dell'Inferno.

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xv.html

    -----------------------------------
    1 Sardanapalo: Re di Assiria del quale favoleggiarono i Greci, identificato con Assurbanipal. La leggenda di Sardanapalo è riferita da numerosi scrittori greci: per esempio, secondo Diodoro, egli sarebbe stato l'ultimo di una serie di trenta re dell'Assiria, e anche il più depravato di tutti. Infatti, Sardanapalo sarebbe vissuto anche come una donna, dedito ai piaceri della gola e della lussuria. Dopo esser riuscito a vincere ripetutamente i numerosi ribelli, fu alla fine assediato nella capitale: si fece bruciare insieme ai familiari e ai suoi tesori. La sua iscrizione funeraria invitava i passanti a mangiare, bere e amare, cioè a godersi la vita senza alcun freno. Visse nel lusso più sfrenato, circondato da comodità, mollezze e piaceri.

    Sardanapalo
    La morte di Sardanapalo, di Eugene Delacroix. Una volta resosi conto della sconfitta imminente, Sardanapalo preferì morire insieme a tutti i suoi averi, piuttosto che consegnarsi ai rivoltosi che stavano assediando il suo palazzo. Le donne dell'harem sono disperate e stanno per essere uccise senza pietà da alcuni uomini al servizio del re; una concubina, accasciata sul letto dove siede Sardanapalo, è già morta. Neanche il cavallo prediletto dal re riesce a sfuggire alla morte. Anche la morte fu un eccesso per lui.


    2 Corrado III: "Lo 'mperador Currado", come lo chiama Cacciaguida, è il re tedesco Corrado III di Svevia (o di Hohenstaufen): regnò tra il 1138 e il 1152. Nel 1146 ascoltò San Bernardo di Chiaravalle predicare la Seconda Crociata (a quei tempi, Gerusalemme era assediata dai Turchi musulmani, che volevano espugnarla, sterminare lì tutti i cristiani, distruggere tutte le chiese, compreso il Santo Sepolcro, ed edificarci al loro posto le moschee per adorare Allah). Corrado partì col re francese Luigi VII per la Terrasanta. Tuttavia, fu sconfitto dai Turchi a Dorileo, in Turchia. Corrado sopravvisse e riuscì a raggiungere Gerusalemme, nonostante l'assedio dai Turchi. Insieme con gli altri crociati, cercò di espugnare Damasco, la roccaforte dei Turchi: ma l'impresa non riuscì e la Seconda Crociata finì con un fallimento. Corrado ritornò in Germania, dove morì.

    Edited by joe 7 - 9/3/2024, 21:43
     
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    PARADISO CANTO 16 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - CACCIAGUIDA PARLA A DANTE (prima parte)

    Nobilt
    Qui Dante parla della nobiltà e di altri argomenti, prima di entrare nel vivo del Canto. Immagine presa qui.


    NOBILTA'

    Dante inizia il Canto rivolgendosi direttamente alla nobiltà come concetto, chiamandola "nobiltà di sangue". Infatti, ci sono diversi tipi di nobiltà, in genere tre: la prima è la nobiltà di sangue, che è la più nota. Ovviamente è quella di chi proviene da una famiglia nobile, cioè dichiarata tale per investitura del Re (e la nobiltà di Dante è proprio quella di sangue, visto che il suo avo Cacciaguida fu nominato Cavaliere, cioè Nobile, da Re Corrado III). E' da ricordare che solo i Re possono dare l'onore della nobiltà alle persone: se oggi ci sono pochi nobili, è perchè ci sono pochi Re.

    Poi c'è la nobiltà di spada, che è derivata dai Cavalieri nominati nobili dal Re e con una tradizione all'uso delle armi: cioè una stirpe di combattenti. Non è il caso di Dante, anche se lui ha combattuto in varie battaglie: ma l'uso delle armi non faceva parte della tradizione degli Alighieri. Comunque la distinzione tra nobiltà di sangue e di spada non è netta: sono comunque nobiltà che provenivano dalle casate più antiche.

    Infine, c'è una nobiltà più recente, dei tempi di Dante, chiamata nobiltà di toga: si tratta di quelle famiglie che avevano raggiunto la nobiltà grazie al servizio prestato al Re. Chiaramente, tutte e tre queste nobiltà venivano concesse solo dal Re.

    Dante, parlando della nobiltà di sangue, dice che è ben poca cosa: tuttavia, sulla Terra, dove l'uomo è debole e attratto dai beni terreni, è tenuta in grande considerazione. E di questo, dice il poeta, io non me ne dovrò stupire: infatti, proprio qui, in Paradiso, dove ora l'uomo è attratto solo da Dio...io, Dante, me ne sono vantato davanti a Cacciaguida, nel sentire che lui, il mio avo, era stato nominato Cavaliere da re Corrado.

    O poca nostra nobiltà di sangue, (O nobiltà di sangue, che sei poca cosa,)
    se gloriar di te la gente fai (se induci la gente a vantarsi)
    qua giù dove l’affetto nostro langue, (sulla Terra dove il nostro affetto è più debole,)

    mirabil cosa non mi sarà mai: (non me ne potrò mai stupire: )
    ché là dove appetito non si torce, (infatti, là dove il nostro appetito non si volge ai beni terreni,)
    dico nel cielo, io me ne gloriai. (intendo dire in Paradiso, io me ne vantai.)

    La nobiltà, però, è come un mantello, dice Dante, che si accorcia presto, poiché il tempo, di giorno in giorno, lo taglia, se non gli si "aggiunge del panno"; cioè, diventa una cosa vana, se non è mantenuta dai discendenti. Essere nobili, infatti, è una responsabilità da mantenere, non è un privilegio di cui vantarsi. Il nobile, per il fatto di essere tale, dovrebbe essere colui che difende chi ha bisogno; colui che combatte nel nome del Re; colui che cura la propria eleganza, la sua disciplina, il controllo di sè, il rispetto per gli altri, il rispetto per le donne. Inoltre, essere nobili significava anche sposare chi ti è stato scelto di sposare, per mantenere la stirpe: non si poteva sposare chi ti pare. Non c'era allora l'idea dell' "amore romantico": ogni matrimonio era un impegno. Ci si voleva bene, certo, ma non si fantasticava dietro la favola del Principe Azzurro o dietro la bomba sexy da sposare. Nel matrimonio ci si accettava l'un l'altro, pur con tutti i difetti che ciascuno ha: e con questo realismo si andava davvero avanti. "Noblesse obbligé", si diceva un tempo: cioè, "i nobili hanno degli obblighi". In sostanza, essere nobili è essere un modello per tutti, e questo costa. E non sempre questo modo di pensare è stato rispettato.

    0007-013
    "Per favore...ci salvi"

    0007-015
    "Io sono di stirpe nobile, e proteggerò tutta questa gente!"


    Qui sopra vediamo Noelle Silva, la ragazza di Black Clover, che appartiene appunto alla famiglia nobile dei Silva: sa di essere nobile, e, in quanto tale, vuole proteggere chi non lo è, perchè sa che questo è il suo dovere. Non si sente mai superiore agli altri perchè non sono nobili, ma piuttosto si sente responsabile per loro. Oppure, in Goldrake, è la nobiltà di Actarus/Duke Fleed, sia quella d'animo che quella di stirpe, che lo porta a difendere la Terra. La nobiltà - rettamente intesa, ovvio - si ispira alla santità, perchè richiama le qualità migliori dell'uomo. E infatti la nobiltà è nata col Cristianesimo.

    IL "VOI" A CACCIAGUIDA

    Il poeta torna poi a rivolgersi a Cacciaguida, dandogli per rispetto del "voi" e non del "tu" come ha fatto prima: una forma di cortesia che fu usata per la prima volta a Roma, nei riguardi di Giulio Cesare, quando prese il potere, secondo la tradizione, e che ora i Romani non seguono più.

    Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie, (Col "voi", che fu offerto per la prima volta a Roma)
    in che la sua famiglia men persevra, (e il cui popolo ora non segue quest'uso,)
    ricominciaron le parole mie; (le mie parole ripresero rivolgendosi (a Cacciaguida)

    L'idea di Dante del "voi" che nacque con l'avvento di Cesare era molto diffusa nel 1300. Ma sembra che questo modo di rivolgersi col "voi" onorifico nacque nel 300. I popoli del Lazio, sin dai tempi di Dante, sono soliti usare del "tu" anche con persone di riguardo; da qui la critica di Dante.

    Nel latino classico, come pure nel greco, non c’erano "forme di rispetto": tutti si davano del tu. Un’eco di quest’uso si nota nella Commedia di Dante, che si rivolge con il tu a quasi tutti i personaggi che incontra, tranne in pochissimi casi, nei quali, in segno di rispetto, Dante tributa il voi: per esempio, Farinata degli Uberti e Brunetto Latini ("Siete voi qui, ser Brunetto?") nell'Inferno; Guido Guinizelli nel Purgatorio; e, ovviamente, Cacciaguida in Paradiso.

    cortesia
    "Tu, voi, lei": tutte forme di cortesia, da rispettare per mantenere il rispetto di se stessi. E non è riservata ai nobili: è richiesta a tutti.



    LA RISATA DI BEATRICE

    Tornando al poema: quando Dante dichiara che si rivolgerà col "voi" a Cacciaguida, Beatrice, che sta un po' in disparte, sorride della debolezza di Dante, e sembra la dama che tossì durante l'incontro fra Lancillotto e Ginevra. Qui Dante fa riferimento alla dama di Malehaut, che, nel romanzo francese di Lancillotto e Ginevra, assiste, non vista, al primo colloquio d'amore fra i due, e allora manifesta la sua presenza tossendo:

    onde Beatrice, ch’era un poco scevra, (allora Beatrice, che stava un po' in disparte,)
    ridendo, parve quella che tossio (ridendo, sembrò colei che tossì)
    al primo fallo scritto di Ginevra. (al primo compromettente incontro di Ginevra con Lancillotto (di cui è scritto nei romanzi francesi.)

    il "primo fallo" della regina è il compromettente incontro, non il bacio, che avviene con Lancillotto ("scritto" vuol dire "narrato"). Inoltre, Dante non ha detto esplicitamente a voce che userà il "voi": l'ha solo pensato. Ma bisogna ricordare che in Paradiso Beatrice può leggere nel pensiero di Dante, quindi aveva già capito la sua intenzione.

    Lancillotto-e-Ginevra
    La regina Ginevra lega il suo fazzoletto al braccio di Lancillotto, prima che parta per la guerra.


    IL COMPLEANNO

    Dante si rivolge all'avo come suo capostipite ("voi siete il padre mio"), e dichiara che quanto gli ha detto (la sua nomina a Cavaliere) lo ha riempito di gioia e d'orgoglio ("voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io": cioè, "voi mi sollevate a tal punto che io sono superiore a me stesso"). Quindi gli domanda chi furono i suoi antenati, cioè le persone che erano state a loro volta gli avi di Cacciaguida. Inoltre, gli chiede in che anno sia nato Cacciaguida.

    A quei tempi, infatti, era più importante la data di morte, in cui si raggiungeva il Paradiso, che la data di nascita. Il compleanno era poco festeggiato, quindi, nel Medioevo. Quello che si festeggiava, piuttosto, era l'onomastico, cioè il giorno in cui si festeggia il Santo del quale si portava il nome.

    Il compleanno, o genetliaco (letteralmente “relativo alla nascita”), nel mondo antico e pagano era, invece, una consuetudine. Non dobbiamo pensare, naturalmente, a una celebrazione simile a quella attuale e diffusa in tutta la popolazione: molto probabilmente, l’usanza di festeggiare il compleanno coinvolgeva solo i cittadini benestanti. Per esempio, nel Vangelo, Salomè aveva danzato durante la festa di compleanno del re Erode.

    Questa usanza scomparve nel Medioevo con l’avvento del Cristianesimo, perchè era considerata un'usanza pagana: inoltre, l’uomo nasce macchiato dal peccato originale, quindi non c'è alcun motivo per festeggiarne la nascita, perchè, anche se la nascita di qualcuno era sempre una gioia, si trattava comunque di entrare nelle tribolazioni e nella battaglia per la propria salvezza. "Vita militia est", "la vita è una battaglia" dice il Libro di Giobbe della Bibbia: questo era il pensiero cristiano. Cioè, la battaglia contro il proprio peccato e per il proprio miglioramento. Sin dal momento della nascita, si inizia a combattere. Quindi non si festeggiava l'inizio della battaglia, ma la sua fine, cioè la vittoria: il giorno della morte, appunto.

    Per questo si festeggiava il giorno della morte, cioè della vittoria sul peccato, soprattutto per i santi: infatti, la data in cui si festeggiano i Santi è la data della loro morte, cioè il giorno in cui erano entrati in Paradiso. Per esempio, Don Bosco è morto il 31 Gennaio 1888 e viene festeggiato appunto il 31 Gennaio. Quindi la morte - quando è buona, cioè si muore in grazia di Dio - anche se è un dolore per gli altri, per chi si è salvato diventa un buon motivo per fare festa.

    La Chiesa, come ho detto, riconosceva solo la celebrazione dell’onomastico, perché commemorava i santi e i martiri. Inoltre, nel Medioevo solo le persone di cultura conoscevano la propria data di nascita, mentre gli altri abitanti spesso ignoravano non solo il giorno, ma persino l’anno nel quale erano nati. A loro, infatti, non importava nulla di sapere quando erano nati: che vantaggio dava il saperlo? Importava piuttosto impegnarsi per salvare la propria anima e andare in Paradiso: cioè, morire bene.

    In parrocchia, più che la data di nascita, si registrava (e si registra ancora adesso) la data di battesimo, cioè il giorno in cui si era entrati a far parte del Corpo Mistico di Cristo, cioè si è diventati cristiani di fatto, e la data della cresima, in cui si confermava in modo consapevole il battesimo ricevuto.

    battesimo
    La data del Battesimo è la data più importante del cristiano, perchè è in quel giorno che diventa cristiano, cioè fa parte del Corpo Mistico di Cristo. E' il primo passo verso la Salvezza.


    Nell'entrata nell'Età Moderna, cioè nell'Umanesimo e Rinascimento ('400-'500), tornò l'interesse per la conoscenza della data di nascita (ma non ancora per la celebrazione del compleanno). Alla base di questo cambiamento fu, purtroppo, il profondo rivolgimento culturale provocato dall’Umanesimo e dal Rinascimento, che fecero aumentare l’attenzione solo per la vita terrena, considerata la sola degna di interesse, trascurando quindi quella eterna, considerata irrilevante. O non c'è, o ci salviamo lo stesso, tanto Dio perdona tutti, si pensava erroneamente. Inoltre, la Riforma protestante, che aveva abolito il culto dei santi, fece perdere valore alla ricorrenza dell’onomastico.

    Intorno al '500, la celebrazione del compleanno si affermò in alcune famiglie aristocratiche europee e, lentamente, raggiunse tutta la popolazione. Nell’800 la consuetudine di festeggiare il compleanno si diffuse in tutta la popolazione dei Paesi occidentali, assumendo gradualmente forme simili a quella attuali.

    La celebrazione divenne popolare in tutti i Paesi occidentali e si sono affermate numerose consuetudini, in primis l’uso delle candeline e la canzoncina “Tanti auguri”. Nel resto del mondo, invece, la celebrazione del compleanno è meno comune: nei Paesi islamici, per esempio, non è accettata, e così pure in Africa e in Cina.

    L'ALTRA RICHIESTA DI DANTE

    Oltre agli avi di Cacciaguida e alla sua data di nascita, Dante gli chiede anche a quanto ammontava la popolazione di Firenze a quei tempi, e quali erano le principali famiglie fiorentine. L'anima di Cacciaguida si illumina per la gioia di rispondere, simile a un carbone avvolto dalla fiamma che si avviva al soffiare del vento. Poi inizia a rispondere alle domande.

    "Ditemi dunque, cara mia primizia, ("Dunque ditemi, caro mio antenato,)
    quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni (chi furono i vostri avi e quali furono gli anni)
    che si segnaro in vostra puerizia; (che si annoverarono nella vostra fanciullezza;)

    Dante chiama Cacciaguida "primizia", "cioè capostipite".

    ditemi de l’ovil di San Giovanni (ditemi quanti erano allora gli abitanti dell'ovile di S. Giovanni (di Firenze)
    quanto era allora, e chi eran le genti (e quali erano le famiglie)
    tra esso degne di più alti scanni." (più ragguardevoli all'epoca.")

    Firenze è chiamata "l'ovile di San Giovanni": infatti, il patrono di Firenze è S. Giovanni Battista, al quale s'intitolava il battistero. Richiama il luogo ("ovile") che consacra i cittadini di Firenze alla fede cristiana (come "pecore che seguono il Buon Pastore"); è anche simbolo di quell'ideale di vita tranquilla che sarà vagheggiata poi da Cacciaguida nel corso del Canto.

    Come s’avviva a lo spirar d’i venti (Come il carbone tra le fiamme diventa più incandescente, se soffia il vento,)
    carbone in fiamma, così vid’io quella (così io vidi quella)
    luce risplendere a’ miei blandimenti; (luce che risplendeva allettata dalle mie parole;)

    Nel seguito ci sarà la risposta di Cacciaguida.

    Edited by joe 7 - 3/3/2024, 18:12
     
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    DANTE, IL PADRE DELL'ITALIANO

    Dante


    Qui interrompo un momento la presentazione della Divina Commedia per chiarire meglio l'importanza di Dante e della sua opera. Prima di scrivere la Commedia, Dante fece il De Vulgari Eloquentia, "L'eloquenza del volgare". Perchè lo fece? Prima bisogna chiarire bene il termine "volgare".

    "VOLGARE": UN TERMINE DA CHIARIRE

    Dire "volgare" oggi significa dire "grossolano, rozzo". Ma questo non c'entra nulla col "volgare" a cui si riferisce Dante: il poeta infatti, con questo termine, si riferisce solo al linguaggio comune, cioè l'italiano puro e semplice.

    Ai tempi di Dante, le opere letterarie erano scritte in latino, la lingua dotta, quindi comprensibile a pochi. Dante, invece, decise di usare il volgare, o meglio l'italiano, per la sua opera, la Commedia. Allora il "volgare", o italiano, era solo la lingua comune usata per le poesie d'amore (come lo Stil Novo), o religiose, o comiche. Era considerata, come diremmo oggi "lingua da fumetto", quindi di poco conto.

    Dante, invece, voleva che il suo poema, anche se si trattava di un'opera monumentale, fosse letto, o ascoltato, dal maggior numero di persone possibile, e per questo utilizzò la lingua comune, italiana, detta allora "volgare", che tutti conoscevano e potevano capire. In questo modo, Dante dimostrò ai letterati "ciò che potea la lingua nostra": cioè, che con la lingua italiana era possibile affrontare qualsiasi argomento, esattamente come col latino.

    Quindi, la sua opera "De vulgari eloquentia", cioè "L'eloquenza della lingua volgare", suona meglio tradotta così: "L'eloquenza della lingua italiana", perchè è proprio di questo che Dante parlava. Il titolo, come si vede, è in latino, e tutta l'opera è stata scritta in latino, proprio per dimostrare ai dotti, usando la loro lingua latina, l'eloquenza dell'italiano comune, qui chiamato "vulgarus". Proprio dopo aver scritto quest'opera, cioè il De vulgari eloquentia, Dante passò dalle parole ai fatti: e infatti iniziò a scrivere la Divina Commedia in italiano. O "volgare", se preferite. Infatti, se avesse voluto scriverla nel dotto latino, avrebbe dovuto intitolarla "Comoedia", come esigeva il latino. Invece, il titolo era un italianissimo "Commedia".

    Di conseguenza, quando parliamo qui di "lingua volgare", parliamo della lingua italiana, esattamente quella usata da Dante nella "Commedia". "Nel mezzo del cammin di nostra vita", per esempio, è scritto in lingua italiana, che allora si chiamava volgare, cioè comune. Certo, qui è usata in modo elegante: Dante usa dei toni poetici, inventa persino delle parole nuove...ma resta il fatto che la Divina Commedia era stata scritta con la lingua di tutti. La lingua "volgare", cioè la lingua italiana. Per questo, Dante è considerato il padre della lingua italiana, perchè le diede dignità: dimostrò che con essa si poteva scrivere un'opera come la Divina Commedia. E dici poco.

    E non si è limitato ad usare un vocabolario popolare: lo ha anche arricchito, inventando parole o espressioni nuove che sono giunte fino a noi e sono di uso quotidiano. Facciamo qualche esempio.

    TREMARE I POLSI

    Quando parliamo di un'impresa così impegnativa da "far tremare i polsi"....stiamo citando Dante, perchè è stato il primo che ha usato quest'espressione, quando si trova davanti alla lupa nella selva oscura (Inferno, Canto 1):

    Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; (Virgilio), vedi la belva che mi ha fatto voltare;)
    aiutami da lei, famoso saggio, (aiutami da lei, famoso sapiente,)
    ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi. (poiché essa fa tremare ogni goccia del mio sangue.)

    jpg


    MI TACCIO

    Quando nei talk show si dice "mi taccio", detto da una persona che ha parlato a lungo, anche questa espressione viene da Dante; all'Inferno, tra gli Eretici, Farinata degli Uberti risponde alle domande del poeta, usando alla fine quest'espressione (Inferno, Canto 10).

    Dissemi: "Qui con più di mille giaccio: (Mi rispose (Farinata): "Qui giaccio con più di mille dannati:)
    qua dentro è ’l secondo Federico, (qua dentro è Federico II di Svevia,)
    e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio". (nonché il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; non ti dico nulla degli altri".)

    INURBARSI

    Molti sono anche i neologismi, cioè le parole inventate da Dante, spesso formati dal prefisso in- seguito da un nome o un aggettivo. Così abbiamo inurbarsi, che significa entrare in città, dal Purgatorio, nella Cornice dei Lussuriosi (Canto 26): lì le anime chiedono a Dante come mai lui è davanti a loro col suo corpo, cosa che non dovrebbe essere possibile nell'aldilà. E la risposta di Dante li stupisce come accade al montanaro, quando giunge in città e ammira muto ciò che non è abituato a vedere:

    Non altrimenti stupido si turba (Queste anime del Purgatorio restano stupite) allo stesso modo di come rimane meravigliato e istupidito)
    lo montanaro, e rimirando ammuta, (il montanaro, e ammira ammutolito (i monumenti cittadini)
    quando rozzo e salvatico s’inurba, (quando rude e selvaggio va in città)

    INGEMMARSI

    Ingemmarsi significa adornarsi luminosamente: anche questa è una parola inventata da Dante. L'ha detta nel Paradiso (Canto 15), riferendosi a Cacciaguida, chiamandolo "topazio" che ingemma la croce di luce che Dante vede nel Cielo di Marte.

    "Ben supplico io a te, vivo topazio ("Ora ti supplico, splendente topazio)
    che questa gioia preziosa ingemmi, (che sei incastonato questo prezioso gioiello (la croce),
    perché mi facci del tuo nome sazio" (di rivelarmi il tuo nome.")

    Croce-di-Marte


    INDIARSI

    "Indiarsi" significa "diventare Dio". Compare nel Canto 4 del Paradiso, durante la spiegazione di Beatrice, in cui dice a Dante che tutti contemplano Dio allo stesso modo, anche se sono presenti in Cieli diversi: sia il serafino più vicino a Dio (che "s'india", appunto), sia Mosè, Samuele, Giovanni Battista o Evangelista, la stessa Vergine Maria, hanno tutti la loro sede nello stesso Cielo (l'Empireo) in cui risiedono tutte le anime.

    D’i Serafin colui che più s’india, (Quel Serafino che è più vicino a Dio,)

    "Indiarsi" è una parola alta come poche altre: significa in primis l’atto di innalzare a Dio, e, per estensione, divinizzare. Per esempio, l’entusiasmo delle critiche più autorevoli può indiare l’opera di uno scrittore, e l’esperienza della conquista di una vetta difficile indía l’alpinista agli occhi del comune mortale.

    BELLA PERSONA

    "Bella persona" viene dal 5° Canto dell'Inferno, pronunciata da Francesca da Rimini, insieme a Paolo, nel girone dei Lussuriosi:

    “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, (“Amore, che subito ("ratto") accende il cuore nobile ("gentile"),
    prese costui de la bella persona (ha fatto innamorare costui (Paolo) del mio bel corpo)
    che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende” (che mi è stato tolto (da Gianciotto, il marito tradito, che l'ha uccisa); e il modo in cui mi fu tolto (l'omicidio) ancora mi ferisce.)

    E' un'espressione con cui Francesca da Rimini si riferisce al proprio corpo, di cui Paolo si innamorò e da cui l’anima è stata violentemente separata con l'omicidio. Dante qui la usa in senso fisico; oggi l’espressione si riferisce invece a chi ha doti morali (generosità, lealtà, ecc.).

    COSA FATTA, CAPO HA

    E' un'espressione presa dall'Inferno, Canto 28, dove ci sono i Seminatori di discordie (Ottavo Cerchio, Nona Bolgia). Uno dei dannati, Mosca dei Lamberti, alza i moncherini delle sue mani mozzate, da cui il sangue ricade sul volto: si presenta a Dante dicendo che la sua colpa fu l'uccisione di un nemico della sua consorteria, cosa che scatenò gravi conseguenze per i Toscani tutti, e aggiunge "Cosa fatta capo ha" cioè, il danno è stato fatto ed è irreparabile.

    gridò: "Ricordera’ti anche del Mosca, (Mosca dei Lamberti) gridò: "Ti ricorderai anche di Mosca dei Lamberti,)
    che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", (che disse - ahimè! - "Cosa fatta capo ha",)
    che fu mal seme per la gente tosca". (che causò tanto male alla gente di Toscana".)

    Era un proverbio toscano, che Dante ha fatto entrare nell’italiano standard: significa che ogni cosa viene fatta con uno scopo, un obiettivo e, una volta fatta, non può più essere disfatta, nè annullata: non si può più tornare indietro. La si usa spesso per mettere fine a discussioni su cose ormai accadute, perché sono inutili.

    GALEOTTO FU

    L'espressione "galeotto fu" è usata adesso per indicare un oggetto, una persona o un avvenimento considerati “scintilla” per la nascita di una relazione amorosa… e non solo. Per esempio: io ho iniziato ad appassionarmi alla lingua inglese grazie alla serie tv Gossip Girl. Perciò, se qualcuno mi chiede “Come mai hai deciso di studiare l’inglese?”, potrei rispondere “Eh… galeotto fu Gossip Girl”.

    Questa espressione è tratta dal Quinto Canto dell'Inferno, tra i Lussuriosi, in cui compaiono Paolo e Francesca: quest'ultima racconta a Dante che loro due erano cognati, e, anche se Francesca era sposata con Gianciotto, si erano innamorati l’uno dell’altra leggendo un libro sulle avventure di Lancillotto e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Galeotto, o Galehaut, era il siniscalco di Ginevra, che faceva da mallevadore ai due amanti del romanzo: tradì Re Artù, spingendo la regina Ginevra tra le braccia di Lancillotto. Nello stesso modo, il libro spinge metaforicamente Francesca tra le braccia di Paolo, facendo nascere la scintilla dell’amore, per la quale saranno uccisi dal marito di Francesca, fratello di Paolo.

    "la bocca mi basciò tutto tremante. ("Paolo) mi baciò la bocca tutto tremante.)
    Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: (Galeotto fu il libro e chi lo scrisse;)
    quel giorno più non vi leggemmo avante". (da quel giorno non leggemmo altre pagine".)

    104a


    IL BEL PAESE

    "Il bel paese" è un'espressione poetica usata ancora oggi per indicare l'Italia. Dante la usa nell'Inferno, al Canto 33, quello del terribile racconto del Conte Ugolino, che i Pisani avevano lasciato morire di fame e di sete, e quindi lui, per fame, probabilmente mangiò i suoi figli. Dante condanna i Pisani per questo atto orribile, confrontandoli col "bel paese" dell'Italia:

    Ahi Pisa, vituperio de le genti (Ahimè, Pisa, vergogna dei popoli)
    del bel paese là dove ’l sì suona, (del bel paese (l'Italia) dove risuona il «sì»,)

    "Risuona il sì" significa che Dante confronta l'italiano, che dice "sì", con le lingue francesi d' "oc" (cioè il "sì" della Francia del Nord) e d' "oil" (cioè il "sì" della Provenza della Francia del sud).

    IL BEN DELL'INTELLETTO

    Quando Virgilio, nel Canto 3 dell'Inferno, porta Dante davanti alla porta dell'Inferno, quella con la famosa frase "Lasciate ogni speranza voi ch'entrate", parla del "ben de l'intelletto":

    "Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto (Noi siamo giunti nel luogo dove, come ti ho detto,)
    che tu vedrai le genti dolorose (vedrai le anime dannate)
    c’hanno perduto il ben de l’intelletto". (che hanno perduto la luce dell'intelligenza divina.")

    "Il ben de l'intelletto" è una perifrasi tradizionale per indicare Dio: infatti, solo Dio, il Sommo Bene, può gratificare ed appagare in pieno la ricerca intellettuale dell'uomo. I dannati hanno perso la possibilità di vedere Dio, Verità suprema e il massimo Bene cui tende l'intelletto umano. Hanno peccato perché non si sono lasciati guidare dalla Ragione, che “naturalmente” indirizza l'uomo a Dio. Oggi questo termine si usa per indicare il ragionamento e la lucidità mentale.

    SENZA INFAMIA E SENZA LODE

    Nel Canto 3 dell'Inferno, nell'Antinferno, Dante vede gli Ignavi, cioè coloro che nella vita non fecero nè il bene nè il male: quindi vissero "senza infamia e senza lode". Oggi l'espressione è usata per indicare qualcosa di mediocre.

    Ed elli a me: «Questo misero modo (Lui (Virgilio) mi rispose: «Questa è la misera condizione)
    tegnon l’anime triste di coloro (delle anime tristi di quelli)
    che visser sanza ’nfamia e sanza lodo. (che vissero senza infamia e senza meriti.)

    STAI FRESCO

    Il termine compare nel Canto 32 dell'Inferno, nel Cocito dei traditori (o meglio, nell'Antenora, dove ci sono i traditori della Patria), dove Bocca degli Abati, scoperto da Dante, è costretto a rivelare la presenza di altri dannati come lui, in particolare Buoso da Duera, che, ironia della sorte, aveva tradito in quel momento proprio Bocca, dicendo il suo nome a Dante: una cosa che lui non voleva rivelare. E, per ripicca, Bocca degli Abati svela il nome di Buoso a Dante, e di altri dannati, che "stanno freschi" nel ghiaccio del Cocito.

    "là dove i peccatori stanno freschi"

    Oggi, dire "stai fresco" è molto comune: indica qualcosa che non accadrà mai e lo si dice per disilludere qualcuno. Indica anche qualcosa che andrà a finire male. Per esempio, Stefania non sa fare i dolci: quando si organizza una cena tra amiche e Stefania dice “Porto io il dolce”, tutte quante pensano: “Ah perfetto, stiamo freschi allora!”

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    NON TI CURAR DI LOR, MA GUARDA E PASSA

    E' una famosa frase detta da Virgilio nel 3° Canto dell'Inferno: si riferisce agli Ignavi nell'Antinferno. Sono rifiutati dal Paradiso perchè non hanno mai fatto il bene, e anche dall'Inferno perchè non hanno mai fatto neanche il male. Costoro, che mai hanno vissuto, perché mai hanno scelto, una volta morti devono inseguire un’insegna, straziati dalle punture di mosconi e vespe. Così, loro, che nella vita non hanno mai inseguito un ideale e non avrebbero mai offerto il proprio sangue per qualcosa, ora devono versarlo per i vermi che sono in terra. Virgilio li descrive sbrigativamente, con disprezzo, senza neanche presentare qualcuno di loro a Dante: non sono neanche degni di essere citati.

    "Fama di loro il mondo esser non lassa; ("Il mondo non lascia che ci sia di loro alcun ricordo;)
    misericordia e giustizia li sdegna: (la misericordia e la giustizia divina li sdegnano: )
    non ragioniam di lor, ma guarda e passa". (non perdiamo tempo a parlare di loro, ma dà una rapida occhiata e passa oltre".)

    Oggi si usa quest'espressione per consigliare di non preoccuparsi dell'opinione comune, o delle calunnie e malvagità altrui. Oppure: “non fare caso alla gente, a quello che la gente dice o fa”.

    FERTILE

    Oggi è un termine molto usato, ma si tratta di un latinismo che allora non era ancora diffuso: "fertile", infatti, deriva dal latino "ferre", che significa "portare, produrre": da qui il significato odierno di "fecondo, produttivo". E' stato detto nel Paradiso, al Canto 11, in cui Tommaso d'Aquino descrive la vita di San Francesco, e, tra le altre cose, descrive il luogo di nascita del santo come una "fertile costa": "fertile" perchè, secondo il latinismo, la "costa" del monte Subasio ha "portato" i natali a San Francesco.

    "fertile costa d’alto monte pende", ("digrada la fertile costiera di un alto monte (il Subasio)"

    Questo latinismo ha raggiunto in modo impressionante il linguaggio comune di oggi.

    MOLESTO

    Anche questo è un latinismo: deriva da "molestus", che deriva a sua volta da "moles", "peso, fardello", presente ancor oggi (es: "ho una mole di lavoro da fare!"). Molesto ha attestazioni fin dal 1200, ma è stato certamente Dante a immettere il vocabolo nel giro della lingua letteraria e a decretarne la fortuna. Dante lo usa diverse volte: tre nell'Inferno e, curiosamente, una in Paradiso, e proprio riferita a lui. La prima è pronunciata da Farinata degli Uberti (Canto 10 dell'Inferno), in cui dice che "forse (io) fui troppo molesto", riferendosi al paese di Firenze. La seconda, nel 13° Canto dell'Inferno, nel girone dei Suicidi, è detta da Pier della Vigna, in riferimento al corpo del suicida, che, dopo il Giudizio, sarà per sempre appeso accanto alla propria anima sofferente, tramutata in albero:

    "Qui le trascineremo, e per la mesta ("Li trascineremo qui (le nostre spoglie, cioè i nostri corpi) e per la triste)
    selva saranno i nostri corpi appesi, (selva saranno appesi,)
    ciascuno al prun de l’ombra sua molesta." (ciascuno all'albero della propria ombra nemica".)

    La terza è nel 28° Canto dell'Inferno, in cui Bertran De Born, tra i Seminatori di Discordie, alza la sua testa decapitata (la pena per loro è essere tagliati in continuazione) e dice quanto è "molesta" la sua pena:

    "Or vedi la pena molesta,
    tu che, spirando, vai veggendo i morti:
    vedi s’alcuna è grande come questa."

    Infine, c'è il termine "molesto" in Paradiso, nel Canto 17, in cui Cacciaguida parla di quanto darà fastidio agli uomini la Divina Commedia:

    "Ché se la voce tua sarà molesta ("Infatti la tua voce, se sarà spiacevole)
    nel primo gusto, vital nodrimento (al primo assaggio, poi lascerà un nutrimento vitale)
    lascerà poi, quando sarà digesta." (quando sarà assimilata.")

    Nel passo del Paradiso "molesto" ha il senso di ‘sgradito, aspro’; nei passi dell’Inferno, invece, ha una connotazione decisamente più negativa che si rifà al significato latino di ‘pesante, gravoso, difficile da sopportare’. Il vocabolo continua ad avere una tradizione vitalissima nel corso dei secoli. Oggi molesto significa "irritante", "fastidioso"

    MESTO

    Anche questo è un latinismo: viene da "maestus" che significa “essere triste, addolorato” ed è introdotto per la prima volta da Dante nell’Inferno, dove indica i peccatori, che sono, ovviamente, “mesti”. Abbiamo già fatto cenno a "mesto" nel discorso del suicida Pier della Vigna, che in quel passo parla sia di "mesto" che di "molesto":

    "Qui le trascineremo, e per la mesta ("Li trascineremo qui (le nostre spoglie, cioè i nostri corpi) e per la triste)
    selva saranno i nostri corpi appesi, (selva saranno appesi,)
    ciascuno al prun de l’ombra sua molesta." (ciascuno all'albero della propria ombra nemica".)

    Ma la prima volta che viene usata è nel primo canto dell'Inferno, in cui Dante parla dei dannati dell'Inferno rivolgendosi a Virgilio, dicendo che lui li descrive come "mesti":

    "e color che tu fai cotanto mesti." ("e coloro che descrivi tanto miseri.")

    E pure nel canto 17 dell'Inferno, dove Dante, mentre attende l'arrivo del demone Gerione, va dove si siedono i dannati, cioè la gente mesta: "dove sedea la gente mesta." Tuttavia nel corso dei secoli "mesto" ha avuto un’attenuazione di significato: da addolorato, triste, oggi significa "triste e malinconico".

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    QUISQUILIA

    "Quisquilia" viene anch'esso dal latino e significa "pagliuzza": Dante usa questo termine nel Canto 26 del Paradiso. Adesso significa “bazzecola, inezia, piccolezza”, ossia questioni di poca importanza. Dante descrive come Beatrice riesce ad eliminare ogni “quisquilia” , pagliuzza" dagli occhi del poeta, cioè ogni impurità, per salvarlo.

    "così de li occhi miei ogni quisquilia / fugò Beatrice"

    LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH'ENTRATE

    Questa espressione è divenuta ormai un proverbio. È l’incisione che si trova sulla porta dell’Inferno (Canto 3), il luogo di pena eterna, e oggi è usata come avvertimento ironico, o con tono amaro, a chi sta per entrare in un luogo o in una situazione che potrebbero rivelarsi pericolosi.

    FATTI NON FOSTE A VIVER COME BRUTI

    “Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza” Queste sono le parole che Ulisse rivolge a i suoi compagni nel canto 26 dell’Inferno, chiedendo loro di pensare alla loro origine: in quanto esseri umani, non sono stati creati per vivere come animali, ma per perseguire obiettivi più nobili, come la virtù e la conoscenza. Usa questa frase per convincerli a superare i limiti del mondo allora conosciuto e andare oltre, per scoprire cose nuove. Oggi, l’espressione è utilizzata con lo stesso significato: è un invito a non comportarsi come bestie, ma seguire la virtù e la scienza come grandi ideali.

    NON MI TANGE

    Questa espressione significa “non mi preoccupa, non mi sfiora nemmeno, non mi interessa”, ed è pronunciata da Beatrice, che era discesa nell’Inferno, più precisamente nel Limbo, dove si trova Virgilio, per mandarlo ad aiutare Dante, perduto nella Selva Oscura. Virgilio le chiede come mai non ha avuto timore di scendere in un posto simile, cioè l'Inferno, e lei risponde che, essendo ormai salva, queste brutture dell'Inferno non la possono nè toccare nè impensierire.

    "la vostra miseria non mi tange"

    Ancora oggi, usiamo scherzosamente quest'espressione per indicare qualcosa che ci interessa poco. Per esempio, se tutti sono preoccupati di sapere chi sarà il vincitore della Champions League al momento della finale, io potrei dire che “la cosa non mi tange”, perché non mi interessa molto il calcio.

    IL FIERO PASTO

    Con quest'espressione indichiamo un pasto bestiale, disumano, assurdo. Infatti, Dante la usa in riferimento al pasto del conte Ugolino (Canto 33 dell'Inferno). Questi, in vita, era stato imprigionato in una torre insieme ai suoi figli e nipoti, condannati lì senza né cibo né acqua. Al momento della fame, però, secondo la leggenda, Ugolino mangiò i corpi dei suoi stessi figli e nipoti. Ecco, quindi, il pasto feroce e disumano.

    IL CASO UNICO DELL'ITALIANO: GRAZIE A DANTE, E' UNA LINGUA NATA SPONTANEAMENTE

    Dante


    Per capire il senso del titolo, devo partire un pò da lontano. Il centralismo, il monolitismo statuale e governativo è un'ossessione giacobina: un solo Stato, una sola Nazione, un solo Governo, un solo Esercito, una sola Lingua, una sola Burocrazia, una sola Capitale. E' questo il programma degli ideologi della Rivoluzione Francese, in contrasto radicale coi tradizionali Regni cristiani, che erano policentrici, che rispettavano l'identità, i costumi, le lingue, i privilegi, i sistemi fiscali delle antiche regioni che li componevano. L'unione avveniva, semmai, nella Corona, cioè nella dinastia regnante: un solo re, "padre di tutti i suoi popoli", ciascuno dei quali con la sua autonomia - e lingua - da rispettare.

    E' la Rivoluzione che distrugge questa ricchezza di culture e pretende di tutto governare da Parigi, dalla quale sono inviati nelle province i rappresentanti onnipotenti del governo che Napoleone chiamerà "prefetti". Si dichiara guerra anche, soprattutto, alle lingue locali, imponendo a tutti quella della Capitale dove risiedono i ministeri.

    Qualcuno si è stupito del ritorno di "localismi" contemporaneamente all'avanzare del processo di unificazione europea. Come mai questo, che sembra un anacronismo? Nessuna sorpresa, se si riflette: la riscoperta della propria identità, della propria "piccola patria", è una reazione comprensibile, del tutto prevedibile, di fronte alla prospettiva di vivere in un mondo indifferenziato, senza la rassicurante persistenza delle proprie tradizioni, del sentimento di far parte di una famiglia umana, circoscritta e riconoscibile. Il "mondialismo" è in realtà una condizione disumana, se intesa come omologazione di tutti a tutto e come cancellazione delle differenze.

    Sta di fatto che l'ex-Unione Sovietica si è poi divisa in una serie di repubbliche; la Jugoslavia pure. La Cecoslovacchia (nazione inventata a tavolino, come la Jugoslavia) si è spezzata in due. Il Belgio non esiste praticamente più, se non per una finzione un pò ipocrita, mentre valloni e fiamminghi vivono da separati in casa. La stessa Gran Bretagna, dopo secoli di coabitazione, vede inglesi, scozzesi, gallesi, nordirlandesi organizzati per vie parallele e non più strettamente unite. Persino in Svizzera, pur già da secoli federale, sembra manifestarsi una separazione tra i quattro gruppi linguistici (tedesco, francese, italiano, ladino) che mette in discussione la tradizionale unità, nelle cose essenziali, tra i cantoni confederati. In Francia, madre del centralismo, bretoni, occitani, alsaziani, lorenesi (oltre, ovviamente, ai còrsi) dopo secoli fanno risentire la loro voce contro il rullo accentratore parigino, chiedendo di ritrovare, almeno in parte, l'autonomia perduta.

    Quell'autonomia è stata concessa con sin troppa liberalità dalla Spagna che, anche per reazione contro il monolitismo franchista, si è riorganizzata in modo pluralista. Alle Autonomias, come vengono chiamate le regioni, sono andate molte competenze che già erano di Madrid, polizia compresa. Ma tanta apertura non è bastata: i più di mille morti provocati dal terrorismo basco sono noti a tutti, ma la Catalogna, la Valencia, le Baleari, pur avendo (almeno sinora) rifiutato la voce della violenza, in realtà, giorno dopo giorno, si sforzano di accentuare la distanza dalla Capitale ufficiale, perseguendo un disegno soberanista, cioè di piena sovranità, con un legame solo formale col resto della Spagna. Quasi altrettanto tenace è la Galizia, ma anche territori come la Navarra e l'Andalusia sopportano con fastidio crescente quanto è definito come "castigliano", cioè di Madrid.

    E l'Italia? Bisogna innanzitutto ricordare che il nostro Paese è caratterizzato da una storia che è, in fondo, il contrario della Spagna. Questa ha avuto una precoce formazione come Stato, ma non è mai riuscita a diventare compiutamente una Nazione. Nel 1469, il matrimonio tra Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia crea un'organizzazione che ha ben poco a che fare con gli stati unitari in senso moderno. Soprattutto, nelle varie zone sopravvivono gli idiomi propri e sarà sempre una frustrata illusione castigliana quella di riuscire ad imporre la propria lingua - pur, in certi periodi, diventata obbligatoria per tutti - sradicando catalano, basco, galiziano. Sempre - e ancora oggi, come rivelano tutte le inchieste - ogni cittadino iberico dichiarerà di sentirsi figlio della sua regione storica, prima che "spagnolo". La bandiera ufficiale dello stato non sventola, malgrado la legge lo preveda, accanto a quella "autonoma" a Barcellona, a Valencia, a Bilbao, a Palma di Maiorca.

    Diverso, se non contrario, il destino dell'Italia. Unificata politicamente ben trecento anni dopo la Spagna, da molti secoli aveva già un'unità nazionale, che gli stranieri ben riconoscevano. Nel mondo, già a partire dal Cinquecento, un "italiano" era riconosciuto e indicato come tale, al di là della frammentazione politica della Penisola. Il segreto italico di una storia, malgrado tutto, comune, nonostante le grandi differenze, di un sentimento nazionale diffuso precocemente (almeno tra le classi colte) pur nello spezzettamento sta nella lingua.

    Talvolta si dimentica che, se in Italia si parla italiano, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di cultura e di governo di ogni angolo di quello che, solo molto tardi, sarebbe divenuto uno Stato. Il francese, lo spagnolo, l'inglese stesso sono stati imposti in modo autoritario a genti che, pur nei confini politici dello stesso Regno, parlavano idiomi diversi. In Italia non ci fu una Parigi, una Madrid, una Londra dove sedesse un Governo che amministrasse con una lingua ufficiale e che con essa imponesse l'insegnamento, oltre che le leggi e i decreti. Da noi, l'idioma comune fu il frutto di una scelta libera: poiché occorreva uno strumento per intendersi tra le varie parti della Penisola, i gruppi politicamente e culturalmente dirigenti finirono coll'accordarsi, prima nei fatti e poi nelle teorie, di letterati e filologi, sulla variante di volgare latino illustrato nel Trecento da una triade sublime: Dante, Petrarca, Boccaccio (e i due sono stati influenzati da Dante)

    E' dunque il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la koinè, la lingua franca per la comunicazione e poi anche quella per la letteratura prima e poi per la cultura in generale, quando il latino fu abbandonato anche dai dotti,. Lingua "democratica", dunque, l'italiano, nel senso che fu scelto e non imposto, se non dal prestigio di una grande cultura. Ma anche, per molti secoli, lingua "aristocratica", nel senso che fu soprattutto scritto e fu parlato nella vita quotidiana quasi soltanto dai toscani. Manzoni, per il suo gran romanzo, dovette praticamente "inventarsi" una lingua colloquiale (ribadendo la scelta del fiorentino) e neanche l'unificazione politica e la scuola elementare obbligatoria riuscirono ad intaccare del tutto i dialetti.

    In Italia fu proprio l'esistenza di un linguaggio comune, anche se usato solo dai gruppi egemoni e in momenti "alti", che contribuì potentemente a creare una coscienza nazionale, ben prima di istituzioni statuali comuni.

    L'italiano come idioma davvero praticato da tutti, o quasi, anche in àmbito familiare nasce coi mass media moderni: la radio, il cinema sonoro e, soprattutto, la televisione. Va riconosciuto: l'Eiar prima e la Rai poi hanno fatto per la nostra lingua (e, dunque, per il sentimento nazionale) infinitamente di più che una lunga serie di scrittori e di ministri dell'istruzione pubblica.

    L'unità di fondo della Penisola, che è stata per tanti secoli divisa, si è riconosciuta in un linguaggio comune, anche se dotto, sufficiente a legare insieme le varie parti. L'italiano è ormai saldamente installato anche nell'espressione quotidiana della maggioranza dei cittadini. Gli stessi Leghisti di un tempo non potevano usare un'altra lingua: non esiste, per esempio, un "lombardo". Anche tra confinanti bergamaschi e bresciani la comprensione è difficile; e il modo dialettale di parlare di un comasco poco ha a che fare con quello di un mantovano. Ed è così per ogni altra regione italiana, anche di quelle che, essendo isolane, sembrano più "unitarie": i "sardi" sono almeno tre se non quattro e così per i "siciliani". E' praticamente impossibile che avvenga uno smembramento dell'Italia a causa dei vari dialetti: il padre Dante, e con lui gli altri grandi "toscani" con lui, garantiranno sempre che il loro popolo sia, malgrado tutto, unito, pur nelle sue infinite, e preziose, diversità.

    BIBLIOGRAFIA

    Vittorio Messori, articolo su Jesus, Gennaio 2003.
     
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    PARADISO CANTO 16 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - CACCIAGUIDA PARLA DELLA DECADENZA DI FIRENZE

    Cacciaguida-2
    Cacciaguida saluta con gioia Dante: in questo Canto parlano dell'amata città di Firenze, ormai rovinata.


    Cacciaguida inizia a rispondere alle domande di Dante (quando è nato, chi sono stati i suoi avi, quali erano le persone importanti a Firenze ai suoi tempi) e lo fa con una voce dolce e soave: parla però in una lingua diversa dal fiorentino moderno (cioè quello ai tempi di Dante, ovvio): un fiorentino antico.

    e come a li occhi miei si fé più bella, (e non appena ai miei occhi (la luce di Cacciaguida) diventò più bella,)
    così con voce più dolce e soave, (con voce pure più dolce e gradevole,)
    ma non con questa moderna favella, (benché non parlasse questo linguaggio moderno,)

    Dante qui vuole spiegare che Cacciaguida sta parlando in un fiorentino che non è il suo, cioè quello "moderno" del 1300 ("moderna favella"), ma piuttosto con una parlata fiorentina più antica e dunque diversa da quella dei suoi tempi, in accordo con quanto lui stesso afferma nel De Vulgari Eloquentia, circa il mutamento della lingua comunemente usata nel corso del tempo. Da notare che "volgare" qui non è detto nel nostro senso dispregiativo, ma nel senso di "lingua comune", quella detta dal "volgo", cioè dalle persone comuni, senza significati dispregiativi. Ne ho parlato qui.

    LA NASCITA DI CACCIAGUIDA

    L'avo spiega che, dal giorno dell'Annunciazione a Maria a quello della sua nascita, il pianeta Marte si è trovato in congiunzione con la costellazione del Leone 580 volte, quindi sono trascorsi 1091 anni.

    dissemi: "Da quel dì che fu detto ‘Ave’ (mi disse: "Dal giorno in cui l'arcangelo Gabriele disse 'Ave' a Maria,)
    al parto in che mia madre, ch’è or santa, (fino a quello in cui mia madre, che ora è santa,)
    s’alleviò di me ond’era grave, (mi partorì,)

    al suo Leon cinquecento cinquanta (questo pianeta (Marte, indicato come "questo foco" nel verso successivo) si è ricongiunto alla costellazione del Leone 550)
    e trenta fiate venne questo foco (e 30 volte (580 in tutto),
    a rinfiammarsi sotto la sua pianta. (riscaldandosi sotto la sua zampa. (quella della costellazione del Leone)

    Perchè Cacciaguida parla di Marte? Perchè siamo nel Cielo di Marte. E perchè Cacciaguida si mette a parlare dell'Annunciazione a Maria? Perchè questo fatto è avvenuto all'inizio dell'anno 1 del nostro calendario (lasciamo stare le discussioni che ci sono al riguardo), visto che, in quel momento, Gesù fu concepito: quindi è la data di inizio della nostra era. Per questo Cacciaguida usa quel momento come punto di partenza per contare gli anni. Ora, visto che Marte, nella sua rivoluzione (cioè il suo girare intorno al Sole) attraversa la costellazione del Leone ogni due anni circa, e che nel momento dell'Annunciazione, secondo Dante, Marte era appunto nella costellazione del Leone, Cacciaguida dice che è nato dopo 580 giri di Marte in quella costellazione: facendo i conti, quindi, Cacciaguida è nato nel 1091.

    GLI AVI DI CACCIAGUIDA

    Riguardo ai suoi avi, Cacciaguida dice ben poco: lui e i suoi antenati nacquero nell'"ultimo sesto" di Firenze, cioè l'ultimo sestiere. Un sestiere è la sesta parte della città: Cacciaguida dice che si tratta del sestiere da dove corre "il vostro annual gioco", cioè il Palio di Firenze. Quindi si tratta della zona di Porta San Pietro, lungo la Via degli Speziali, dove si trova il Mercato Vecchio. E' nella vecchia cinta muraria della città, cosa che prova l'antica nobiltà di Cacciaguida e dei suoi avi.

    1-Mercato-vecchio-prima
    Il Mercato Vecchio prima e il Mercato Vecchio dopo: qui nacquero Cacciaguida e i suoi antenati. Il Mercato Vecchio fu smembrato e demolito nel 1888, in pieno Risorgimento dopo l'Unità d'Italia, in una vergognosa speculazione edilizia. Tutta la popolazione della zona fu evacuata e tutte le proprietà furono espropriate. Demolirono gli edifici del Ghetto, di via degli Speziali e di Calimala. Molte furono le antiche testimonianze architettoniche del passato che furono sacrificate senza pensarci troppo: chiese antiche, case-torri, sedi di Arti. Al suo posto fu realizzata Piazza della Repubblica. È famoso il commento che il pittore macchiaiolo Telemaco Signorini, grande amante degli aspetti pittoreschi e popolari di questa parte di città che soleva ritrarre spesso nelle sue opere, lasciò in risposta a un impiegato comunale, che gli chiedeva se, durante la demolizione del mercato, avesse gli occhi lacrimosi per quelle "porcherie" che venivano giù: "No, piango sulle porcherie che vengono su".


    Inoltre, ai tempi di Cacciaguida non doveva esserci il Palio, visto che lui lo indica come "il vostro annual gioco". Non aggiunge altro, dicendo che basta sapere solo questo: dice che è preferibile tacere chi fossero e da dove venissero i suoi avi.

    Basti d’i miei maggiori udirne questo: (Dei miei avi basti udire questo,)
    chi ei si fosser e onde venner quivi, (poiché chi essi fossero e da dove venissero)
    più è tacer che ragionare onesto. (è più opportuno tacere che non narrare.)

    Cacciaguida vuol dire semplicemente che è più opportuno ("onesto") tacere dei suoi antenati, non che è meglio nascondere qualche fatto poco onorevole.

    LA CAUSA DELLA DECADENZA DI FIRENZE: L'IMMIGRAZIONE

    Ora Cacciaguida risponde all'ultima domanda di Dante: cioè chi erano le famiglie nobili di allora che c'erano a Firenze. Alla sua epoca, gli abitanti che potevano portare armi (la nobiltà, in sostanza) erano circa un quinto di quelli della Firenze attuale, circoscritta "tra Marte e ‘l Batista", cioè dalla zona tra Ponte Vecchio (dov'era il frammento della statua attribuita a Marte), e il Battistero di S. Giovanni: infatti sono le zone che indicano gli estremi nord e sud della vecchia città. E' come se avesse detto "tutta Firenze". Ma, anche se erano meno di adesso, continua Cacciaguida, la popolazione di Firenze era pura fino all'ultimo artigiano e non mescolata a quella del contado, come avviene attualmente. Cacciaguida identifica questo "contado" con la gente di "Campi, di Certaldo e di Fegghine", cioè gli attuali Campi Bisenzio, Certaldo e Figline Valdarno, i paesi della provincia fiorentina.

    Quanto sarebbe meglio, lamenta Cacciaguida, che quelle genti che dico fossero ancora vicine ai confini di Firenze e non facessero parte della cittadinanza, e quanto sarebbe meglio che Firenze avesse ancora il suo confine che aveva prima, presso Galluzzo e Trespiano (erano delle borgate a poca distanza dalla città, che un tempo ne segnavano il confine), invece di ospitare queste persone e sostenere il puzzo del "villano d'Aguglione" (Baldo d'Aguglione, giurista e uomo politico. Nel 1299 fu coinvolto in uno scandalo di corruzione, di cui si parla nel Purgatorio, Canto 12, vv. 104-105) e del villano "da Signa" (Bonifazio di Ser Rinaldo Morubaldini, giurista di parte Bianca, passato poi ai Neri e che contribuì all'esilio di Dante) che ha già l'occhio pronto a compiere baratterie (corruzioni).

    Cacciaguida ce l'ha anche con la Chiesa: se non avesse ostacolato l'autorità di Cesare (l'Imperatore tedesco), dei bifolchi non sarebbero diventati dei cittadini di Firenze. Cittadini "fiorentini" che adesso esercitano il cambiare valute e il mercanteggiare ("cambia e merca"). Fiorentini che sarebbero rimasti a "Simifonti", dove i loro avi andavano a chiedere l'elemosina o a trafficare. Simifonti (oggi Semifonte) è un castello della Val d'Elsa, un'area della provincia di Firenze. Dante intende dire che, se la Chiesa non avesse usurpato l'autorità imperiale facendo come voleva, questi villani sarebbero rimasti lì dove andava "l'avolo alla cerca", cioè dove i loro avi chiedevano l'elemosina oppure vendevano la merce.

    Se la Chiesa non avesse fatto così, continua Cacciaguida, Montemurlo sarebbe ancora dei conti Guidi (cioè: il castello di Montemurlo, che apparteneva ai conti Guidi, era un avamposto difensivo medievale: fu però ceduto a Firenze, inurbandosi e perdendo la sua funzione di difesa); inoltre, i Cerchi sarebbero ancora nel piviere di Acone (i Cerchi erano una famiglia di mercanti che provenivano dal piviere - cioè gruppo di parrocchie - di Acone in Val di Sieve, fuori da Firenze: invece, sempre "per colpa della Chiesa", questi mercanti dei Cerchi erano entrati in Firenze), e forse i Buondelmonti sarebbero rimasti in Val di Greve (i Buondelmonti avevano un castello in Val di Greve che fu distrutto da Firenze, per cui essi si trasferirono in città: altri "estranei").

    Montemurlo
    Il Castello di Montemurlo, nel Comune omonimo, in Provincia di Prato. Sorto come avamposto difensivo nel Medioevo, appartenne alla famiglia Guidi. Fu trasformato in un complesso residenziale e signorile alla metà del '500.



    UNA SPIEGAZIONE NECESSARIA

    Ora, l'argomento non è chiaro: che c'entra la Chiesa con l'arrivo dei nuovi fiorentini? Dante vuol dire che si trattava di una falsa visione di misericordia che aveva la Chiesa, o meglio gli uomini di Chiesa (bisogna sempre specificarlo: la Chiesa è una cosa, gli uomini di Chiesa un'altra) in cui si era voluto far entrare in Firenze tutti quanti, buoni e cattivi, senza nemmeno valutarli. Questa visione "pauperistica" della Chiesa (molto simile alla Chiesa di oggi, compresi i Governi, cioè il Cesare di oggi, che sostengono la libera immigrazione, facendo entrare chiunque, delinquenti e persone normali), fu dannosissima allora per Firenze come lo è oggi per l'Italia e per il mondo.

    E cosa c'è di male nel cambiare valuta e fare i mercanti? Di per sé, niente. Ma sono lavori che possono favorire la tentazione del "guadagno facile", cioè il vendere e scambiare delle cose di poco valore per cose di grande valore, facendo così le scarpe agli altri. Insomma, il commercio e lo scambio di denaro è una forte tentazione per la furbizia. E anche per diventare avidi e gretti. Guadagnare soldi senza fatica, in questo modo, per la visione cristiana non è accettabile. Non ti permette di vivere in modo sano. E questo spiega perchè le scommesse, il totocalcio, la schedina, il gioco e cose simili non sono cose accettabili dal punto di vista cristiano: perchè sono guadagni facili, ottenuti senza sudore nè sacrificio, che non ti permettono di amministrarli bene, facendoli solo sprecare. Facile avuto, facile perduto, dice il proverbio; inoltre, in questo modo, non si vive in modo sano. Una scommessa di poco conto in una partita a carte, per esempio, ci può stare: ma se si passa il tempo nelle sale da gioco è invece un brutto affare.

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    L'industriale Fujido del Grande Mazinga è un esempio del livello a cui si può arrivare col commercio avido e senza morale.



    CACCIAGUIDA CONDANNA L'IMMIGRAZIONE SELVAGGIA

    E Cacciaguida conclude, dicendo quanto sia dannosa l'immigrazione selvaggia:

    Sempre la confusion de le persone (Sempre la mescolanza delle genti)
    principio fu del mal de la cittade, (ha causato il male delle città,)
    come del vostro il cibo che s’appone; (come l'aggiunta di cibo ad altro cibo non digerito è fonte di malanni;)

    e cieco toro più avaccio cade (e un toro cieco cade più presto)
    che cieco agnello; e molte volte taglia (di un cieco agnello; e spesso taglia)
    più e meglio una che le cinque spade. (una sola spada più e meglio di cinque spade assieme.)

    Cioè: un toro cieco è la potente Firenze che non vede il danno che porta l'immigrazione; e una sola spada, cioè l'immigrazione selvaggia, sempre costante e mai ferma, porta più danni di cinque spade, che vengono da parti diverse e non vanno a fondo come l'altra. In sostanza, la mescolanza delle genti provoca sempre il male delle città (e delle nazioni, possiamo aggiungere).

    Cacciaguida dice poi a Dante che, se vede come sono cadute in rovina Luni e Orbisaglia (città disabitate e in rovina ai tempi di Dante), e che Chiusi e Senigallia stanno per fare la stessa fine (a causa del clima malarico della zona), non gli sembrerà una cosa inaudita, o difficile da credere, il vedere come le casate vadano in decadenza, dal momento che anche le città hanno una fine. Tutte le cose terrene hanno una fine, anche se gli uomini non sempre lo capiscono, perchè alcune cose hanno una lunga durata, mentre la vita umana ha una vita più breve: quindi quelle cose sembra che durino di più solo perchè l'uomo muore prima di esse.

    Le vostre cose tutte hanno lor morte, (Le cose terrene sono tutte mortali,)
    sì come voi; ma celasi in alcuna (proprio come voi; ma ciò è meno visibile in alcune cose)
    che dura molto, e le vite son corte. (che durano molto, mentre la vita umana è assai più breve.)

    Cacciaguida continua: e come la Luna, con le sue fasi lunari, copre e scopre senza sosta le spiagge con le maree, così la Fortuna fa con le sorti di Firenze. Quindi non ti deve sembrare una cosa strana quello che adesso dirò delle grandi famiglie fiorentine, la cui fama ora è stata cancellata dal tempo.

    LE ILLUSTRI FAMIGLIE FIORENTINE

    Nobilt-fiorentina
    La nobiltà ai tempi della Firenze di Cacciaguida.


    Cacciaguida passa in rassegna le principali famiglie fiorentine, già in decadenza ai suoi tempi, nonostante fossero ancora illustri: parla degli Ughi e dei Catellini, i Filippi, i Greci, gli Ormanni e gli Alberighi che erano illustri cittadini, già allora quando declinavano; e vide famiglie anticamente potenti, come i Sannella, i dell'Arca, i Soldanieri, gli Ardinghi e i Bostichi. Presso Porta San Pietro, che ora è deturpata dalla viltà dei Cerchi (che tradirono Firenze), un tempo abitavano i Ravignani (un'importante famiglia fiorentina), da cui erano discesi il conte Guido Guerra (uno dei tre sodomiti fiorentini visti nel 16° Canto dell'Inferno) e Bellincione Berti, che fu poi capostipite dei Bellincioni.

    Un'altra famiglia fiorentina citata da Cacciaguida è quella della Pressa, che sapeva già come governare ("sapeva già come / regger si vuole"), segno che era stata una famiglia di grande autorità. Poi quella dei Galigai, che avevano già in casa l'elsa e l'impugnatura della spada dorata (cioè, erano cavalieri).

    Poi Cacciaguida cita a ruota libera molte altre famiglie:
    - i Pigli, una famiglia assai insigne con "la colonna del Vaio", cioè la striscia di vaio. Si tratta dello stemma di famiglia, che era una striscia verticale ("colonna") del vaio (che è la pelliccia dello scoiattolo) in campo rosso.
    - i Sacchetti, i Giuochi, i Fifanti, i Barucci, i Galli
    - i Chiaramontesi, detti "quei ch’arrossan per lo staio.", cioè che "arrossiscono per la frode dello staio": furono coinvolti infatti in uno scandalo. Durante Chiaramontesi, frate della penitenza, fu sovrintendente per la vendita del sale e alterò la misura ufficiale dello staio, togliendo da esso una doga di legno e arricchendosi: fu condannato a morte.
    - i Donati, il ceppo da cui nacquero i Calfucci;
    - i Sizi e gli Arrigucci erano già condotti a coprire alte cariche politiche;

    Poi passa alla famosa famiglia ghibellina degli Uberti (quella di Farinata), che fu rovinata dalla loro superbia (furono banditi da Firenze), e quella dei Lamberti, il cui stemma delle palle d'oro rendeva illustre Firenze in tutte le sue imprese. Ora sono entrambe estinte, e anche i Lamberti furono poi banditi da Firenze.

    Fecero una brutta fine anche gli avi dei Visdomini e dei Tosinghi, che ora approfittano del fatto che la sede vescovile è vacante per arricchirsi. Cacciaguida condanna anche la famiglia di Filippo Argenti, il dannato che Dante aveva incontrato nel Canto 8 dell'Inferno (gli Iracondi immersi nello Stige): si tratta della famiglia degli Adimari, "l’oltracotata schiatta", cioè la tracotante famiglia, pronta a infierire sui deboli ma servile verso i potenti. A quel tempo stavano crescendo, pur avendo umili origini.

    Già si erano inurbati da Fiesole (quindi non erano fiorentini) i Caponsacchi, come pure i Giudi e gli Infangati. Anzi, sembra incredibile, ma nell'antica cinta muraria si entrava attraverso una porta intitolata alla famiglia della Pera (famosi banchieri).

    Coloro che si fregiavano dell'insegna di Ugo di Toscana ebbero da lui la dignità cavalleresca, anche se uno di loro (Giano della Bella) oggi parteggia per il popolo, dice Cacciaguida. A dirlo sembra una cosa buona, ma qui Cacciaguida intende il comportarsi in modo populista (atteggiamento ideologico che esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi).

    Cacciaguida parla delle famiglie dei Gualterotti e degli Importuni e Borgo Santi Apostoli (un'antica strada di Firenze) sarebbe stata più tranquilla, se non avesse acquistato dei nuovi vicini. A quei tempi, la casata degli Amidei, sempre in quella zona, era onorata: ma fu da lì che nacquero le disgrazie di Firenze, a causa della giusta indignazione per quello che fecero i Buondelmonti - "i nuovi vicini" di cui parlava Cacciaguida - che ha mandato in rovina ("v'ha morti") la città e pose fine al vivere lieto dei Fiorentini. O Buondelmonte, quanto male facesti a fuggire le nozze con una giovane degli Amidei, seguendo i consigli altrui! Infatti, Buondelmonte dei Buondelmonti rifiutò di sposare una degli Amidei, che forse aveva già compromesso.

    o Buondelmonte, quanto mal fuggisti (o Buondelmonte, quanto male facesti a sfuggire)
    le nozze sue per li altrui conforti! (le nozze con una giovane di quella famiglia, seguendo i consigli altrui!)

    Infatti, per questo gli Amidei lo uccisero e da lì si scatenarono le guerre intestine tra Guelfi e Ghibellini, che lacerarono Firenze. Cacciaguida si lamenta addirittura che il Buondelmonti non sia morto prima: se Dio lo avesse fatto annegare nel torrente Ema quando si era inurbato (cioè entrato ad abitare a Firenze), questo avrebbe evitato a Firenze tanti lutti e ci sarebbe stata molta gioia.

    Molti sarebber lieti, che son tristi, (Molti che oggi sono tristi sarebbero lieti)
    se Dio t’avesse conceduto ad Ema (se Dio ti avesse annegato nell'Ema,)
    la prima volta ch’a città venisti. (la prima volta che ti inurbasti a Firenze.)

    Invece fu destino che egli fosse assassinato, proprio il giorno di Pasqua, presso il frammento della statua vicino a Ponte Vecchio: fatto che scatenò le guerre civili.

    Cacciaguida conclude, dicendo di essere vissuto a Firenze con queste famiglie, in una città tranquilla e pacifica, che non aveva motivo di lamentarsi. Il popolo fiorentino, a quel tempo, era giusto e glorioso, tanto che la città non subì alcuna sconfitta militare: " ‘l giglio / non era ad asta mai posto a ritroso": qui si allude all'usanza di allora di trascinare lo stemma della città vinta in battaglia, con l'asta rovesciata: cosa che secondo Cacciaguida non accadde mai al giglio di Firenze, il suo stemma. Né allora l'insegna cittadina era ancora diventata rossa di sangue per le divisioni interne.

    COMMENTO

    Questo Canto è il secondo momento del trittico dedicato all'incontro con Cacciaguida, che nel Canto successivo dovrà svelargli l'alta missione di cui è investito dalla Provvidenza: cioè scrivere la Divina Commedia. Infatti, questo incontro è collocato proprio al centro della Cantica del Paradiso per la sua importanza, ed è caratterizzato da una certa elevatezza di stile.

    Questo Canto, però, è meno sostenuto degli altri, perchè il discorso è più generale e verte sulla decadenza morale di Firenze, di cui vengono messe in luce le cause: prima di tutto, la venuta delle genti non fiorentine e non abituate al pensiero nobile dei Fiorentini, cioè le arti, la cultura, il rispetto dell'altro, la cura delle proprie tradizioni. Tutta paccottiglia per i nuovi arrivati, ai quali interessavano solo il denaro, il guadagno, il possesso, e ogni furberia. Da qui la corruzione e il degrado.

    Questa affermazione era già stata detta da Brunetto Latini nell'Inferno, Canto 15 e soprattutto da Dante stesso nel Canto 16 dell'Inferno, quando aveva spiegato ai tre sodomiti fiorentini che la causa della corruzione morale della città erano la "gente nova" e "i sùbiti guadagni" (cioè, i guadagni facili, che sono sempre disonesti), che avevano generato orgoglio e dismisura.

    Dante dice che, anticamente, la popolazione fiorentina era pura, perchè discendeva dai Romani, che avevano fondato la città dopo la distruzione di Fiesole. I fiorentini furono poi mescolati ai superstiti della stessa Fiesole, che non erano altrettanto nobili: poi, nel corso del Duecento, i nuovi venuti dal contado, Fiesolani e altri, avevano provocato una vera confusione di genti, che è stata la causa di tutti i mali della città. Infatti, come avevo detto prima, i nuovi venuti si dedicavano soprattutto al commercio e al cambio di valuta, dunque ad attività fondate sullo scambio di denaro e sul guadagno facile, diffondendo col proprio esempio l'avidità e la corruzione, fonte prima delle discordie civili, che insanguinarono Firenze nel primo Trecento e portarono all'esilio dello stesso poeta.

    Dante qui scrive parole durissime contro l'immigrazione e contro la Chiesa, (oggi si scaglierebbe anche contro i governi) che si rende complice di questa tratta di uomini.

    Qui si è accusato Dante di razzismo: ma quello che lui dice ha un valore simbolico molto alto. Infatti, trascurare la propria religione, la propria tradizione, la propria lingua, il proprio paese, la propria cultura, non farà altro che far venire da fuori gente a cui della religione, tradizione, lingua, importerà meno di niente, e il loro solo interesse sarà occupare la terra dove sono arrivati e scacciare via gli altri, oppure scontrarsi con loro, oppure sottometterli. E' una situazione molto attuale, di cui nessuno se ne rende conto; e chi se ne rende conto, teme di essere tacciato di razzismo e sta zitto. Ma il problema non sono tanto gli immigrati, quanto il fatto che gli stessi popoli che vivono nei paesi dove vanno gli immigrati trascurano la propria fede e le proprie tradizioni. E chi semina vento, raccoglie tempesta.

    Cacciaguida fa un lungo elenco di nomi di famiglie nobili fiorentine, molte delle quali a noi sconosciute: tuttavia, rappresentano degli esempi della transitorietà della gloria terrena (quante sono le persone famose che avete conosciuto tempo fa e che adesso non solo non ci sono più, ma non se ne parla nemmeno? Parecchie, immagino), nonché della nobiltà di sangue che all'inizio Dante aveva definito "poca" e che è destinata a scomparire, se non è accompagnata da un agire virtuoso.

    Tra gli esempi fatti da Cacciaguida, i più evidenti sono quello degli Uberti, la grande famiglia ghibellina di Farinata (Canto 10 dell'Inferno), che fu cancellata da Firenze, e quello dei Buondelmonti, che, a causa dell'oltraggio a una fanciulla degli Amidei, avevano originato le divisioni politiche nella città. Anzi, la figura di Buondelmonte dei Buondelmonti, che ruppe la promessa di matrimonio e fu ucciso nell'ambito di una vendetta familiare, diventa quasi emblematica della decadenza morale della città, in quanto l'uomo apparteneva a una famiglia inurbatasi a Firenze in tempi antichi. La sua uccisione fu l'inizio delle discordie intestine che poi avrebbero insanguinato Firenze, alimentate da superbia, invidia e avarizia, come detto da Ciacco nel 4° Canto dell'Inferno. Cacciaguida conclude la rassegna con questo sinistro presagio, precisando che la Firenze in cui lui ha vissuto era molto diversa e godeva di una pace duratura, prevalendo sempre sui suoi nemici e mantenendo intatta la sua gloria, cosa che non si può certo dire della città dalla quale Dante è stato esiliato.

    jpg
    Farinata, della nobile famiglia degli Uberti, che Dante incontra tra gli Eretici all'Inferno.



    LA GENTE NOVA E I "SUBITI GUADAGNI": DANTE CONTRO LA CIVILTA' MERCANTILE

    Dante si scaglia anche contro la civiltà dei Comuni, che a quei tempi si stava sviluppando: una civiltà tutta fondata sul commercio e sulla circolazione del denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale (abbiamo già spiegato prima il motivo). Questo sembra strano e inspiegabile per noi, che anzi ammiriamo il commercio e la figura del commerciante: ma lo era anche allora, visto che lo stesso Boccaccio, oltre a essere grande ammiratore e contemporaneo di Dante, esaltava proprio la figura del mercante.

    Dante indica l'avidità di guadagno e la cupidigia come le fonti della corruzione e del disordine, sia politico, che morale e culturale, che affliggeva l'Italia del Trecento, bollando la circolazione del denaro - che da lì iniziò a circolare in quantità altissime: oggi ci sono dei miliardari che potrebbero comprare intere nazioni - come il fattore destinato ad alimentare le ingiustizie. Nel Paradiso (Canto 9), Folchetto di Marsiglia si scaglia proprio contro "il maladetto fiore", cioè la moneta del fiorino, diffusa in Europa proprio dai banchieri di Firenze, che finanziavano le monarchie e corrompevano gli uomini di Chiesa.

    E il denaro è stato causa della rovina della stessa Firenze (simbolo del mondo civile e cristiano), da cui sono scomparsi onore e cortesia, a causa della "gente nova" e i "sùbiti guadagni", ovvero la propensione agli affari e alle corruzioni da parte dei contadini inurbatisi in città, diffondendo a Firenze il degrado morale.

    Il mercante, dice Dante, spesso cerca di lucrare (cioè guadagnare in modo illecito) attraverso l'uso del denaro; è portatore di qualità negative come l'astuzia e l'occhio aguzzo; tenta di ottenere un guadagno spesso raggirando il prossimo. Tutte caratteristiche che Boccaccio e il Trecento esaltavano, in quanto appartenenti a una mentalità più simile alla nostra. E' il lato oscuro del commercio, che Dante vuole mettere in evidenza. L'avidità di denaro infatti porta gli uomini a compiere ogni sorta di misfatto, e ciò è fonte di sofferenza per tutti quelli che, come lui, si battono per il bene e per la corretta applicazione delle leggi. Se il denaro è fonte del male, allora Dante tuona contro tutti coloro che ne fanno un idolo.

    BIBLIOGRAFIA
    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xvi.html

    Edited by joe 7 - 17/3/2024, 16:12
     
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    PARADISO CANTO 17 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - CACCIAGUIDA PROFETIZZA L'ESILIO A DANTE

    DANTE-TOMBA-2
    La tomba di Dante a Ravenna. E' posta presso la Basilica di San Francesco. E' un monumento nazionale, e attorno ad essa è stata istituita una zona di rispetto e di silenzio, chiamata "zona dantesca". Sul letto di morte, il 13-14 Settembre 1321, Dante volle essere vestito col saio francescano e scelse come luogo di sepoltura il convento dei Frati Minori. A destra della tomba c'è una colonnina di alabastro del Carso, con una ghirlanda d'argento donata dalla città di Fiume: regge un'ampolla argentea donata nel 1908 dalle città di Trieste, Trento, Gorizia e dalle provincie dell'Istria e della Dalmazia, territori a maggioranza italiana: italiani che conobbero, dopo la Seconda guerra Mondiale, la terribile deportazione comunista e l'atroce morte delle foibe. Sul soffitto arde perennemente una lampada votiva, alimentata dall'olio d'oliva dei colli toscani, offerto da Firenze ogni anno, la seconda domenica di Settembre, in memoria dell'anniversario della morte del poeta.


    DANTE CHIEDE A CACCIAGUIDA NOTIZIE SULLA SUA VITA FUTURA

    Qui Dante si paragona al mito di Fetonte: era il figlio di Apollo e Climene. Un giorno, Fetonte fu deriso dal compagno Epafo, che non credeva che lui fosse davvero figlio di Apollo. Fetonte, allora, si rivolse alla madre Climene, per avere rassicurazioni. Lei gli confermò che era davvero il figlio di Apollo, il dio che trasporta ogni giorno il Sole sul carro. In seguito, lo stesso Apollo, per confermare la sua paternità, permise al figlio Fetonte di guidare il carro del Sole per un giorno. Ma lui non riuscì a dominare i cavalli e combinò dei disastri tali che fu fulminato da Giove e cadde nel fiume Eridano, dove morì annegato. Per questo, Fetonte, come dirà Dante, è esempio di come i padri debbano essere "scarsi", cioè non condiscendenti, coi figli.

    FETONTE
    La caduta di Fetonte


    Qual venne a Climené, per accertarsi (Come colui (Fetonte) che andò dalla madre Climene per avere rassicurazioni,)
    di ciò ch’avea incontro a sé udito, (su quanto aveva udito contro di sé)
    quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; (che ancora oggi induce i padri a non essere condiscendenti,)

    tal era io, e tal era sentito (così ero io, e così ero percepito)
    e da Beatrice e da la santa lampa (sia da Beatrice sia dalla santa luce (Cacciaguida)
    che pria per me avea mutato sito. (che prima aveva cambiato posizione (si era spostato dalla luminosa Croce del Cielo di Marte) per me.)

    Beatrice invita Dante a manifestare il suo pensiero: non perché le anime non possano conoscerli, ma affinché il poeta si abitui a esprimerli liberamente con la sua bocca, così che i suoi desideri vengano esauditi. Dante si rivolge allora a Cacciaguida, chiamandolo "O cara piota mia che t'insusi": "piota" vuol dire "pianta del piede", quindi, per estensione, "radice", "avo"; "t'insusi" significa "t'innalzi": è un neologismo (parola inventata) dantesco. E gli dice che Cacciaguida si innalza a tal punto che, come le menti terrene vedono che in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi (cosa geometricamente impossibile), così lui, Cacciaguida, vede le cose contingenti (cioè gli avvenimenti) prima che accadano, perchè osserva nella mente di Dio, in cui tutto è un eterno presente.

    Ebbene, il suo avo certamente sa che lui, guidato da Virgilio, aveva sentito, sia all'Inferno che in Purgatorio, delle oscure profezie sul suo conto (quelle sull'esilio), per cui il poeta vorrebbe avere maggiori ragguagli sul destino ("fortuna") che lo aspetta. Infatti, anche se lui è preparato ai colpi della sorte...una sciagura prevista è più facile da affrontare di una imprevista: "saetta previsa vien più lenta", cioè "una freccia prevista arriva più lentamente". Dante, in questo modo, obbedisce a Beatrice e rivela ogni suo dubbio all'anima del suo antenato.

    CACCIAGUIDA PARLA CHIARO

    Cacciaguida risponde splendendo nella sua luce, con un discorso chiaro e perfettamente comprensibile: e non con parole tortuose e oscure ("ambage") tipiche degli oracoli dei pagani ("la gente folle") dei tempi prima della crocifissione di Gesù Cristo.

    Né per ambage, in che la gente folle (non con parole tortuose, in cui i pagani)
    già s’inviscava pria che fosse anciso (si invischiavano ben prima che fosse crocifisso)
    l’Agnel di Dio che le peccata tolle, (l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Cristo) (curiosamente, questo è il 33° verso di questo Canto: e la vita di Cristo, tradizionalmente, è stata di 33 anni)

    ma per chiare parole e con preciso (ma con parole chiare e con un limpido)
    latin rispuose quello amor paterno, (discorso mi rispose quel padre amorevole) (nota: qui il latino non c'entra: Cacciaguida non sta parlando in latino, ma in toscano antico)
    chiuso e parvente del suo proprio riso (avvolto e splendente nella luce del suo sorriso)

    CENNI DI CACCIAGUIDA ALLA PRESCIENZA DIVINA

    Prima di rispondere, Cacciaguida spiega che il suo leggere il futuro non è leggere quello che dovrà necessariamente accadere perchè così "è scritto": quello che accadrà sarà sempre frutto della libera scelta dell'uomo. E Dio ha già tutto - passato, presente, futuro - davanti a Sè, e di questa visione ha parte Cacciaguida: ma non è come uno che dice cosa accadrà, come fa per esempio il regista di un film, che usa i personaggi come vuole lui. Piuttosto, Dio vede quello che accadrà per la libera scelta degli uomini. E' il mistero dell'Onnipotenza divina e della libertà umana, che si incontrano.

    "La contingenza, che fuor del quaderno ("Gli eventi contingenti (cioè quelli che accadono), che al di fuori dell'estensione)
    de la vostra matera non si stende, (del vostro mondo terreno non si estendono,) (cioè: gli eventi futuri, che non si possono prevedere)
    tutta è dipinta nel cospetto etterno: (sono tutti dipinti nella mente di Dio:)

    necessità però quindi non prende (essi però non sono per questo necessari,) (cioè: non sono eventi che devono obbligatoriamente accadere)
    se non come dal viso in che si specchia (come non lo è il fatto che solo perché qualcuno la osserva)
    nave che per torrente giù discende. (una barca scenda la corrente.) (cioè: l'osservatore osserva la barca che va, ma la barca non va perchè la vede l'osservatore. Va per conto suo, l'osservatore la vede soltanto)

    Da indi, sì come viene ad orecchia (Da lì (dalla mente divina) come viene all'orecchio)
    dolce armonia da organo, mi viene (la dolce armonia di un organo, viene a me)
    a vista il tempo che ti s’apparecchia. (la vista del tempo (futuro) che si prepara per te.)

    Il beato spiega, insomma, che tutti i fatti contingenti, presenti e futuri, sono già scritti nella mente divina: il che non implica che debbano accadere necessariamente, come l'occhio che osserva una nave scendere la corrente di un fiume sa che questo avverrà, ma non lo rende per ciò inevitabile. Allo stesso modo, spiega Cacciaguida, egli prevede il tempo futuro di Dante, come la dolce musica di un organo giunge alle orecchie umane.

    L'ESILIO DI DANTE

    Dante, profetizza l'avo, dovrà abbandonare Firenze, allo stesso modo in cui Ippolito dovette partire da Atene per la malvagità della sua matrigna Fedra. Cacciaguida fa riferimento al mito di Ippolito, figlio di Teseo, che respinse le profferte amorose della matrigna Fedra e fu da lei accusato di fronte al padre di averla violentata. Questi credette alla moglie e cacciò ingiustamente il figlio da Atene. E' probabile che qui Dante paragoni Firenze a Fedra, indicandola cioè come città «matrigna».

    IPPOLITO-E-FEDRA
    Ippolito accusato da Fedra, accanto alla quale è seduto il marito Teseo. Ippolito nega l'accusa, ma la condanna è inevitabile. Fedra ha in mano una spada, segno del suo suicidio: infatti si ucciderà come "prova" della verità di quello che ha detto.


    Il complotto dell'esilio è già in corso (il personaggio di Dante nella Commedia non è ancora stato esiliato, a differenza del Dante reale), nella Curia dove "ogni giorno si mercanteggia Cristo" (cioè le cose sacre). Gli uomini di Chiesa avevano infatti complottato per favorire la presa del potere dei Guelfi Neri a Firenze. Non è necessario pensare che Dante attribuisca direttamente a papa Bonifacio VIII la volontà di esiliarlo, dai versi qui sotto:

    e tosto verrà fatto a chi ciò pensa (e questo sarà presto compiuto, da chi pensa a ciò)
    là dove Cristo tutto dì si merca. (là (nella Chiesa) dove si mercifica Cristo (le cose sacre) ogni giorno.)

    Come si vede, non si fa cenno al Papa, ma solo alla Curia e agli uomini di Chiesa, anche se un riferimento in tal senso non si può escludere del tutto. La colpa dell'esilio sarà poi imputata ai vinti, così come di solito avviene (la storia è sempre raccontata dai vincitori): Dante, infatti, ufficialmente sarà esiliato per punizione per aver fatto degli atti di corruzione. Ma ben presto la punizione divina verso i Fiorentini dimostrerà la verità dei fatti (infatti, tutti oggi sanno che Dante fu ingannato). Dante, tuttavia, dovrà lasciare ogni cosa più amata, e questo costituirà la prima pena dell'esilio:

    Tu lascerai ogne cosa diletta (Tu lascerai ogni cosa che ami)
    più caramente; e questo è quello strale (di più; e questa è la pena)
    che l’arco de lo essilio pria saetta. (che l'esilio fa provare per prima.)

    Successivamente, Dante proverà com'è duro accettare il "pane altrui", mettendosi al servizio di vari Signori:

    Tu proverai sì come sa di sale (Tu proverai come è amaro)
    lo pane altrui, e come è duro calle (il pane altrui, e come è duro)
    lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. (salire e scendere le scale altrui (accettare l'aiuto dei potenti).

    Ciò che gli sarà più fastidioso sarà la compagnia di altri esuli come lui ("compagnia malvagia e scempia", cioè folle). Infatti, diventeranno tutti ingrati, stupidi e ingiusti ("compagnia...tutta ingrata, tutta matta ed empia") contro il poeta. Ma, poco dopo, saranno loro, e non Dante, ad avere le "tempie rosse di sangue e di vergogna": quello che accadrà dimostrerà infatti la loro follia. Cosicché, conclude Cacciaguida, sarà stato un bene, per Dante, essersene separato.

    Dante qui fa riferimento alla battaglia della Lastra (località vicino a Firenze): laggiù, il 29 luglio 1304, i fuoriusciti fiorentini di parte Bianca, come Dante, vi si radunarono, tentando di rientrare a Firenze con le armi. Ma il tentativo fallì miseramente. Dante non aveva preso parte alla battaglia.

    PROFEZIE SU CANGRANDE DELLA SCALA

    CANGRANDE
    Statua equestre di Cangrande della Scala, signore scaligero di Verona, condottiero e mecenate. Oltre a Dante, ospitò anche Giotto.


    Dante troverà anzitutto rifugio a Verona, sotto la protezione di Bartolomeo Della Scala ("il gran lombardo"), che, sullo stemma della casata, reca l'aquila imperiale ("il santo uccello"). Egli sarà così benevolo verso il poeta che gli concederà i suoi favori senza bisogno di ricevere richieste.

    A Verona, Dante vedrà il fratello minore di Bartolomeo, Cangrande della Scala1, che alla nascita è stato fortemente influenzato dal pianeta Marte ("questa stella forte": ricordiamo che siamo sempre nel Cielo di Marte), così che le sue imprese saranno straordinarie. Nessuno se n'è ancora accorto, perché è ancora molto giovane, avendo egli solo nove anni (ai tempi in cui Dante scrive la Commedia Cangrande era già adulto: ma nel Canto Dante ambienta tutto nel 1300, circa dieci o quindici anni prima, quando Cangrande aveva ancora nove anni).

    Ma prima che papa Clemente V, chiamato "il Guasco" cioè "il guascone" perchè francese, inganni Arrigo VII di Lussemburgo,2 il valore di Cangrande risplenderà chiaramente, mostrando la sua noncuranza per il denaro e gli affanni.

    Le sue gesta saranno così illustri che i suoi nemici non potranno tacerle: quindi Dante dovrà attendere il suo aiuto e i suoi favori, dal momento che Cangrande ha generosamente mutato le condizioni di molte persone, trasformando i mendicanti in ricchi e viceversa. Cacciaguida aggiunge altri dettagli relativi alle future imprese di Cangrande, imponendo però il silenzio a Dante, che ascolta incredulo quanto riferito dall'avo. Cacciaguida conclude dicendo a Dante che non dovrà serbare rancore verso i suoi concittadini, poiché la vita di Dante è destinata a durare ben oltre la punizione che li colpirà.

    DUBBI DI DANTE

    Dopo che Cacciaguida ha terminato di parlare, Dante torna a rivolgersi a lui, in quanto desidera ricevere una spiegazione e un conforto, certo di trovarsi di fronte a un'anima sapiente, virtuosa e amorevole. Dante dichiara di rendersi conto che lo aspettano aspre vicissitudini, per cui, pensa, è bene che sia previdente e che non si precluda il possibile rifugio in altre città a causa dei suoi versi, visto che dovrà lasciare Firenze. Infatti, all'Inferno ("lo mondo sanza fine amaro" cioè "il mondo infinitamente amaro"), in Purgatorio e in Paradiso lui ha visto cose che, se riferite dettagliatamente, suoneranno sgradevoli a molti. Tuttavia, se egli non dirà tutta la verità della visione, teme di non ottenere la fama destinata a renderlo famoso presso le generazioni future. Cosa devo fare, chiede Dante: scrivere o no queste cose?

    LA MISSIONE POETICA DI DANTE

    La luce che avvolge Cacciaguida risplende come uno specchio d'oro colpito dal sole: poi l'avo risponde, dicendo che i lettori con la coscienza sporca per i peccati propri o di altri proveranno fastidio per le sue parole: e tuttavia egli dovrà rimuovere ogni menzogna e rivelare tutto ciò che ha visto nel viaggio ultraterreno, lasciando che "chi ha la rogna si gratti":

    indi rispuose: «Coscienza fusca (poi rispose: «Una coscienza sporca)
    o de la propria o de l’altrui vergogna (per la colpa propria o di altri)
    pur sentirà la tua parola brusca. (sentirà certo le tue parole come sgradevoli.)

    Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, (Tuttavia, rimossa ogni menzogna,)
    tutta tua vision fa manifesta; (rendi manifesto tutto ciò che hai visto,)
    e lascia pur grattar dov’è la rogna (e lascia pure che chi ha la rogna si gratti.) (che chi ha colpa ne paghi le conseguenze)

    Infatti, i suoi versi saranno sgradevoli all'inizio, ma, una volta digeriti, saranno un nutrimento vitale per le anime. Questo tuo canto, questa tua Divina Commedia, dice Cacciaguida, sarà un grido, sarà come un vento che colpisce più forte le cime più alte (cioè i più orgogliosi), e questo è motivo di grande onore. Per questo, nei tre regni dell'Oltretomba gli sono state mostrate solo le anime note, le più famose: il lettore infatti non farebbe attenzione ad esempi e personaggi poco noti, né ad argomenti che non fossero già evidenti di per sé.

    Questo tuo grido farà come vento, (Questo tuo grido sarà come un vento)
    che le più alte cime più percuote; (che colpisce di più le cime più alte,)
    e ciò non fa d’onor poco argomento. (e ciò non è motivo di poco onore.)

    Però ti son mostrate in queste rote, (Perciò ti sono mostrate in questi Cieli,)
    nel monte e ne la valle dolorosa (in Purgatorio e nella dolorosa valle dell'Inferno)
    pur l’anime che son di fama note, (solo le anime che sono molto famose,)

    che l’animo di quel ch’ode, non posa (poiché l'animo di colui che ascolta)
    né ferma fede per essempro ch’aia (non dà retta e non presta fede a un esempio)
    la sua radice incognita e ascosa, (che abbia la sua radice nascosta e sconosciuta, (a esempi non noti)

    né per altro argomento che non paia». (né a un altro argomento che non sia di tutta evidenza».)

    COMMENTO

    Questo Canto chiude il "trittico" dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida e alla definizione della missione poetica di Dante. Firenze è ancora al centro di questo Canto, perchè Dante chiede all'avo delle spiegazioni circa l'esilio che gli è stato più volte preannunciato nel corso del viaggio ultraterreno. È molto evidente poi il parallelismo, come nel Canto 15 del Paradiso, fra Dante ed Enea, che incontra il padre Anchise nel libro VI dell'Eneide, in quanto Cacciaguida profetizza a Dante l'esilio e lo investe dell'alta missione poetica che gli ha affidato la Provvidenza: proprio come Anchise preannunciava al figlio le guerre che lo attendevano nel Lazio e la missione provvidenziale della fondazione di Lavinio, da cui avrebbe avuto origine la stirpe romana. La stessa rassegna delle antiche famiglie di Firenze nel Canto 16 si rifaceva alla presentazione da parte di Anchise dei futuri eroi di Roma.

    In questo Canto, invece, tutto è incentrato su Dante, destinato a lasciare la sua città, in seguito alle vicende politiche del 1301-1302 e, come esule sconfitto politicamente, ad adempiere all'altissimo incarico di cui è investito. Il discorso di Cacciaguida è chiaro e privo di ambiguità, diverso dunque dalle velate allusioni di personaggi come Farinata, Brunetto Latini e Oderisi da Gubbio, che avevano predetto l'esilio in modo oscuro, ma diverso anche dai responsi oracolari degli dèi pagani, che si prestavano a doppie interpretazioni (il riferimento è anche alla Sibilla cumana, che Enea incontra nel suo antro e alla quale chiede espressamente una profezia, prima di compiere la discesa agli Inferi dietro la sua guida).

    Cacciaguida predice a Dante le amarezze e le sofferenze del suo girovagare di città in città, accusato di falsi crimini dai suoi ex-concittadini e in contrasto persino con gli altri fuorusciti suoi "colleghi", destinati ad essere sconfitti nella battaglia della Lastra. Costretto poi a mendicare il pane dai Signori, che gli offriranno protezione e rifugio. Tra questi spiccano naturalmente gli Scaligeri di Verona, soprattutto quel Cangrande che sarà il principale protettore del poeta e al quale Dante dedicherà proprio il Paradiso, indirizzandogli anche la famosa e discussa Epistola XIII3 che sarà fondamentale per l'interpretazione del poema.

    EPISTOLE
    Le "Epistole", cioè le lettere di Dante. Si tratta di tredici lettere in tutto, nelle quali Dante scrive (in latino) a diversi interlocutori, durante i suoi vent'anni di esilio.


    Cangrande si colloca al centro della profezia dell'esilio, in quanto Cacciaguida ne traccia un piccolo panegirico e lo presenta come personaggio destinato a grandi imprese, che mostrerà il suo valore militare e politico disdegnando le ricchezze e soprattutto tenterà di ristabilire l'autorità imperiale in Italia del Nord. Naturalmente questo resterà un sogno mai realizzato: ma l'attesa fiduciosa di un personaggio in grado di porre fine ai soprusi e alle ingiustizie politiche attraversa vivissima l'intero poema ed è lo sprone che induce Dante a compiere la sua missione poetica fino in fondo, senza mostrare mai il minimo cedimento o timore.

    Questa missione è poi solennemente dichiarata da Cacciaguida a Dante nella seconda parte del Canto, dopo che il poeta ha espresso i suoi dubbi che nascono proprio dalla profezia dell'esilio, delineatasi finalmente con chiarezza. Dante sa che è chiamato dalla Provvidenza a rivelare tutto ciò che ha visto nel corso del viaggio, ma sa anche che i suoi versi riusciranno sgraditi a molti, e quindi teme di precludersi possibili aiuti e protezioni, se dirà tutta la verità. Rischiando però, con l'autocensura, di scrivere un'opera di poco conto e quindi di non ottenere la fama imperitura.

    La risposta di Cacciaguida è tale da non lasciare incertezze ed è una chiara esortazione a non essere "timido amico della verità" ("s’io al vero son timido amico"), poiché proprio questo è il compito di Dante: nei tre luoghi dell'Oltretomba gli sono stati mostrati degli esempi di anime dannate o salvate, secondo il criterio della notorietà, poiché solo attraverso personaggi conosciuti il lettore ne sarà colpito al punto di modificare la sua condotta. Dunque sarebbe una grave mancanza da parte di Dante omettere qualche particolare della «visione» o tacere i nomi di quei personaggi da cui potrebbe attendersi ostilità o ritorsioni.

    Il valore del poema è allora soprattutto quello di un'alta denuncia contro i mali del tempo, che sono legati all'assenza di un'autorità centrale in grado di garantire le leggi, alla corruzione diffusa capillarmente nella Chiesa, più in generale all'avidità di guadagno che è dovuta alla diffusione del denaro.

    Il discorso di Cacciaguida è perciò stilisticamente solenne, ma non rinuncia talvolta ad espressioni crude e di immediata evidenza, come la frase "lascia pur grattar dov'è la rogna", che rende bene l'idea della missione affidata a Dante: quella cioè di dire la verità, anche quando questa suonerà sgradevole alle orecchie dei potenti (anzi, nel Canto 27 del Paradiso, San Pietro userà parole ancora più dure contro Bonifacio VIII, colpevole di aver trasformato il Vaticano in una cloaca / del sangue e de la puzza). Del resto, la voce del poeta sarà simile a un vento che colpirà maggiormente proprio le cime più alte, ovvero i personaggi più illustri del tempo, che erano più di altri responsabili della decadenza morale e politica dell'Italia, per cui solo in tal modo Dante potrà legittimamente aspettarsi la fama eterna dal poema sacro al quale, come lui stesso dirà, hanno cooperato Cielo e Terra.

    Infatti, Dante, nella Commedia mostra dei casi clamorosi e inattesi di personaggi dannati all'Inferno (si pensi a Guido da Montefeltro, a Branca Doria che addirittura include fra i traditori degli ospiti di Cocito quand'era ancora vivo) e altrettanti esempi di salvezze imprevedibili in Purgatorio (Catone, Manfredi) e in Paradiso (Traiano, Rifeo, di cui parleremo più avanti), il cui scopo ultimo è affermare l'infallibilità della giustizia divina, anche al di là delle capacità di comprensione umana.

    L'episodio di Cacciaguida si colloca dunque al centro esatto della Cantica e del poema in ragione dell'alto valore morale di questa investitura, che è poi la spiegazione essenziale del successo della Commedia destinato a durare assai più della breve vita del suo autore. La differenza tra quest'opera e le scialbe descrizioni dell'Oltretomba di scrittori precedenti non è solo nella novità della rappresentazione, ma soprattutto nel coraggio della denuncia contro i mali religiosi, politici, sociali del mondo del suo tempo, che acquista tanto maggior rilievo quando si pensi alle oggettive difficoltà di Dante, bandito in esilio dalla sua città, costretto a elemosinare l'aiuto dei potenti, esposto alle possibili vendette dei suoi nemici vecchi e nuovi, (una cosa poco considerata dagli storici e analisti) e nonostante tutto, privo di dubbi nel portare a termine quella che considerava una missione irrinunciabile. Questo dimostra in Dante una coscienza morale e un coraggio non comuni.

    DANTE EXUL IMMERITUS: IL CONTRASTATO RAPPORTO CON FIRENZE

    ESILIO
    Dante in esilio: questo stato di sofferenza del poeta durerà circa vent'anni, fino alla sua morte a Ravenna.


    Sappiamo che, in seguito all'esilio che gli impedì di rientrare a Firenze dal 1302, Dante fu costretto a lunghe peregrinazioni in giro per l'Italia del Nord, che lo portarono a contatto con una realtà politica ben più ampia di quella municipale che aveva vissuto sino a quel momento e ampliarono di molto la sua visione culturale: forse concepì la Commedia anche come un mezzo per affermare la sua grandezza, a dispetto dell'esilio ingiustamente patito: quindi si può dire che, grazie a quel destino, Dante divenne il grande poeta oggi celebrato.

    Sicuramente egli visse il bando dalla sua città come una ferita mai rimarginata, sperando fino all'ultimo di potervi rientrare e, al tempo stesso, nutrendo un forte rancore per i suoi avversari politici che lo avevano esiliato: c'era anche l'accusa infamante (e pare del tutto infondata) di baratteria, cioè di corruzione in atti di governo, che portò alla condanna a morte del poeta e dei suoi figli, nonché alla confisca di tutti i loro beni.

    Si può ben capire la triste condizione dello scrittore, costretto a mettersi al servizio dei signori potenti, a provare come sa di sale / lo pane altrui e a umiliarsi, senza tuttavia mai derogare dalla sua altissima dirittura morale; prova ne sia il fatto che, nonostante la nostalgia della patria lontana e le oggettive difficoltà, Dante non rinunciò mai ad attaccare nelle sue opere le malefatte dei potenti del suo tempo, ai quali certamente la sua parola doveva sembrare brusca come profetizzato dall'avo Cacciaguida.

    Il rapporto di Dante con Firenze fu sempre di amore-odio, dal momento che nella Commedia Dante si scaglia spesso, con forza e sarcasmo, contro i costumi politicamente e moralmente corrotti della sua città (per esempio: Inferno, Canto 26; o Purgatorio, Canto 6), mentre in altri momenti sembra struggersi nel ricordo del luogo che lo ha visto nascere e in cui desidera tornare (per esempio: Paradiso, Canto 25, che vedremo più avanti, in cui Firenze diventa "il bello ovile dove ha dormito agnello e fuori dal quale lo chiudono i lupi che fanno guerra alla città", cioè i suoi avversari politici).

    A Firenze Dante avrebbe voluto rientrare anche per "prendere cappello", cioè ottenere quell'incoronazione poetica cui legittimamente aspirava e che avrebbe potuto ricevere anche a Bologna nel 1320, se avesse accettato l'invito del professore di retorica Giovanni del Virgilio a recarsi in quella città (Dante morì l'anno dopo: forse sentiva che era ormai troppo tardi).

    Dante avrebbe potuto rientrare a Firenze nel 1315, approfittando dell'amnistia che il governo dei Guelfi Neri concesse a tutti i fuorusciti, a condizioni però che Dante giudicò assolutamente inaccettabili. Infatti, Dante avrebbe dovuto ammettere pubblicamente l'accusa di baratteria (corruzione) che gli veniva rivolta. Al posto della pena di morte, avrebbe dovuto solo pagare una multa e trascorrere una notte in carcere. Così avrebbe potuto rientrare in possesso di parte dei suoi beni e porre fine alla sua vita girovaga. Ma è fin troppo evidente che in questo modo i Guelfi Neri ne sarebbero usciti puliti e Dante sarebbe diventato il vero colpevole: era questo il vero motivo dell'"amnistia". Quindi Dante non poteva accettare una simile imposizione: avrebbe significato venir meno alla sua coerenza morale e scendere a patti con coloro che lo avevano ingiustamente allontanato. E, soprattutto, avrebbe dovuto riconoscere una colpa che non aveva commesso. Un prezzo davvero troppo alto da pagare per chi, fino a quel momento, si era distinto come "cantor rectitudinis", cioè "cantore della rettitudine", attraverso le pagine del poema che da anni circolava già nelle città italiane. Non poteva certo farsi passare ingiustamente per intrallazzone, corruttore e bustarellaro, solo per poter tornare a casa.

    Il "gran rifiuto" di Dante acquista maggior rilievo se si pensa che, dopo la morte di Arrigo VII di Lussemburgo nel 1313, quella era davvero l'ultima opportunità per Dante di rimettere piede a Firenze: lui stesso ne era cosciente e la sua fermezza nel rinunciare a tale possibilità è la migliore testimonianza del suo rigore inflessibile, nonché della sua caparbietà nel tenere fede ai propri principi. Ne è una testimonianza l'Epistola XII a un amico fiorentino, forse un interlocutore reale, che lo sollecitava a rientrare lo stesso a Firenze, approfittando dell'amnistia. Dante gli risponde con cortesia, riguardo all'intercessione dell'amico, ma con sdegno nei confronti dei suoi oppositori politici: il passo è rimasto famoso e ha consegnato alle generazioni future l'immagine dell'altera e sdegnosa dignità del poeta, che nei documenti si definiva florentinus natione non moribus, cioè: "fiorentino di origine, ma non nei costumi". Ecco le sue parole riguardo all'infamante condono di cui avrebbe potuto usufruire:

    «È proprio questo il "grazioso proscioglimento" con cui è richiamato in patria Dante Alighieri (qui parla di sè in terza persona), che per quasi tre lustri (15 anni) ha sofferto l'esilio? Questo avrebbe meritato l'innocenza sua, a tutti manifesta? Questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Stia lontana da un uomo familiare con la filosofia una così avvilente bassezza d'animo, tale da sopportare di farsi trattare come un carcerato, come di un Ciolo (Ciolo degli Abati, un malfattore fiorentino, che però ebbe l'amnistia) e di altri infami! Stia lontano da me il fatto di un uomo che predica la giustizia e che, dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi addirittura il suo denaro a quegli stessi che lo hanno oltraggiato, come se lo meritassero! Non è questa, padre mio (è una forma di rispetto verso l'amico), la via del ritorno in patria. Ma, se un'altra via prima o poi, da voi o da altri, verrà mai trovata, una via che però non deroghi alla fama e all'onore di Dante, allora l'accetterò a passi non lenti. Ma, se per nessuna onorevole via si potrà tornare a Firenze...allora io a Firenze non entrerò mai. E che? Forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? O forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza che per questo io debba tornare in modo abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.»

    Col rifiuto di Dante, il 15 ottobre 1315 a Firenze fu confermata la condanna a morte, non solo per il poeta, ma anche per i suoi figli. Dopo la morte di Dante nel 1321 a Ravenna, furono fatti diversi tentativi dai Fiorentini per traslare i suoi resti nella chiesa monumentale di Santa Croce: nessuno dei quali però andò a buon fine, nemmeno quello ad opera di papa Leone X nel primo Cinquecento, perchè furono i Ravennati ad opporsi.

    IL TALENTO PERSONALE E' UN DONO AL SERVIZIO DI TUTTI

    Dante, con la rivelazione dell'esilio, si trova davanti al grande dilemma della vita, che in qualche modo, prima o poi, blocca tutti noi: dovremmo scegliere in base alla convenienza economica (per Dante era trovare ospitalità presso i signori), oppure in base al servizio di tutta la comunità? Dovremmo scegliere per la felicità nostra o per quella degli altri?

    Cacciaguida non ha dubbi al riguardo, come abbiamo visto: le coscienze sporche saranno infastidite dalle parole di Dante, ma la verità, di sapore sgradevole quando è appena assaporata, diverrà poi nutrimento vitale, quando sarà digerita.

    Il poeta ha visto nell’aldilà delle anime di personaggi noti, perché gli uomini sono soliti prestare attenzione soltanto alla fama delle persone. Colpisce la fine psicologia del poeta, che, attraverso la figura del trisavolo, ci spiega perché il Cielo abbia offerto alla vista del Fiorentino soprattutto personaggi illustri. Dante non si scandalizza del fatto che l’uomo riservi attenzione solo alle persone famose. È un tratto tipico dell’uomo, e lo scrittore se ne avvale proprio per diffondere la verità. I rètori si sono sempre giovati di esempi noti per catturare il favore del pubblico. Fin dalla più tenera età, i bimbi si muovono per imitazione degli adulti che hanno dinanzi a sé e poi, con la crescita, diventano grandi attraverso dei modelli e maestri. Colpisce una volta ancora il linguaggio fortemente concreto in un contesto etereo come quello delle anime splendenti e luccicanti del Paradiso. Cacciaguida ricorre più volte al campo semantico del cibo e, in particolare, anche all’ambito della digestione, che appartiene di solito ad un registro basso della letteratura.

    Nell’antichità, tutto quanto riguardava il sesso e la digestione era riservato al genere più basso, ovvero alla commedia, e non poteva essere trattato in forma alta. La rivoluzione del linguaggio dantesco è grande: se, nella vita di san Francesco, Dante aveva utilizzato il lessico erotico per parlare dell’amore tra il santo e Madonna povertà, ora il poeta affronta addirittura il tema della verità, proprio nel canto centrale del Paradiso, con una terminologia che appartiene di suo ad un campo corporeo e materiale: «gusto», «vital nodrimento», «digesta», «grattar», «rogna». Come a dire che la verità non è un discorso o un pensiero, ma si è incarnata nella storia ed ogni volta deve diventare carne per ciascuno di noi, perché possa essere capita. La verità è la realtà: non è una dottrina filosofica.

    Si noti pure come il gioco allitterante della “r” nell’espressione «lascia pur grattar dov’è la rogna» sia il correlato stilistico del fastidio provocato dalla verità. La risposta di Cacciaguida a Dante è di particolare attualità ai giorni nostri, quando sempre più spesso sentiamo parlare di passioni, ma raramente qualcuno ci sprona a scoprire i nostri talenti e a perseguirli. Siamo, infatti, immersi in una società in cui sembra che pochi li possiedano. Invece, come il Vangelo ci ricorda, ciascuno di noi ha almeno un talento. Possederne anche uno solo, ma scoprirlo e farlo fruttare, produce molto di più che avere tanti talenti, ma tenerli nascosti, cioè non usarli mai. Per esempio, se sai disegnare e non disegni, sprechi i tuoi talenti; se sai cantare e non canti, sprechi i tuoi talenti; se sai amare e non ami, sprechi i tuoi talenti, e si potrebbe continuare all'infinito con questi esempi.

    Scegliere partendo da una domanda su di sé e sulla propria felicità spalanca nella vita attese e prospettive insospettate. La risposta alla vocazione (non necessariamente religiosa: le vocazioni sono infinite) è una responsabilità, di fronte a se stessi e agli altri. La vocazione non è, quindi, un’ "illuminazione interiore", ma una chiamata, in cui si deve operare in un certo ambito, come fa Dante. Si potrebbe dire che là dove siamo, là dove lavoriamo, noi tutti siamo chiamati a portare testimonianza della verità che abbiamo incontrato nella vita. Alla faccia dell'attuale boom dei manga "isekai" dove il protagonista muore e si trova in un altro mondo dove si diverte e fa l'eroe. La vita vera si fa qui, non da un'altra parte. Con una nota espressione sintetica di sant’Ignazio da Loyola, potremmo anche dire: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio».

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xvii.html

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    1 Cangrande della Scala. Signore di Verona (1291-1329), Per le sue imprese militari e la sua espansione territoriale fu nominato capitano generale della Lega Ghibellina (1318), venendo scomunicato nel 1320 da papa Giovanni XXII. Prima della scomunica, nel periodo 1313-1318 Dante fu al suo servizio, svolgendo per suo conto varie missioni diplomatiche e dedicandogli tra l'altro il Paradiso (a lui è indirizzata una lettera famosa, detta Epistola XIII, dove il poeta fornisce preziose indicazioni per l'interpretazione di tutto il poema). La figura di Cangrande è generalmente accostata a quella del «veltro», il misterioso personaggio evocato da Virgilio nella profezia dell'Inferno (Canto 1), dove si dice che costui sarà destinato a cacciare la lupa/avarizia dall'Italia e a ristabilire la giustizia (il verso: "e sua nazion sarà tra feltro e feltro" è stato interpretato come allusione proprio al dominio di Cangrande, che si estendeva pressappoco tra Feltre e Montefeltro). Alcuni commentatori hanno voluto vedere in lui anche il «DXV» profetizzato da Beatrice nel Purgatorio nel Canto 33. Cangrande è nominato in modo implicito, ma riconoscibile, da Cacciaguida, in questo 17° Canto del Paradiso, dove l'avo di Dante profetizza l'esilio e dice che gli Scaligeri daranno rifugio e protezione al poeta a Verona: soprattutto Cangrande, di cui si dice che l'influsso della stella di Marte lo porterà a compiere imprese notevoli, ("a mostrare faville de la sua virtute"), a realizzare magnificenze che, secondo Cacciaguida, risulteranno incredibili anche ai contemporanei. Di Cangrande si dice anche che "non si curerà d'argento né d'affanni", il che avvalora l'interpretazione che lo accosta al veltro (di cui Virgilio aveva detto che "non avrebbe concupito né terra né peltro", cioè non avrebbe ricercato né terre né ricchezze materiali).

    2 Clemente V: Bertrand de Got, originario della Guascogna, fu arcivescovo di Bordeaux e divenne papa nel 1305 - dopo Bonifacio VIII e il suo successore Benedetto XI - col sostegno di Filippo il Bello re di Francia, che fece schiaffeggiare Bonifacio VII nel famoso schiaffo di Anagni. Fu Clemente V a trasferire la sede papale da Roma ad Avignone.

    Clemente-V
    Papa Clemente V


    Sotto pressione di Filippo il Bello, Clemente V sciolse l'ordine dei Templari, dei quali Re Filippo incamerò tutti gli averi. Si oppose al tentativo di restaurazione imperiale in Italia, operato da Arrigo VII di Lussemburgo (questo è "l'inganno" descritto da Dante). Morì nel 1314. Dante ne profetizza la dannazione per simonia nell'Inferno (Canto 19), per bocca di papa Niccolò III, che compare fra i simoniaci della III Bolgia. Lì Clemente V è definito un "pastor sanza legge", intento a favorire il re di Francia. Nel Paradiso, oltre al cenno fatto a lui da Cacciaguida, nel Canto 30 Beatrice alluderà a lui come al Papa che "palese e coverto / non anderà con lui (Arrigo VII) per un cammino": cioè, Clemente V tradirà l'imperatore Arrigo VIII, il cui seggio è già pronto nella rosa dei beati, profetizzando che il Papa sarà sprofondato nella stessa buca della III Bolgia, dove sarà prima confitto Bonifacio VIII.

    3 Epistola XIII: "L'Epistola XIII a Cangrande della Scala" è l'ultima delle tredici lettere attribuite a Dante. Questa si divide in due parti: la prima contiene la dedica del Paradiso (che era ancora in corso di lavorazione) a Cangrande della Scala: "(...) ho esaminato i miei piccoli regali e li ho differenziati e poi vagliati, alla ricerca del più degno e gradito a voi. E non ne ho trovato uno adeguato alla vostra eccellenza più di quella sublime cantica della Commedia che si intitola Paradiso. E questa, con la presente lettera, come a Voi consacrata con propria epigrafe, a Voi la intitolo, la offro, la raccomando." La seconda parte contiene un commento della Commedia, che ne favorisce l'interpretazione, spiegandone la differenza tra il senso letterale e quello allegorico. Inoltre, spiega anche alcuni aspetti del Paradiso.
     
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    PARADISO CANTO 18 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE (prima parte)

    CAVALIERI-DI-MALTA
    Se Dante li avesse conosciuti, avrebbe messo tra gli Spiriti Combattenti per la Fede anche i Cavalieri di Malta, temutissimi dai musulmani. C'erano già ai tempi di Dante, ma non erano ancora famosi: lo divennero dopo, nell'assedio a Malta da parte dei Saraceni nel 1564. Con un eroismo incredibile, combattendo anche in punto di morte, i Cavalieri di Malta, guidati dal Gran Maestro Jean de La Vallette, (da cui la capitale di Malta, La Valletta, prenderà il nome) respinsero un'armata di 50.000 musulmani. Parteciparono anche alla battaglia di Lepanto del 1571. Oggi si occupano di attività assistenziali.



    CONFORTO DI BEATRICE

    Cacciaguida ora tace, dopo aver rivelato a Dante la profezia del suo esilio: e Dante medita su quello che ha sentito con aria preoccupata, pensando sia alla prova che lo attende che alla gloria del Paradiso che lo aspetta. Beatrice lo invita a non abbattersi, e a pensare che lei pregherà per Dante presso Dio, Colui che risolve tutti gli affanni e le ingiustizie:

    Già si godeva solo del suo verbo (Ormai (Cacciaguida) si beava, tutto assorto ("solo"), del proprio pensiero (della propria contemplazione)
    quello specchio beato, e io gustava (lui che ora è il santo specchio di Dio ("quello specchio beato": Cacciaguida cioè contempla e riflette Dio: dopo aver parlato a Dante, affida tutto a Dio), e io ero assorto)
    lo mio, temprando col dolce l’acerbo; (su quello che avevo udito, attenuando l'asprezza (della profezia dell'esilio: "l'acerbo") con la dolcezza (della gloria futura: "dolce")

    e quella donna ch’a Dio mi menava (e quella donna che mi guidava a Dio)
    disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono (disse: «Non ti abbattere, e pensa che io sono)
    presso a colui ch’ogne torto disgrava». (vicina a Colui (Dio) che ripara ogni ingiustizia».)

    Dante fissa lo sguardo nei suoi occhi e non è in grado di descriverne la bellezza: non solo perché non ha i mezzi poetici per farlo, ma anche per l'insufficienza della memoria nel ricordare. Può solo dire che, guardando Beatrice, ogni suo desiderio è acquietato, poiché nella donna si riflette l'eterna bellezza di Dio stesso. Beatrice gli sorride e lo esorta a voltarsi e ad ascoltare, poiché il poeta può trovare gioia anche in altro che non siano i suoi occhi: "Volgiti e ascolta; / ché non pur nè miei occhi è paradiso." ("Voltati e ascolta; infatti, il Paradiso non è soltanto nei miei occhi.")

    GLI SPIRITI COMBATTENTI DELLA CROCE

    Dante obbedisce e torna a rivolgersi a Cacciaguida, intuendo dal suo accresciuto fulgore che il beato ha ancora grande desiderio di parlargli. L'avo spiega che questa "quinta soglia" (il Quinto Cielo di Marte) "dell'albero" (cioè il Paradiso) riceve la vita dalla cima ("de l’albero che vive de la cima"), anzichè dalle radici, come fanno tutti gli alberi. Cacciaguida vuole dire che l'Albero del Paradiso riceve la vita dalla cima, cioè da Dio; fruttifica sempre e non perde mai le foglie. Questa immagine era frequente nei mistici medievali e anche nella Bibbia.

    In questo quinto Cielo, continua Cacciaguida, ci sono degli spiriti beati che sulla Terra, prima di morire, ebbero una grande fama ("fuor di gran voce"), al punto che offrirebbero un mucchio di spunti per ogni ispirazione poetica ("sì ch’ogne musa ne sarebbe opima"). Cacciaguida invita quindi Dante ad osservare i bracci orizzontali della grande croce luminosa che il poeta aveva visto appena entrato nel Cielo di Marte: lui indicherà alcuni di questi beati che hanno combattuto per la fede e ognuno di essi, quando sarà nominato, scorrerà rapidissimo da una parte all'altra dei bracci della croce, tanto da sembrare un lampo ("farà l’atto/che fa in nube il suo foco veloce": si pensava che il lampo fosse generato nella nube).

    E' da notare che Dante, nel presentarli, non descriverà i condottieri o farà un riassunto sulle loro vite: farà solo un elenco e basta. Si limita infatti ad evocarli a uno a uno, quasi come se stesse facendo un appello militare, isolando ogni nome con la sua aureola leggendaria, sottolineando l'ideale continuità della loro opera di combattenti per la vera fede.

    GIOSUE', IL CONQUISTATORE

    Il poeta osserva e vede l'anima di Giosuè, che si muove all'unisono con la voce dell'avo.

    Io vidi per la croce un lume tratto (Io vidi che, lungo la croce, una luce si mosse all'unisono)
    dal nomar Iosuè, com’el si feo; (al nominare Giosuè,)
    né mi fu noto il dir prima che ‘l fatto. (tanto che l'ascoltare e il vedere avvennero allo stesso tempo.)

    Giosu%203
    Giosuè abbatte le mura di Gerico facendo suonare le trombe.


    Giosuè, figlio di Nun, fu un condottiero ebraico. La sua storia è raccontata nella Bibbia a partire dal Libro dell'Esodo fino al Libro di Giosuè, che prende nome da lui. È venerato come santo e patriarca dalla Chiesa Cattolica: la memoria ricorre il 1º Settembre. Il suo nome deriva dall'ebraico Yehoshùa e significa "Dio salva", di cui Iesoùs, Gesù, è la trascrizione in greco. Infatti, Giosuè è il nome originale ebraico di Gesù, che significa appunto "Dio salva".

    Giosuè succedette a Mosè come capo degli Israeliti, dopo il lungo viaggio di quarant'anni nel deserto, e guidò le dodici tribù d'Israele nelle prime conquiste nella Terra Promessa. Il primo ostacolo fu il fiume Giordano: Giosuè fece avanzare l'Arca dell'Alleanza (che portava la Presenza Divina), portata dai sacerdoti, e il fiume arrestò miracolosamente il suo scorrere, permettendo l'attraversamento degli israeliti.

    Gerico era la prima roccaforte da conquistare: come Sodoma e Gomorra, ormai era diventata una città completamente corrotta, anche se ancora potente. Le gigantesche mura di Gerico caddero all'istante, dopo che i sacerdoti girarono per sette volte attorno alla città, per sette giorni di fila, suonando lo shofar (corno dal suono potente di tromba, usato per le celebrazioni religiose). La città fu rasa completamente e tutti gli abitanti di Gerico furono uccisi, tranne la prostituta Raab e la sua famiglia, perchè lei aveva ospitato le spie ebraiche.

    Giosuè è famoso anche per il misterioso avvenimento della fermata del Sole. Dopo altre vittorie, la città di Gabaon si arrese agli Israeliti e fecero alleanza con loro: ma i Gabaoniti furono attaccati dagli altri cinque re che erano in guerra contro Israele. Gabaon allora chiamò Giosuè al loro soccorso, e la battaglia si prolungò, tanto che la giornata tendeva al tramonto e il risultato era ancora incerto. Allora Giosuè ordinò al Sole e alla Luna di fermarsi finchè gli Israeliti non ebbero battuto tutti i nemici: Dio fece fermare il Sole e la Luna per un giorno intero, e Giosuè sconfisse i cinque re.

    "Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele: «Sole, fèrmati in Gàbaon e tu, Luna, sulla valle di Aialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile, finché il popolo non si vendicò dei nemici. (...) Stette fermo il sole in mezzo al cielo e non si affrettò a calare quasi un giorno intero. Non ci fu giorno come quello, né prima né dopo, perché aveva ascoltato il Signore la voce d'un uomo, perché il Signore combatteva per Israele." (Giosuè 10, 12-14)

    giosue
    Giosuè ferma il Sole e la Luna.


    Questo passaggio fu molto discusso nei secoli. Giosuè fermò davvero il Sole? Ovviamente non è Giosuè, ma Dio a fermare il Sole, e a Dio nulla è impossibile: a Fatima, il 13 Ottobre 1917, nelle famose apparizioni, il Sole aveva addirittura danzato davanti a settantamila persone, ed era persino andato loro addosso, per poi ritornare dov'era.

    Ma la domanda rimane: il Sole davvero si fermò? Difficile da dire, ma qualche priva c'è. Antonio de Montesinos, un frate domenicano, vissuto tra il '400 e '500, scrisse che in Perù, durante il regno di Titu Yupanqui Pachacùtec II, il quindicesimo monarca dell’Antico Impero, nel terzo anno del suo regno, quando "le buone usanze furono dimenticate e il popolo si diede ad ogni forma di vizio, non vi fu alba per venti ore". In altre parole, la notte non terminò al momento dovuto e il sorgere del Sole fu ritardato di ben venti ore. Dopo grandi atti di disperazione, sacrifici e preghiere, il Sole sorse. Ora, quando in Palestina è giorno, in Perù è notte; dunque, se in Medio Oriente il giorno tardò a cessare, nel continente americano accadde per forza l’esatto opposto. Il periodo di regno di Titu Yupanqui Pachacùtec II è compatibile col tempo di Giosuè. Si potrebbe obiettare che Montesinos abbia inventato tutto per trovare un riscontro al racconto biblico: tuttavia, nei suoi scritti, non viene fatto alcun parallelismo con quel passo biblico o con la Bibbia in genere. Fra l’altro, se avesse riportato il falso, lo si sarebbe potuto facilmente smascherare. Inoltre, oltre alla leggenda riportata da Montesinos, anche altri popoli precolombiani, tra cui gli stessi Indiani dell’America del Nord, tramandarono il ricordo di una “lunga notte”. Ciascuno tiri da sè le sue conclusioni.

    GIUDA MACCABEO, IL MARTELLO DEI SUOI NEMICI

    GIUDA-MACCABEO
    Giuda Maccabeo, il "martello" dei persecutori.


    Cacciaguida ora chiama Giuda Maccabeo:

    E al nome de l’alto Macabeo (E al nome del nobile Maccabeo)
    vidi moversi un altro roteando, (vidi un'altra luce muoversi girando su se stessa,)
    e letizia era ferza del paleo. (e la gioia era la frusta che faceva muovere la trottola.)

    L'ultimo verso (e letizia...) vuol dire che la felicità del beato Giuda Maccabeo era come la frusta (ferza) che fa girare la trottola (paleo: una trottola conica, che si faceva girare con una frusta), perchè la luce dello spirito di Giuda Maccabeo ruotava attorno a se stessa.

    Giuda Maccabeo fu un condottiero ebraico, le cui azioni sono state scritte nei due libri dei Maccabei I e II dell'Antico Testamento. Il suo soprannome, "Maccabeo”, significa "martello". Divenne l'eroe della ribellione ebraica contro l'oppressione del re Antioco IV Epifane, sovrano di Siria e dell'area palestinese: salito al trono nel 176 a.C., tentò d'ellenizzare il mondo ebraico e minare le basi del monoteismo, nominando dei sommi sacerdoti greci e obbligando gli Ebrei ad abiurare alla loro fede, pena la morte, proibendo la circoncisione, l'osservanza del sabato e tutte le altre manifestazioni della fede ebraica.

    In particolare, Antioco consacrò a Giove un altare nel Tempio di Gerusalemme, che era invece dedicato al Dio d'Israele: fu chiamato dagli ebrei e dai profeti "l'abominazione della desolazione nel luogo santo", dove lì si doveva adorare solo Dio.

    Giuda Maccabeo, coi suoi partigiani, riuscì a liberare Gerusalemme, riconquistando il Tempio. Condusse poi la battaglia contro i generali siro-ellenistici Gorgia, Lisia e Nicanore: ma morì nello scontro, nel 160 a.C.

    Giuda Maccabeo impedì la diffusione dell'ellenizzazione degli ebrei (cioè, seguire il pensiero e le credenze greche) e il sincretismo religioso (adorare Dio e nello steso tempo altro dei). Di lui ne parla anche lo storico ebraico Giuseppe Flavio: le sue gesta, in complesso, furono parecchie e notevoli.

    Inoltre, da "maccabeo" viene il terme "macabro", cioè lugubre, o in relazione con la morte e col suo immaginario collettivo, tipo la "danza macabra". La storia dei Maccabei e della ribellione contro Antioco infatti è cupa: fa testo, per esempio, la storia dei sette fratelli torturati e uccisi con la loro madre da Antioco Epifane, come pure l'anziano Eleazaro, perchè non volevano rinnegare la loro fede.

    CARLOMAGNO, IL GRANDE RE E IMPERATORE

    CARLOMAGNO-2


    Cacciaguida continua la sua presentazione: qui si parla di Carlomagno e di Orlando insieme.

    Così per Carlo Magno e per Orlando (Così, ai nomi di Carlo Magno e Orlando,)
    due ne seguì lo mio attento sguardo, (il mio sguardo attento ne seguì altre due (saette)
    com’occhio segue suo falcon volando. (come l'occhio che segue il volo del proprio falcone da caccia.)

    Carlomagno (742-814) fu re dei Franchi, re dei Longobardi e dall'800 fu il primo Imperatore Romano incoronato da un Papa: Leone III lo incoronò Imperatore nell'antica basilica di San Pietro in Vaticano, ora abbattuta e con la Basilica di San Pietro attuale al suo posto.

    E' da ricordare che da allora iniziò il rito dell'incoronazione dell'imperatore del Sacro Romano Impero: era una cerimonia in cui il sovrano della più grande entità politica dell'Europa occidentale riceveva le regalie imperiali per mano del Papa, a simboleggiare sia il diritto del papa a incoronare i sovrani cristiani che il ruolo dell'Imperatore come protettore della Chiesa cattolica e dell'ordine civile. Anche le imperatrici del Sacro Romano Impero erano incoronate. La prima incoronazione imperiale, dopo la deposizione di Romolo Augustolo, l'ultimo imperatore romano, fu appunto quella di Carlo Magno.

    Gli imperatori successivi furono anch'essi incoronati dal Papa. L'incoronazione papale era un requisito essenziale per avere il titolo imperiale: Carlo V fu l'ultimo imperatore ad essere incoronato dal Papa. Successivamente, fino all'abolizione dell'impero nel 1806, non vennero più incoronati dal Papa. Infatti, nel 1806, l'ultimo Imperatore, Francesco II d'Asburgo-Lorena, per evitare che Napoleone (già autonominatosi Imperatore dei Francesi due anni prima, nel 1804, costringendo il Papa ad incoronarlo), si autoproclamasse anche Imperatore del Sacro Romano Impero, decise di abdicare, optando per il nuovo titolo di Imperatore d'Austria.

    Carlomagno allargò il suo impero grazie a una serie di vittoriose campagne militari, che inclusero la conquista del Regno longobardo, fino a comprendere una vasta parte dell'Europa occidentale. L'Impero Carolingio fu l'inizio della fondazione del Sacro Romano Impero. Carlomagno morì e fu sepolto nella cattedrale di Aquisgrana, nella Germania Occidentale, dove Carlomagno costruì la sua sede imperiale.


    Lo scrigno d'oro e d'argento (chiamato Karlsschrein) di Carlomagno, nella cattedrale di Aquisgrana, dove sono seppelliti i suoi resti.


    Dopo la sua morte, l'impero passò al figlio Ludovico il Pio. Alla morte di Ludovico, l'impero fu diviso fra i suoi tre eredi: Lotario I, Carlo il Calvo e Ludovico II il Germanico.

    Carlomagno influenzò radicalmente tutta la vita e la politica del continente europeo nei secoli successivi. Per questo motivo è considerato re e padre dell'Europa. Infatti, tramite il figlio Ludovico il Pio, egli è l'antenato di tutte le Case Reali Europee, tra cui i Windsor (Re del Regno Unito), i Sassonia-Coburgo-Gotha (Re del Belgio), dei Borboni di Spagna (Re di Spagna), del re di Svezia Carlo XVI Gustavo (in quanto discendente dei Sassonia-Coburgo-Gotha, ma la casa reale di Svezia non deriva dai Carolingi), della Famiglia Granducale del Lussemburgo, oltre alle numerose case reali ora non più regnanti, come i Romanov, i Savoia, i Borbone di Francia e varie altre.

    ORLANDO, IL PALADINO PER ECCELLENZA

    ORLANDO-2
    Orlando, il più forte e il più valoroso dei Paladini di Francia.


    Orlando, o Rolando (736–778), il più famoso dei Paladini di Francia, si mise al servizio di Carlomagno sin da ragazzo: infatti, durante l'assedio di Sutri, nel Lazio, in cui Carlomagno dovette difendere la Chiesa dai Longobardi, il re notò un ragazzo di nobile portamento e cultura, e volle sapere di chi era figlio. Con sorpresa, scoprì che era figlio di sua sorella Berta, che lui aveva diseredato perchè aveva avuto rapporti con un un vassallo, il cavaliere Milone d'Anglante. Per riguardo a Orlando, Carlomagno perdonò la sorella e il marito e li riammise a corte: laggiù Orlando cominciò la sua vita di cavaliere, iniziando come scudiero. Successivamente, superò tutte le prove necessarie per diventare paladino. Al servizio di Carlomagno, compì numerose imprese cavalleresche ed eroiche, tanto da diventare in breve tempo il primo paladino di Francia.

    LA SAGA DI RONCISVALLE

    In quel periodo, Carlomagno stava combattendo contro i Saraceni, che avevano conquistato la Spagna e stavano premendo per raggiungere l'Europa: erano già stati fermati dall'avo di Carlomagno, Carlo Martello, a Poitiers, ma la minaccia restava. In particolare, la città di Saragozza, comandata dallo sceicco moro Marsilio, era imprendibile. Per ingannarli, Marsilio promise a Carlomagno di arrendersi e convertirsi al cristianesimo: ma Orlando non si fidava di lui. Un altro paladino, Gano di Maganza, invidioso del successo di Orlando, si oppose alla sua opinione e convinse il re a credere a Marsilio. E Gano si mise d'accordo con Marsilio perchè, una volta tranquillizzato Carlomagno, il re si sarebbe allontanato da Saragozza, facendo ritorno in Francia. Ma Marsilio, in accordo col traditore Gano, attaccò a Roncisvalle, al confine tra la Spagna e la Francia, la retroguardia dei francesi, capeggiata dall'odiato Orlando. In questo modo, Marsilio avrebbe potuto attaccare i Francesi di sorpresa, uccidere Carlomagno e rendere così la Francia tutta musulmana.

    Roncisvalle era un luogo cupo e sinistro, pieno di ombre e dirupi: l'ideale per un agguato. Orlando, insieme ai ventimila cavalieri della retroguardia, la guidava insieme al paladino Conte Olivieri, fidanzato con Alda, la sorella di Orlando: Olivieri notò il rumore dei Mori e avvisò Orlando: erano dieci volte più numerosi di loro. Orlando non voleva suonare subito l'Olifante, cioè il corno d'avorio, per avvisare il Re, senza aver combattuto prima: se lo avesse fatto, sarebbe stato un atto di viltà.

    ORLANDO-1
    Orlando suona per l'ultima volta l'Olifante.


    Olivieri disse ai Franchi:
    "Signori, che Dio ci dia la forza: ci aspetta una grande battaglia!"
    Gli altri risposero:
    "Maledetto chi fuggirà!"
    Con loro c'era l'Arcivescovo con la spada, Turpino: si mise su una balza, a cavallo, sopra di loro, dicendo:
    "Signori, inginocchiatevi e pentitevi per i vostri peccati; io vi assolverò tutti. Se moriremo, avremo un posto tra gli Angeli in Paradiso!"
    I Franchi si inginocchiarono e Turpino li assolse e li benedisse. All'arrivo dei saraceni, Orlando estrasse la Durlindana, la sua spada santa, e lui e gli altri attaccarono col grido di guerra dei Franchi: "Montjoye!"1. Lo scontro fu spaventoso e caddero a centinaia, sia da una parte che dall'altra. Orlando resse ben quindici scontri, l'uno dopo l'altro, facendo strage di saraceni e aprendo varchi sanguinosi da dove potevano passare i Franchi. Con lo stesso valore combatterono l'Arcivescovo con la spada, Turpino, e Olivieri: dopo ore di terribili scontri, i mori si ritirarono.

    Ma stava già arrivando un secondo enorme esercito di saraceni, comandati dallo stesso Marsilio: Roncisvalle doveva essere presa a tutti i costi. La Francia doveva cadere! Settemila trombe suonarono insieme, centomila saraceni partirono all'attacco, urlando "Allah u Akbar!", "Dio è grande". Orlando, soprattutto, era l'obiettivo: caduto lui, tutti gli altri, presi dallo sconforto, sarebbero stati una facile preda. La battaglia diventò ancora più aspra, e Orlando era pieno di ferite: la sua armatura, aperta in più punti, mostrava numerose punte di frecce. Ma nessuna di esse era mortale e lui attaccava in continuazione, mietendo musulmani come una falce implacabile. I paladini caddero numerosi, e di ventimila ne rimasero solo sessanta, compreso Orlando, Olivieri e Turpino, e continuavano a combattere. I musulmani indietreggiarono, impressionati dalla loro forza.

    Orlando, a quel punto, suonò l'Olifante: Carlo Magno lo sentì, ma Gano di Maganza, accanto a lui, lo ingannò, facendogli credere che si trattava di un altro tipo di suono. Ma Orlando suonò ancora, e Carlomagno allora capì il tradimento di Gano: infuriato, ordinò di imprigionarlo. Poi si diresse verso Roncisvalle insieme ai suoi: ma ormai era troppo tardi. In quella valle, i Mori, decimati, erano scappati e tutti gli altri erano morti: anche Olivieri e Turpino erano morti.

    Orlando era l'unico rimasto vivo, ma era ormai moribondo. Tutto era silenzio, e lui vagò tra i morti, dirigendosi verso la Spagna, per mostrare che era morto vincendo (se si fosse diretto verso la Francia, avrebbe dato l'impressione di voltare le spalle al nemico e di fuggire). Cadde a terra: con un ultimo sforzo, si alzò, ormai cieco, cercando di spezzare Durlindana, facendola sbattere contro una pietra. La spada santa, che conteneva le reliquie dei santi, non poteva cadere nelle mani dei pagani mori. Conteneva infatti nell'elsa un dente di San Pietro, del sangue di San Basilio, dei capelli di San Dionigi, un pezzo del manto della Vergine. Durlindana non si spezzò e Orlando non aveva più forze: nascose tra le vesti la sua spada, chiese perdono a Dio dei suoi peccati e morì.

    Carlomagno arrivò troppo tardi: però vendicò Orlando e gli altri, conquistando Saragozza e uccidendo Marsilio. Gano di Maganza, il traditore, finì squartato (Dante parla di lui nell'Inferno tra i traditori).

    Così dice la leggenda della Chanson de Roland del monaco Turoldo (da non confondersi con David Maria Turoldo, teologo del '900). Nella realtà, sembra che siano stati i Baschi a commettere l'eccidio di Roncisvalle e non i Mori. Non che cambi molto la sostanza: quella fu un'aggressione comunque, fatta a sorpresa dai Baschi, non certo una battaglia all'aperto, e i Franchi caddero combattendo valorosamente. Inoltre, anche se i Baschi erano cristiani, erano però conniventi coi musulmani: quindi non è che ci sia una gran differenza in questo caso.

    Inoltre, Carlomagno combattè davvero contro i Mori - è un fatto storico - e attaccò anche Saragozza, roccaforte musulmana: ma non aveva abbastanza forza per attaccare e liberare una Spagna interamente musulmana. Il suo vero impegno era contro le tribù barbare che attaccavano a Est e fondare il nuovo Sacro Romano Impero. Per i Mori di Spagna ci sarebbe stata la Reconquista, ma questa è un'altra storia.

    Orlando, nella leggenda, è visto come un essere dalla forza eccezionale, che ha lasciato dei segni al suo passaggio: la Breccia di Orlando, per esempio, è una gigantesca spaccatura naturale, larga 40 metri e alta 100, presente lungo il confine tra la Francia e la Spagna, nei Pirenei. Secondo la leggenda, la Breccia fu creata da Orlando quando cercò di distruggere Durlindana. In quanto a Durlindana, sembra che sia stata trovata a Rocamadour, in Francia, incastrata nella roccia.

    BRECCIA-DI-ORLANDO
    La breccia di Orlando.


    L'Olifante si troverebbe a Bordeaux. La tomba di Orlando, secondo la tradizione, è sepolto a Blaye, in Francia, nella Basilica di Saint-Romain, necropoli dei duchi Merovingi d'Aquitania. Infatti, per tradizione, Orlando era stato un signore di Blaye. Bordeaux e Blaye divennero luoghi di pellegrinaggio ancor prima della composizione della Chanson de Roland (1050-1100).

    Successivamente, altri autori trattarono la figura di Orlando: l'Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo e l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Ma, come si vede anche nei titoli, l'aspetto eroico del personaggio è stato messo a parte per far risaltare solo l'aspetto passionale: Orlando segue la volubile Angelica, principessa del Catai, che lo fa impazzire. Orlando non viene visto più come eroe, diventando quasi una caricatura.

    -------------------------------
    1 Montjoie ! o Montjoie Saint-Denis! era il grido di battaglia e il motto del Regno di Francia. Il grido si riferisce al leggendario stendardo di Carlo Magno, detto l'Orifiamma ("fiamma d'oro"), o "Montjoie": era conservato presso la Basilica di Saint Denis, cioè San Dionigi, il primo vescovo di Parigi, che fu decapitato sotto Valeriano. Lo stendardo era di colore rosso, perchè, per tradizione, fu immerso nel sangue di San Dionigi. In francese antico, "montjoie" indica i piccoli cumuli di pietre posizionati al ciglio delle strade, per ricordare eventi importanti o indicare un cammino: il grido di battaglia fu presumibilmente usato nel senso di “tenere la linea!”.

    MONTJOIE
    Lo stendardo di Carlo Magno, detto Orifiamma o Montjoie: lo si metteva su una lancia.



    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xviii.html

    Edited by joe 7 - 6/4/2024, 21:56
     
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    PARADISO CANTO 18 - QUINTO CIELO DI MARTE: SPIRITI COMBATTENTI PER LA FEDE - PASSAGGIO AL SESTO CIELO DI GIOVE: SPIRITI GIUSTI (seconda parte)

    SAN-GIORGIO
    Curiosamente, tra gli spiriti combattenti manca San Giorgio. Veneratissimo, è patrono dell'Inghilterra e di altri Paesi.


    Siamo sempre al Quinto Cielo di Marte: Cacciaguida continua la presentazione degli Spiriti Combattenti. Prima aveva presentato Giosuè, Giuda Maccabeo, Carlo Magno e Orlando. Ora abbiamo la presentazione degli Spiriti Combattenti successivi.

    GUGLIELMO D'ORANGE E RENOARDO: LA COPPIA EROICA

    GUGLIELMO-D-ORANGE
    Guglielmo d'Orange: per rendere il personaggio, ho preso un'immagine dell'anime King Arthur.


    Dante così li presenta, tutti insieme, in una sola terzina:

    Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo (Poi Guglielmo d'Orange e Rinoardo)
    e ‘l duca Gottifredi la mia vista (e Goffredo di Buglione attrassero la mia vista)
    per quella croce, e Ruberto Guiscardo (lungo quella croce, e così Roberto il Guiscardo.)

    Guglielmo d'Orange era chiamato anche Guglielmo d'Aquitania o Guglielmo Fortebraccio. Era un Duca e membro della famiglia reale; fu anche consigliere di Carlo Magno e un valoroso uomo d'arme. Combattè contro i Baschi Vasconi risiedenti a Navarra (Spagna), alleati dei Mori (tra l'altro, la Navarra confina proprio col famoso passaggio di Roncisvalle, dove morì Orlando). Respinse anche i Saraceni, guidati dall'Emiro di Cordova (Spagna) Hisham I, che voleva fare la Guerra Santa contro il resto dell'Europa. La battaglia avvenne nel 793 al fiume di Orbieu (Carcassonne), nel sud della Francia, cioè nella regione dell'Aquitania. Partecipò anche alla conquista di Barcellona, che fu strappata ai Mori.

    Divenne marchese della Marca di Spagna, istituita da Carlomagno: si trattava del territorio spagnolo tolto ai musulmani (era composta dal nordest (Navarra) e dal sudest (Barcellona) della Spagna, nelle aree quindi vicine ai Pirenei). Per proteggersi dalle incursioni dei Mori circostanti, lungo tutta la Marca furono istituite delle guarnigioni militari: si trovavano a Barcellona, Gerona, Lleida. A Gerona, in particolare, Guglielmo d'Orange fondò un monastero, dove, negli ultimi anni di vita, si ritirò vivendo da frate e facendo penitenza. Morì laggiù nell'812, ed era da tutti già venerato come santo. Intorno alla figura di Guglielmo d'Orange nacque un ciclo di canzoni sulle sue imprese (le famose chanson de geste francesi, come la Chanson de Roland). Questo ciclo di canzoni fu chiamato "Ciclo di Orange" ed ebbe molta fortuna nel Medioevo, specialmente in Italia. Adesso è praticamente dimenticato.

    RENOARDO

    BENKEI
    Il gigantesco e fortissimo Renoardo, ex-musulmano e fedele amico di Guglielmo d'Orange. Il personaggio di Benkei che presento qui, che era l'enorme monaco al servizio del suo amico, il samurai Minamoto, rende l'idea di Renoardo. Secondo la leggenda, Benkei morì combattendo, ma rimanendo in piedi anche da morto.


    Renoardo non è un personaggio storico, o meglio, la sua esistenza non è storicamente provata. E' uno dei protagonisti del "Ciclo d'Orange": era un saraceno di umili origini, che faceva lo sguattero. Il suo nome completo infatti era "Rainouart au tinel", cioè "Renoardo dal tinello". Era dotato di una forza smisurata, e la sua arma era una clava. Convertito al cristianesimo da Guglielmo d'Orange, divenne il suo fido compagno d'arme, sul modello del legame esistente fra Carlo Magno e il paladino Orlando. È uno dei principali personaggi del Ciclo d'Orange e anche lui finisce i suoi giorni come monaco in penitenza, come il suo signore.

    GOFFREDO DI BUGLIONE, IL DIFENSORE DI GERUSALEMME

    GOFFREDO-DI-BUGLIONE
    Goffredo di Buglione è nominato capo della conquista e difesa di Gerusalemme. La sua forza era leggendaria: con un solo colpo della sua spada, tagliò la testa ad un enorme cammello.


    Goffredo di Buglione (1060-1100) è stato un cavaliere franco e uno dei comandanti della Prima Crociata. Torquato Tasso ne fece il protagonista della sua Gerusalemme liberata. Nacque a Baisy, in Francia, e la sua carica fu quella di Duca di Lorena. Per le spese della spedizione della Crociata non esitò a vendere i suoi castelli di Stenay e Bouillon, che era la sua residenza preferita. La spedizione era composta da 12.000 uomini. Goffredo di Buglione mostrò eccezionali doti militari: conquistò la città di Antiochia, che era una poderosa roccaforte turca. Gerusalemme, che era in mano ai cristiani ai tempi di Costantino, fu prima conquistata dai Persiani nel 614, ai tempi della caduta dell'Impero Romano. Dopo solo vent'anni, nel 638, cadde in mano ai musulmani. L'Imam al-Ḥākim, che comandava a Gerusalemme, oltre ad opprimere duramente i cristiani come si era sempre fatto nei secoli precedenti di dominazione musulmana nella città, distrusse anche numerose chiese, fra le quali persino la basilica del Santo Sepolcro, dove fu sepolto Gesù e dove avvenne la Resurrezione. Il fatto suscitò un grande sdegno in Occidente. Goffredo di Buglione mise sotto assedio Gerusalemme per lungo tempo: alla fine, i Crociati liberarono la città nel 1099. Goffredo divenne il primo sovrano del nuovo Stato crociato, chiamato Regno di Gerusalemme. Rifiutò tuttavia il titolo di re, perché il vero Re di Gerusalemme è Cristo. Quindi si fece chiamare Difensore del Santo Sepolcro (dal latino Advocatus Sancti Sepulchri). Rimase a Gerusalemme dopo la conquista della città e ne organizzò la difesa contro i musulmani. Morì in Terrasanta nel 1100 e suo fratello Baldovino fu il successore.

    ROBERTO IL GUISCARDO, DIFENSORE DEL PAPA E DELLA CHIESA

    ROBERTO-IL-GUISCARDO
    Con Roberto il Guiscardo si conclude l'elenco degli Spiriti Combattenti per la Fede.


    Roberto il Guiscardo (cioè "l'astuto"), o Roberto d'Altavilla (1015-1085), fu un condottiero normanno. Divenne duca di Puglia e Calabria nel 1059. Combattè contro i Longobardi e pose fine al dominio bizantino nell'Italia meridionale, che minacciava la Chiesa. Infatti, i bizantini seguivano la religione ortodossa, nata dopo lo Scisma d'Oriente del 1054. Combattè contro i Saraceni in Sicilia, ponendo fine al loro dominio sull'isola. Combattè in particolare contro l'imperatore tedesco Enrico IV, che stava conquistando Roma, dopo la sua famosa (e finta) umiliazione a Canossa dal Papa, per riavere la sua autorità imperiale.

    CANOSSA
    Il falso pentimento dell'imperatore Enrico IV a Canossa.


    Una volta che fu perdonato, Enrico IV attaccò appunto Roma e il Papa dovette rifugiarsi nella roccaforte di Castel Sant'Angelo a Roma per non finire ucciso nel massacro. Il Guiscardo respinse Enrico IV,, ma le sue stesse truppe, non controllate, saccheggiarono Roma dopo il saccheggio di Enrico IV. Dopo altre battaglie, morì e fu sepolto a Venosa, in Basilicata, con la scritta "Qui giace il Guiscardo, terrore del mondo".

    IL DANTE DI NAGAI

    jpg
    Dante e Cacciaguida secondo Nagai.


    Riguardo a quello che accade nel Cielo di Marte, di cui abbiamo appena finito l'analisi, nel manga di Nagai Cacciaguida non presenta le anime dei combattenti della fede a Dante. Ecco i dialoghi:
    Dante: Oh! Ma tu sei...
    Cacciaguida: Dante! Io sono Cacciaguida, il padre del tuo bisnonno.
    Dante: Cacciaguida! Il valoroso martire del quale ho sempre sentito parlare fin da bambino! Tu forse puoi rispondere a questa domanda: la strada che ho intrapreso con la mia vita, con le mie battaglie...è quella giusta?
    Cacciaguida: Dante, figliolo, purtroppo tu sarai costretto a vivere in esilio! Ma non devi perderti d'animo! Devi seguire il mio esempio, sforzandoti di percorrere la strada della fede! Tu, Dante, riferirai al mondo tutto ciò che hai veduto finora! Sono certo che ora sai! Ora capisci cosa significhi vivere rettamente! La tua poesia immortale, i tuoi versi divini diffonderanno per sempre questo messaggio!
    Beatrice: Guarda! Gli angeli che popolano il cielo di Marte si sono radunati e stanno cantando e danzando! E' la loro benedizione per il proseguimento del tuo viaggio!


    Nel canto originale non ci sono schiere di angeli danzanti che benedicono il viaggio di Dante. Anzi, finora, a danzare sono solo le anime dei Beati. Dante, nel poema, non dice che lui aveva sentito parlare delle gesta di Cacciaguida sin da bambino: anzi, sembra che lui non sapesse niente del suo avo. Dante, sempre nel poema, non chiede a Cacciaguida se la sua strada è giusta (che senso ha chiederlo, visto che adesso è in Paradiso, e ha fatto pace prima col suo passato nel Purgatorio?). Piuttosto, nel poema originale gli chiede prima dei dati personali (chi è, quando nacque, chi erano suoi avi, chi era la gente della Firenze dei suoi tempi); poi gli chiede quello che gli accadrà, visto che all'Inferno e in Purgatorio avevano fatto dei cenni cupi sul suo futuro. Come si vede dal discorso di Cacciaguida nel manga, il nome di Dio non è nominato, nè come aiuto, nè come guida. L'uomo (Dante) qui nel manga di Nagai è solo, e deve solo "seguire l'esempio" di Cacciaguida. Cioè quello un altro uomo, non di Dio. Certo, Cacciaguida nel manga parla di "sforzarsi di percorrere la strada della fede"...ma intende lo sforzarsi da solo. Non si dice mai nel manga di chiedere l'aiuto a Dio. Ancora qui, come nelle altre parti del manga di Nagai, Dio è il grande assente: se lo si cita, spesso è solo per criticarlo. Per esempio: come può Dio mandare all'Inferno, in un posto così brutto, tanta povera gente, poverina, che soffre tanto, ma tanto, e tra di loro anche tante belle donne nude che soffrono, oh quanto soffrono, non è giusto. Nagai non dice mai che i dannati sono all'Inferno per loro scelta, e questo nonostante l'aiuto che Dio stesso voleva dare loro, dando persino il Suo sangue in croce. La visione cristiana in Nagai, insomma, non c'è. C'è la visione pagana, dove l'uomo è solo e le divinità sono lontane.

    ASCESA AL CIELO DI GIOVE

    Alla fine della rassegna, Cacciaguida si riunisce alle altre luci dei beati, cantando assieme a loro e mostrandosi degno artista tra quei cantori del Cielo. Dante torna a rivolgersi a Beatrice, per sapere cosa dovrebbe fare adesso, e vede i suoi occhi così splendenti come non gli erano mai sembrati finora. Il poeta si rende conto, in quel momento, di essere salito al Cielo successivo, il Sesto Cielo di Giove, quello degli Spiriti Giusti. Dante si accorge infatti che questo nuovo Cielo ruota con un arco più ampio del precedente. Inoltre, nota che la bellezza di Beatrice è ulteriormente aumentata. Non solo: il pianeta al quale è attribuito il Cielo non è più rosso: ha mutato colore, passando dal rosso all'argento, proprio come fa una donna, che, dopo essere arrossita (il colore di Marte), riacquista in breve tempo il suo candore (spiega Dante facendo questo paragone).

    GLI SPIRITI GIUSTI. LA SCRITTA SIMBOLICA E LA FIGURA DELL'AQUILA

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    Nel Cielo appaiono le anime degli Spiriti Giusti, che si uniscono tra di loro, formando così delle lettere dell'alfabeto: compare così una D, poi una L o una I. Quelle anime sono simili agli uccelli che, dopo essersi levati in volo, si rallegrano a vicenda e formano schiere di varia forma. Dapprima, cantando, si muovono al ritmo del loro canto; poi, trasformandosi in uno di queste lettere ("segni", li chiama Dante), si fermano e tacciono per un poco. Raffigurano alla fine una scritta di senso compiuto: Dante invoca la Musa, chiamandola "Diva Pegasea" (il cavallo alato Pegaso, secondo il mito classico, fece scaturire dall'Elicona, il monte delle Muse, la fonte Ippocrene, che era il simbolo dell'ispirazione poetica) e le chiede un'alta ispirazione, in modo da poter descrivere le figure viste, a dispetto della pochezza dei suoi versi.

    Le anime formano in tutto trentacinque lettere, che unite danno luogo alla scritta: "DILIGITE IUSTITIAM, QUI IUDICATIS TERRAM", cioè "Amate la giustizia, voi che giudicate la Terra". E' il primo versetto del Libro della Sapienza dell'Antico Testamento ed è un richiamo severo a tutti coloro che, sulla Terra, hanno responsabilità importanti, sia laici che uomini di Chiesa. Il cui cattivo esempio, infatti, è fonte di quasi tutti i mali denunciati nella Commedia.

    Alla fine, le luci restano unite a formare l'ultima "M", che sta per "monarchia", sfolgorando dorate e stagliandosi sul colore argenteo di Giove, poi, dall'alto, scendono delle altre luci che si uniscono sulla parte alta della "M", raffigurando una sorta di giglio araldico. In seguito, Dante vede più di mille luci salire dalla parte alta della lettera "M", simili alle scintille che sprizzano da un ciocco di legno che arde, dalle quali gli sciocchi (pagani e increduli) sono soliti trarre auspici ("onde li stolti sogliono agurarsi") ed esse formano il collo e la testa di un'aquila (l'aquila è il simbolo regale). Il poeta osserva che chi ha dipinto quella figura di aquila, cioè Dio, non ha maestro né modello e quindi la virtù creativa che dà origine agli esseri viventi ha inizio da Lui.

    Quei che dipinge lì, non ha chi ‘l guidi; (Colui che dipinge lì (Dio) non ha modelli né maestri,)
    ma esso guida, e da lui si rammenta (ma è Lui stesso maestro, e da Lui si riconosce)
    quella virtù ch’è forma per li nidi. (quella virtù creativa che è forma per gli esseri generanti nei nidi.)

    Anche le altre luci che, prima, formavano la figura della 'M', ora si dispongono a rappresentare il corpo dell'aquila.

    INVETTIVA DI DANTE CONTRO I PAPI CORROTTI E GIOVANNI XXII

    Dante è rapito nell'osservare quelle luci, simili a gemme, che costellano il Cielo di Giove, rappresentando la giustizia: capisce che l'influsso stesso della Giustizia promana da quella stella.

    O dolce stella, quali e quante gemme (O dolce stella, quali e quante gemme (i beati)
    mi dimostraro che nostra giustizia (mi dimostrarono che la nostra giustizia umana)
    effetto sia del ciel che tu ingemme! (è prodotto del Cielo che tu impreziosisci!)

    Poi prega Dio di rivolgere lo sguardo sulla Terra, là dove esce il fumo della corruzione che offusca tale benefico influsso.

    Per ch’io prego la mente in che s’inizia (Dunque io prego la mente (di Dio)
    tuo moto e tua virtute, che rimiri (in cui la tua virtù e il tuo moto iniziano, di osservare)
    ond’esce il fummo che ’l tuo raggio vizia; (da dove esce il fumo che oscura il tuo raggio;)

    Questo termine, "fummo che il tuo raggio vizia", "fumo che oscura il Tuo raggio", è curioso, perchè somiglia molto al "fumo di satana che è entrato nel tempio di Dio", come disse Paolo VI cinquant'anni fa, il 29 Giugno 1972, nella più drammatica allocuzione (cioè, discorso fatto in occasioni solenni) del suo pontificato. Per la precisione disse:

    "Abbiamo (allora il Papa parlava col plurale maiestatis, quindi col "noi", caratteristica dei Papi e dei Re) la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di satana nel Tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita. E non avvertiamo di esserne invece già noi padroni e maestri. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce (fa riferimento al Concilio Vaticano II, che Giovanni XXIII definiva “porte e finestre aperte perché entri aria fresca”). Dalla scienza, che è fatta per darci delle verità che non distaccano da Dio ma ce lo fanno cercare ancora di più e celebrare con maggiore intensità, è venuta invece la critica, è venuto il dubbio.(...) Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza".

    Ci furono poi gli Anni di Piombo e l'omicidio Moro. E quello era solo l'inizio.

    PAOLO-VI


    Tornando a Dante, il poeta rincara la dose, chiedendo l'ira divina per il commercio simoniaco che avviene in seno alla Chiesa, edificata sui miracoli e sul martirio:

    sì ch’un’altra fiata omai s’adiri (cosicché si adiri un'altra volta)
    del comperare e vender dentro al templo (del mercato che si fa dentro al Tempio,)
    che si murò di segni e di martìri. (che fu costruito con miracoli e col martirio (la Chiesa).

    Non si tratta solo del comprare e vendere cose sacre: ma peggio, trattare la stessa Chiesa e la Sua verità come se fosse qualcosa di malleabile a seconda delle circostanze. E' uno svendersi al miglior offerente, come fanno le prostitute. Dante usa lo stesso linguaggio dei profeti: invoca anche la preghiera dei beati a favore degli uomini in Terra, sviati dal cattivo esempio della Chiesa, allora come adesso:

    O milizia del ciel cu’ io contemplo, (O esercito del Cielo che io contemplo,)
    adora per color che sono in terra (prega per coloro che, in Terra,)
    tutti sviati dietro al malo essemplo! (sono sviati dal cattivo esempio (della Chiesa)

    Un tempo infatti si faceva guerra con le spade: ma ora la si fa sottraendo ai fedeli il cibo spirituale (l'Eucarestia) che Dio, invece, non nega a nessuno.

    Già si solea con le spade far guerra; (Un tempo si faceva guerra di solito con le spade;)
    ma or si fa togliendo or qui or quivi (ora invece si fa togliendo a questo e a quello)
    lo pan che ’l pio Padre a nessun serra. (il pane (l'Eucarestia) che Dio non nega a nessuno.)

    Questa terzina ricorda in modo impressionante il fatto della "Pasqua assente" del 2020, in cui, a causa del lockdown e del covid, la paura anche nella Chiesa fu tale da negare persino l'Eucarestia, per non parlare delle Messe negate per tre mesi. Così, per la prima volta da venti secoli, in Chiesa non si fece nemmeno il rito della Pasqua. Anzi, in quello spaventoso periodo di tre mesi non era possibile confessarsi e nemmeno ricevere l'Estrema Unzione.

    andr-tutto-be
    Un'immagine molto simbolica.


    Dante, infine, esorta papa Giovanni XXII (che fu Papa dal 1316 al 1334: sarà l'ultimo Papa che Dante conoscerà, prima di morire) a pensare a san Pietro e san Paolo, che diedero la vita per quella Chiesa, che ora il pontefice corrompe, e a pensare che questi santi sono tuttora viventi (perchè sono in Paradiso). Invece, Papa Giovanni XXII scrive al solo scopo di cancellare, accusa Dante (ed è molto attuale anche questo),

    Ma tu che sol per cancellare scrivi, (Ma tu che scrivi solo per cancellare (papa Giovanni XXII)
    pensa che Pietro e Paulo, che moriro (pensa che san Pietro e san Paolo, che morirono)
    per la vigna che guasti, ancor son vivi. (per la vigna (la Chiesa) che tu corrompi, sono ancora vivi.)

    Ma Dante stesso mette in bocca al Papa la sua risposta: il Papa non si cura di questo, perchè pensa solo a san Giovanni Battista (che è stampato sul Fiorino, la moneta di Firenze: è come dire che pensa solo ai soldi), il santo che visse nel deserto e fu fatto uccidere da Salomè; mentre non conosce né il pescatore (san Pietro) né Polo (san Paolo). Giovanni XXII, per bocca di Dante, si riferisce ai due santi in modo sprezzante e derisorio: "pescator" e "Polo", la forma volgare di Paolo.

    Ben puoi tu dire: "I’ ho fermo ’l disiro (Certo tu puoi dire: "Io desidero fermamente)
    sì a colui che volle viver solo (colui (san Giovanni Battista) che volle vivere solo nel deserto)
    e che per salti fu tratto al martiro, (e che fu condotto al martirio con una danza ("salti" di Salomè)

    ch’io non conosco il pescator né Polo». (cosicché io non conosco il pescatore (Pietro) né Polo (Paolo).")

    COMMENTO

    Il canto è strutturalmente diviso in due parti:
    1) la conclusione dell'episodio di Cacciaguida (con la presentazione degli spiriti combattenti)
    2) l'ascesa al Cielo di Giove, con la complessa formazione dell'aquila, preludio al discorso sulla giustizia che occuperà i prossimi due canti. Infatti, il Cielo di Giove è quello degli Spiriti Giusti, cioè che fanno giustizia.

    All'inizio del Canto, Dante riflette su quello che gli ha appena detto Cacciaguida: cioè l'ingiustizia che dovrà subire e la missione della Commedia che dovrà realizzare. In particolare, il cenno sul sopruso e sull'esilio subirà è un preannuncio del successivo passaggio al Cielo di Giove, col discorso successivo sulla Giustizia. Beatrice poi gli ricorda che lei, che è vicina a Dio, rivolgerà le sue preghiere in favore di Dante. Con questo cenno di Beatrice, Dante vuole far capire che giustizia divina è destinata alla fine a prevalere sulle ingiustizie terrene, assegnando nell'Aldilà premi e punizioni a seconda delle azioni compiute in vita.

    Cacciaguida conclude qui il suo lungo intervento, presentando a Dante i principali Spiriti Combattenti che occupano la croce luminosa, vista da Dante all'inizio della sua entrata al Cielo di Marte: personaggi che hanno combattuto per la conquista della Terrasanta (Giosuè e Giuda Maccabeo), o per la sua difesa durante le Crociate (Cacciaguida stesso, poi Goffredo di Buglione), oppure si sono battuti contro i Saraceni in Spagna e in Francia (Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d'Orange, Rinoardo) o in Italia meridionale (come Roberto il Guiscardo, che affrontò i musulmani in Sicilia e gli ortodossi bizantini).

    Questi spiriti hanno combattuto per difendere la fede e per la giustizia: quasi la stessa cosa dei governanti che Dante presenterà nel Cielo di Giove, e che hanno correttamente operato nell'esercitare le loro funzioni. Come al solito, Dante non si accorge di essere salito al Cielo successivo, se non da alcuni indizi visivi (il mutato colore del pianeta, che da rosso è diventato argenteo, il moto circolare del Cielo che è più ampio, l'accresciuta bellezza degli occhi di Beatrice) e in seguito gli appaiono subito gli Spiriti Giusti, che scintillano dorati sul colore tenue del pianeta Giove, sfavillando intorno a Dante e dando vita a una complessa figurazione che introduce il discorso successivo sulla Giustizia.

    Le luci delle anime si dispongono a formare la scritta in latino «amate la giustizia, o voi che giudicate la Terra». La scena è talmente complessa che, per descriverla al meglio, Dante deve fare ricorso a tutto il suo ingegno poetico, invocando l'aiuto delle Muse perché lo assistano in quest'ardua impresa. Infatti, le luci indugiano a formare la lettera 'M' che conclude la scritta e che unanimemente è interpretata come l'iniziale della parola «Monarchia», mentre altre luci si aggiungono nella parte alta della lettera M e la trasformano in un giglio araldico. Successivamente, altre luci modificheranno la figura, fino a tramutarla in un'aquila, cioè il simbolo dell'Impero Romano e di quello Germanico (il Sacro Romano Impero Germanico) che ne era il legittimo successore, destinato, secondo Dante, ad assicurare il buon governo al mondo cristiano e la giustizia attraverso l'applicazione delle leggi. La rappresentazione è un modo per affermare nuovamente la necessità di un'autorità centrale e suprema, che per Dante coincideva con l'imperatore tedesco e la cui assenza in Italia era fonte di soprusi e ingiustizie, nonché di quel disordine politico in cui il suo stesso esilio era maturato. Il finale del Canto è occupato dalla tremenda invettiva (una delle più forti della Commedia) che Dante rivolge alla Chiesa corrotta (Clemente V aveva trasferito la sede papale ad Avignone su pressione del re francese Filippo il Bello, e Giovanni XXII fu il Papa successivo, sempre residente ad Avignone).

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xviii.html
     
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    PARADISO CANTO 19 - SESTO CIELO DI GIOVE: SPIRITI GIUSTI - IL PROBLEMA DELLA SALVEZZA

    AQUILA
    L'aquila composta dai beati inizia a formarsi nel Cielo di Giove, quello dei Giusti. E' il Cielo dei Re e del Giudizio: per questo si parla qui del Giudizio Finale.


    L'AQUILA - CIOE' I MOLTI IN UNO - INIZIA A PARLARE

    Nel Sesto Cielo di Giove, quello degli Spiriti Giusti, l'aquila di prima si staglia di fronte a Dante con le ali aperte: è composta da migliaia di spiriti giusti, che godono della visione divina. Ognuno di essi sembra un rubino che scintilla, colpito dai raggi del sole. Ad un tratto, tutte le anime iniziano a parlare insieme come se fossero una cosa sola. Un evento straordinario che Dante si sforza di descrivere: è come se a parlare fosse l'aquila col suo becco, dicendo "io" e "mio", anziché "noi" e "nostro". E' un'unità totale.

    Parea dinanzi a me con l’ali aperte (Appariva davanti a me, con le ali spiegate,)
    la bella image che nel dolce frui (la bella immagine (l'aquila) che, nella dolce visione di Dio)
    liete facevan l’anime conserte; (era formata dalle anime liete)

    "Frui" è "fruire": un infinito sostantivato che significa "godimento". Dal latino "frui", "godere".

    parea ciascuna rubinetto in cui (ognuna delle anime sembrava un rubino)
    raggio di sole ardesse sì acceso, (colpito da un raggio di sole, talmente splendente)
    che ne’ miei occhi rifrangesse lui. (da rifletterne la luce nei miei occhi.)

    E quel che mi convien ritrar testeso, (E ciò che ora devo descrivere)
    non portò voce mai, né scrisse incostro, (non fu mai pronunciato a voce, né scritto con l'inchiostro,)
    né fu per fantasia già mai compreso; (né mai concepito dalla fantasia umana;)

    ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro, (infatti io vidi e udii anche il becco dell'aquila)
    e sonar ne la voce e «io» e «mio», (che parlava e diceva con la sua voce «io» e «mio»,)
    quand’era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’ (volendo in realtà dire «noi» e «nostro».)

    Infatti l'aquila parla usando "io" come soggetto, ma per la verità stanno parlando tutti insieme i beati che la compongono, all'unisono:

    E cominciò: «Per esser giusto e pio (E iniziò: «Per essere stato in vita giusto e devoto,)
    son io qui essaltato a quella gloria (io sono qui innalzato a quella gloria)
    che non si lascia vincere a disio; (che non viene vinta da alcun desiderio mortale;)

    e in terra lasciai la mia memoria (e sulla Terra lasciai un tale ricordo,)
    sì fatta, che le genti lì malvage (che persino gli uomini malvagi)
    commendan lei, ma non seguon la storia». (lo lodano, anche se poi non lo seguono».)

    L'aquila - o i beati che la compongono, se preferite - afferma che gli spiriti che la compongono sono stati sulla Terra giusti e devoti: hanno cioè dimostrato le due virtù (giustizia e pietà) attribuite a Traiano nell'episodio del Purgatorio, in cui, nella Cornice dei Superbi, si facevano vedere i modelli di umiltà, come appunto l'imperatore Traiano che ascoltava una vedova. Per questo si pensa che i beati che compongono l'aquila siano soprattutto dei re e principi.
    Dopo questo, Dante sottolinea il fatto dei tanti che parlano come fossero uno solo, col paragone delle braci: come da molte braci promana un unico calore, così dalle molte anime di quell'immagine di aquila usciva un unico suono.

    IL DUBBIO DI DANTE: LA SALVEZZA DEI NON CREDENTI

    Dante si rivolge agli spiriti che formano l'aquila, e che gli sembrano dei fiori che emanano un solo profumo: vuole che gli chiariscano un dubbio, che lui chiama "gran digiuno": sulla Terra non è riuscito mai a chiarirlo (e, sempre in riferimento al digiuno, Dante lo spiega dicendo che questo dubbio-digiuno "lungamente m’ha tenuto in fame"). Si tratta del problema della salvezza per i non credenti. Dante precisa che la giustizia divina si riflette nella gerarchia angelica dei Troni: qui però siamo nel Cielo di Giove, dove c'è la gerarchia angelica delle Dominazioni. Solo nel Cielo successivo, quello di Saturno, c'è la gerarchia angelica dei Troni, che riflettono appunto la Giustizia Divina. Tuttavia Dante è certo che quegli spiriti beati conoscono la Giustizia Divina senza veli. Egli è pronto ad ascoltare la loro risposta, poiché essi conoscono già la sua domanda.

    GERARCHIE ANGELICHE

    Mi rendo conto che, con questi discorsi sui Troni e Dominazioni sia facile perdere un pò il filo del discorso. Per chiarirmi, interrompo un momento la Commedia e presento qui tutte le Gerarchie Angeliche, alle quali avevo già accennato qui:

    CHERUBINI


    - ANGELI: sono la gerarchia più bassa e più vicina agli uomini. Per esempio, ognuno di noi ha un Angelo Custode. Gestiscono il cielo della Luna, il più basso.
    - ARCANGELI: sono sopra gli Angeli: si occupano dei gruppi e delle nazioni. Ogni Nazione, o popolazione, o gruppo etnico, eccetera, ha il suo Arcangelo. Gestiscono il Cielo di Mercurio.
    - PRINCIPATI: sono sopra gli Arcangeli. Sono gli angeli della storia e del tempo, guardiani delle nazioni e delle contee (gruppi di nazioni), e di tutto quello che concerne i loro problemi ed eventi, inclusa la politica, i problemi militari, il commercio e lo scambio. Gestiscono il Cielo di Venere.
    - POTESTA': sono sopra i Principati. Gestiscono la sapienza e quindi discipline come la filosofia, la teologia, la religione, e a tutti i documenti che appartengono a questi studi. Gestiscono il Cielo del Sole.
    - VIRTU': sono sopra le Potestà. Si chiamano anche "Fortezze". Gestiscono il coraggio saldo e intrepido in tutte le attività, accogliendo le illuminazioni donate da Dio. Sono gli Angeli combattenti e presiedono ai grandi cambiamenti della storia. Gestiscono il cielo di Marte.
    - DOMINAZIONI: sono sopra le Virtù. Sono Angeli che hanno l'incarico di regolare i compiti degli angeli inferiori: ricevono i loro ordini dagli Angeli superiori (Troni, Serafini, Cherubini o anche direttamente da Dio). Gestiscono il Cosmo: devono assicurarsi che il cosmo sia sempre in ordine. Sono gli angeli ai quali Dio affida la forza del dominare. Gestiscono il Cielo di Giove.
    - TRONI: sono sopra le Dominazioni. Il loro compito è quello di tradurre in opera la sapienza e il pensiero elaborato dai Cherubini (per questo riflettono anche la Giustizia Divina, come dice Dante). Gestiscono il Cielo di Saturno.
    - CHERUBINI: sono sopra i Troni. Sono perciò i guardiani della luce e delle stelle: rielaborano le intuizioni immediate dei Serafini traducendole in riflessioni e pensieri di saggezza, riguardanti l'evoluzione dei sistemi planetari. Sono Angeli dediti alla protezione, quindi sono posti a guardia dell'Eden e del trono di Dio. Ad essi è attribuita una perfetta conoscenza di Dio, superata soltanto dall'amore di Dio dei Serafini. Le sculture di due Cherubini contrapposti erano rappresentate sul coperchio dell'Arca dell'Alleanza. Gestiscono il Cielo delle Stelle.
    - SERAFINI: Sono l'ordine più elevato degli Angeli: gestiscono il Cielo Cristallino o del Primo Mobile, il più vicino a Dio. Dall'Empireo, cioè dalla Presenza Divina, ricevono in forma immediata le idee e le direttive con cui far evolvere tutto il complesso cosmico. La Bibbia li raffigura come angeli dotati di sei ali: due per volare, due per coprirsi il volto e due per coprirsi i piedi. Cantano continuamente le lodi di Dio: «Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della Sua gloria». Cantano la musica dei Cieli e regolano il movimento del cielo, così come loro comandato. Ardendo di amore e di zelo per Dio, emanano una luce così potente e brillante che nessuno, se non con occhi divini, può guardarli. Lucifero era un Serafino: dopo la sua ribellione a Dio, diventò satana, che significa "l'avversario", o diavolo (da "diabolos": "colui che divide") e cadde nell'inferno, cioè nell'assenza di Dio, nell'odio eterno.

    L'INIZIO DELLA RISPOSTA

    Nel rispondere alla domanda di Dante, l'aquila sembra un falcone al quale sia stato tolto il cappuccio: infatti, quando questo succede, il falcone inizia a muovere la testa e apre le ali, felice di librarsi in cielo ("Quasi falcone ch’esce del cappello, / move la testa e con l’ali si plaude, / voglia mostrando e faccendosi bello,"). Inoltre, le anime che la compongono intonano un canto che solo loro possono comprendere.

    L'aquila, successivamente, parla: vista la complessità dell'argomento, inizia da lontano. Dice che Dio ha creato l'Universo:

    "Colui che volse il sesto / a lo stremo del mondo"

    cioè "tracciò col compasso i confini dell'Universo". "Sesto" è il termine antico di "compasso". Dio ha creato le cose visibili e invisibili:

    "dentro ad esso / distinse tanto occulto e manifesto" (dentro l'Universo / fece le cose invisibili e visibili)

    Nella creazione, però, il Verbo di Dio (cioè, la sua Essenza, la sua Persona) resta infinitamente oltre ogni creatura. Cioè: nessuno, per quanto grande sia, può contenere Dio: Dio non può essere "contenuto" in una creatura, anche se fosse un Angelo. Per questo, Lucifero, chiamato dall'aquila " ‘l primo superbo", che fu la più alta di ogni creatura, si ribellò per la sua superbia e per non aver atteso la Grazia divina, cioè accettare l'azione amorevole di Dio su di lui. Nella sua superbia, Lucifero non solo si reputò come Dio, ma si credette addirittura superiore a Lui:

    E ciò fa certo che ‘l primo superbo, (E di ciò è prova il fatto che il primo peccatore di superbia (Lucifero)
    che fu la somma d’ogne creatura, (che fu la più perfetta di ogni creatura,)
    per non aspettar lume, cadde acerbo; (fu precipitato dal Cielo per non aver atteso il lume della grazia divina;)

    La visione umana, chiamata dall'aquila "vostra veduta", viene da Dio stesso:

    "convene / esser alcun de’ raggi de la mente / di che tutte le cose son ripiene" ("essa (la visione umana) / è solo uno dei raggi della mente divina / di Colui che è presente in tutte le cose")

    E la visione umana non è in grado, per sua natura, di comprendere il primo principio, Dio:

    "non pò da sua natura esser possente / tanto che suo principio discerna"

    Dio, infatti, è al di là della portata dei sensi dell'uomo:

    "molto di là da quel che l’è parvente"

    Ed è chiaro che qui Dante, per "sensi", non intende solo i cinque sensi, come la vista eccetera: intende anche tutte le capacità intellettuali dell'uomo.

    Per fare un paragone, l'aquila parla dell'occhio umano che vede la profondità del mare all'inizio, quando si trova alla riva. Ma, quando è in mezzo all'Oceano, questo è impossibile farlo. Eppure il fondo del mare c'è lo stesso, come alla riva, anche se non si vede. Allo stesso modo, l'uomo non può vedere la profondità della giustizia divina. Non nel senso che la giustizia divina possa essere ingiusta: anzi è assolutamente giusta. Però è al di là della comprensione dell'uomo.

    oceano
    Non si può vedere il fondo del mare: allo stesso modo non si può pretendere di vedere fino in fondo i giusti giudizi di Dio.


    Solo la luce che deriva direttamente da Dio può illuminare l'uomo:

    "Lume non è, se non vien dal sereno (Dio) / che non si turba mai"

    E questa luce è tale da non essere mai offuscata ("che non si turba mai"). Ogni conoscenza umana, invece, di per sè, essendo limitata, è imperfetta: è oscura ("tenebra"), è viziata dai sensi e dai limiti del corpo ("ombra de la carne") e può portare a credenze errate ("suo veleno"). L'uomo non è onnipotente nè onnisciente: Dio sì. Questo dice l'aquila, in sintesi. E' la prima cosa da tenere da conto.

    UN PROBLEMA SEMPRE SENTITO

    Dante, a questo punto, può capire la risposta al suo dubbio. Lo ripeto in sintesi: se qualcuno nasce in luoghi lontani

    "Un uom nasce a la riva / de l’Indo" (cioè in un luogo lontanissimo)

    dove non ha mai sentito parlare di Cristo

    "e quivi non è chi ragioni / di Cristo né chi legga né chi scriva" (cioè lì nessuno parla, o insegna, o scrive, di Cristo)

    e vive un'esistenza virtuosa senza commettere alcun peccato, insomma è una persona buona - per quanto sia possibile esserlo - e muore senza essere stato battezzato e quindi è privo della fede cristiana (condizione necessaria per essere salvati)...allora non può ottenere la salvezza? Non può salvarsi? Che colpa aveva lui nel non credere?

    "ov’è la colpa sua, se ei non crede?"

    Come può questo conciliarsi con la giustizia divina? Questa domanda se la chiedono anche gli uomini d'oggi: però, come si vede a leggere Dante, non è certo una cosa che l'uomo ha scoperto nel 2000. Il problema si sentiva già nel Medioevo: anzi, c'è già nel Vangelo di Giovanni (14, 22), per esempio, in cui l'apostolo Giuda Taddeo (non Giuda Iscariota, il traditore) chiede a Gesù: "Signore, che è mai successo che tu stai per manifestare te stesso a noi e non al mondo?". Cioè, se tu sei Dio, perchè non ti riveli subito a tutti, visto che lo puoi fare? Perchè ti riveli solo a noi? E Gesù risponde senza dare una risposta diretta, perchè vuole sottolineare qual'è la cosa importante: seguirlo, non farsi delle domande sul suo operato. Chiede insomma fiducia in Lui, anche su questo problema. E la sua risposta è: "Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola". E questo vale per gli uomini di tutti i tempi (anche prima di Cristo) e di tutti i luoghi. E' in pratica la risposta che darà l'aquila a Dante.

    Giuda-Taddeo
    Giuda Taddeo, spesso confuso con Giuda il traditore. Apostolo e cugino di Gesù, è considerato il santo dei casi impossibili: ogni preghiera a lui è sicura di essere esaudita.


    LA RISPOSTA

    Per prima cosa, l'aquila spiega che Dante, in quanto uomo, non può certo ergersi a giudice di una questione così profonda, né pretendere di vedere con la sua vista limitata una verità che dista mille miglia da lui. Sono cose troppo alte da comprendere appieno. Non bisogna pretendere di capire ogni cosa: altrimenti saresti come il bambino che vuole capire tutto del padre, sia della sua vita che del mondo attorno a lui, compresi i problemi politici e sociali. Tipo Mafalda, la bambina di Quino, che pretende di capire tutto senza capire nulla.

    Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, (Ora chi sei tu, che vuoi ergerti a giudice)
    per giudicar di lungi mille miglia (e sentenziare a mille miglia di distanza,)
    con la veduta corta d’una spanna? (con la vista che a malapena arriva a una spanna?)

    L'aquila dice che chi fa dei ragionamenti elaborati e sottili sulla giustizia divina su questo problema, senza tenere da conto quello che dice la Bibbia, va a finire che sragiona. Per esempio, la Bibbia dice: "Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità." (Prima Lettera di San Paolo a Timoteo 2, 3-4). In sostanza, la Scrittura dice che è verità di fede che Dio vuole tutti salvi, anche quelli lontani: come, in che modo, questo lo sa Lui. E ognuno, credente o no, è libero di scegliere se accogliere la Sua salvezza o no. L'importante, però, è non preoccuparsi di questo problema, ma seguire Gesù e predicarlo con la propria vita agli altri. Esattamente quello che ha detto Gesù a Giuda Taddeo nell'esempio di prima.

    Certo a colui che meco s’assottiglia, (Certo colui che fa sottili ragionamenti ("s'assottiglia") su di me (cioè sulla giustizia divina: l'aquila qui si identifica con essa)
    se la Scrittura sovra voi non fosse, (se non ci fosse al di sopra di voi la Sacra Scrittura)
    da dubitar sarebbe a maraviglia. (potrebbe dubitare in modo sorprendente)

    L'aquila deplora la superficialità dei giudizi umani. La volontà di Dio è di per sé buona e non si è mai allontanata da se stessa: è come dire che Dio è buono, anzi "solo Dio è buono", e resta sempre tale. E quindi vuole, come un Padre, la salvezza di tutti i suoi figli. La risposta, però, spetta sempre a loro, che siano credenti o meno. Nel Giudizio Finale, Gesù giudicherà non chi è stato cristiano e chi non lo è stato, ma chi ha amato e chi no. "Venite, o benedetti del Padre mio: perchè ero affamato e mi avete dato da mangiare; ero assetato e mi avete dato da bere; ero nudo e mi avete vestito; ero malato e mi avete visitato; ero in prigione e siete venuti a trovarmi. E agli altri: Via, lontano da me, maledetti, perchè ero affamato e non mi avete dato da mangiare; ero assetato e non mi avete dato da bere; ero nudo e non mi avete vestito; ero malato e non mi avete visitato; ero in prigione e non siete venuti a trovarmi."

    Oh terreni animali! oh menti grosse! (Oh, creature terrene! Oh, menti grossolane!)
    La prima volontà, ch’è da sé buona, (La prima volontà (Dio), che è buona di per sé,)
    da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. (non si è mai mossa da se stessa che è il sommo bene.)

    Qui è la conclusione dell'aquila: la volontà divina è giusta, perchè è buona ed è da essa che viene la bontà delle azioni umane. Infatti, ogni buona azione dell'uomo viene da Dio, non dall'uomo: è Dio che ci fa buoni, non siamo noi a diventarlo con le nostre forze. Non significa però che siamo delle marionette: Dio ci ispira il bene, però siamo noi a rispondere liberamente alle sue ispirazioni, accettandole (quindi facendo il bene) o rifiutandole (quindi facendo il male):

    Cotanto è giusto quanto a lei consuona: (Tutto ciò che è conforme alla volontà divina è giusto: )
    nullo creato bene a sé la tira, (nessuna creatura è capace, da sola, di attirare a sé Dio, (cioè di fare il bene senza di Lui)
    ma essa, radiando, lui cagiona».(ma è Dio stesso che ci manda ("radiando") la grazia di amare e di essere buoni)

    Che c'entra questo con il problema dei non cristiani? C'entra, perchè è Dio che ispira tutti - cristiani e non - alla salvezza. Quindi, non bisogna stare a dire "poverini, quelli lì non conoscono Dio": piuttosto, è Dio che conosce loro. Per questo bisogna lasciar fare a Lui. Senza però, per questo, da parte nostra, trascurare quello che Gesù ha comandato a noi cristiani: la predicazione della fede cristiana ai non credenti.

    giustizia
    La giustizia divina è infinitamente più giusta e più misericordiosa della nostra. Perchè noi non vediamo tutto: Dio sì.


    L'IMPORTANTE E' CREDERE E AGIRE DI CONSEGUENZA

    Al termine del suo discorso, l'aquila inizia a volteggiare intorno a Dante, come fa una cicogna che ha appena sfamato i piccoli, e il poeta la guarda ammirato. L'aquila intona un canto che Dante non comprende: come lui non comprende il canto, così lui non può comprendere la giustizia divina, spiega l'aquila. Essa è giusta, ma è oltre la comprensione umana. Come dire: se te la spiegassi, non la capiresti. Proprio come faceva il padre di Mafalda - una bambina delle Elementari - che rispondeva in questo modo alle sue richieste di spiegarle la situazione della guerra in Vietnam:

    "Mafalda, anche se ti spiegassi il problema del Vietnam, non lo capiresti."

    Mafalda
    Il mondo, Mafalda, non è un mappamondo. Non puoi capire tutto.


    L'aquila riprende la sua posizione e torna ad essere simile al simbolo dell'Impero Romano, quindi ricomincia a parlare e dichiara che nessuno è mai asceso al Paradiso, senza aver creduto in Cristo venturo o venuto:

    esso ricominciò: «A questo regno (l'aquila, diventata il simbolo dell'Impero Romano riprese a dire: «In questo regno (in Paradiso)
    non salì mai chi non credette ‘n Cristo, (non è mai asceso chi non ha creduto in Cristo,)
    né pria né poi ch’el si chiavasse al legno. (prima o dopo la sua crocifissione.)

    In Paradiso non ci va chi non crede in Cristo: nè prima della sua venuta, nè dopo di essa. E' come dire che quello che conta non è nascere prima o dopo Cristo, ma credere in Lui. E, in un modo misterioso, ci sono i pagani che hanno creduto in Cristo senza conoscerlo: "Chi è dalla verità ascolta la mia voce", dice Gesù a Pilato. Questo però significa che i cristiani, che hanno saputo la verità in modo diretto grazie alla Chiesa, davanti a Dio sono molto più responsabili di chi non ha potuto conoscere questa verità in vita. Infatti, poco dopo, l'aquila farà un monito severo a tanti cosiddetti "principi cristiani" che, invece, si sono comportati da pagani che non hanno mai conosciuto Cristo. E la loro punizione sarà più dura: "A chi è stato dato molto, sarà chiesto molto" dice sempre Gesù.

    Molti cristiani sulla Terra, dice l'aquila, hanno sempre il nome di Cristo sulle labbra: ma, nel Giorno del Giudizio, saranno a Lui molto meno vicini di tutti quegli altri uomini che non l'hanno mai conosciuto e sono morti senza battesimo, ma l'hanno amato senza conoscerlo. E un Etiope, morto senza la fede, potrà condannare quei falsi cristiani nel momento in cui il giudizio divino separerà in eterno le anime fra gli eletti, destinati alla salvezza, e i reprobi, destinati alla dannazione. Che diranno i Persiani (cioè, gli infedeli), aggiunge l'aquila, ai vostri re cosiddetti "cristiani", quando vedranno aperto il Libro della Vita, quel libro nel quale Dio ha scritto tutte le loro malefatte?

    I PRINCIPI CRISTIANI CORROTTI

    Nel presentare i cristiani corrotti, l'aquila userà dodici terzine (composizioni di tre versi: per esempio, "Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura / dove la dritta via era smarrita" è una terzina). Queste terzine si possono riunire in tre gruppi di quattro:
    - il primo gruppo inizia sempre con la "L" di "Lì si vedrà";
    - il secondo gruppo inizia sempre con la "V" di "Vedrassi";
    - il terzo gruppo inizia sempre con "E".
    Unendo le iniziali, si forma così LVE, cioè "lue", sinonimo di «peste». Dante così fa riferimento alla lue dei principi cristiani corrotti che sono di cattivo esempio, nonostante dicano sempre: "Signore, Signore".

    Nel Libro della Vita, inizia l'aquila, si leggeranno tutte le cattive azioni di re e sovrani che si dicono "cristiani" come:
    - l'Imperatore Alberto I Asburgo d'Austria, che nel 1304 invase la Boemia e la capitale Praga, provocandone la distruzione;
    - Filippo il Bello (il re di Francia famoso autore dello schiaffo di Anagni e della Cattività Avignonese, oltre al falso processo ai Templari), che causerà danno alla Francia, coniando monete false per sopperire alle spese della guerra contro le Fiandre. Morirà per il colpo di un cinghiale (il re infatti cadde da cavallo durante una battuta di caccia, perché un cinghiale si mise tra le zampe della sua cavalcatura);
    - i re di Scozia e d'Inghilterra, che non si rassegnano a restare nei propri confini e si fanno guerra tra di loro (Edoardo I qui è il re d'Inghilterra);
    - Ferdinando IV, re di Spagna, lussurioso e vizioso;
    - Venceslao II di Boemia, pure lui lussurioso; questo re e il precedente non conobbero mai, né vollero, alcun "valore", cioè fare azioni positive;
    - Carlo II d'Angiò, (chiamato con disprezzo "ciotto di Ierusalemme", cioè "lo zoppo di Gerusalemme": era zoppo e si era fregiato del titolo onorifico di "re di Gerusalemme") con pochissime buone azioni (indicate con una "I", uno in cifre romane, cioè pochissime), e moltissime malvagità (indicate con una M, mille in cifre romane: quindi tantissime);
    - Federico II d'Aragona re di Sicilia ("l’isola del foco, / ove Anchise finì la lunga etate", cioè, dove morì Anchise, il padre di Enea. "Isola del foco" per la presenza dell'Etna). Avaro e vile, le sue cattive azioni saranno scritte con caratteri abbreviati per mostrare la sua dappocaggine (cioè: si potranno scrivere le sue molte malefatte con caratteri piccoli, in un piccolo spazio, per risparmiare e metterli tutti).
    - Giacomo re di Maiorca, zio di Federico II, autore di varie empietà;
    - Giacomo II d'Aragona, fratello di Federico II: sia lo zio che il fratello hanno disonorato la loro famiglia e due corone.
    - Dionigi, re di Portogallo, autore di malefatte;
    - Acone V, re di Norvegia, autore di altre malefatte;
    - Stefano Uros, re di Serbia ("Rascia", il nome antico della Serbia), pure lui autore di malefatte: sostituì la moneta veneziana, diffusa in tutti i Balcani, con la propria, con un'operazione fraudolenta;
    - come eccezione, felice sarà l'Ungheria, perché conoscerà il buon governo di re Caroberto, figlio di Carlo Martello d'Angiò;
    - la Navarra, nonostante la difesa dei monti Pirenei, passerà sotto la monarchia francese, con suo grave danno.
    - come anticipo di questo si duole già l'isola di Cipro (Niccosia e Famagosta), sottoposta al governo di Arrigo II di Lusignano ("la lor bestia"), anch'egli appartenente alla casa di Francia.

    In pratica, non si salva nessuno. O quasi.

    COMMENTO

    Dante capisce che in Terra è necessario un garante della giustizia per tutti, non solo per i potenti e i ricchi. Questo garante è, nella sua visione, l'Imperatore. Oggi non c'è più un "garante per tutti", ma è necessario che ci sia un'autorità - democratica o regale - che faccia giustizia. Nel sesto cielo di Giove, come si è visto nel Canto precedente, alcune anime si dispongono di fronte a Dante, creando la scritta Diligite iustitiam, qui iudicatis terram ovvero «amate la giustizia voi che giudicate la terra». E' il primo versetto del Libro della Sapienza, redatto da Re Salomone. Quindi è stato scritto da un re, che avvisa agli altri re su come comportarsi. E questo è uno dei temi principali del Cielo di Giove: la giustizia terrena amministrata dai potenti.

    Il Canto affronta anche il problema della giustizia divina e della salvezza di chi non ha mai conosciuto Cristo, argomento che continuerà col Canto successivo. Per la prima volta, qui in Paradiso c'è...un "elenco dei cattivi". Cattivi cristiani regnanti, messi in contrapposizione con chi non conosce Cristo direttamente, ma, per grazia di Dio, lo può conoscere.

    La giustizia di Dio opera in modo misterioso con gli uomini vissuti in modo virtuoso, ma senza conoscere il messaggio cristiano: i pagani vissuti prima di Cristo, o quelli che non l'hanno mai conosciuto dopo la sua venuta. Oppure i bimbi morti senza battesimo. Dante presenta il Limbo per questo tipo di anime, nella Commedia: questo non è un dogma di fede, ma una supposizione. Comunque, vero o no che sia il Limbo, Dante, con quella realtà, aveva indicato la necessità del battesimo e della diffusione della verità cristiana a tutte le genti. Gesù infatti aveva detto agli Apostoli di diffondere il Vangelo e il Battesimo a tutte le genti: al resto ci pensava Lui, in modi che noi non sappiamo. Però i cristiani, intanto, devono fare la loro parte: diffusione del Vangelo e Battesimo.

    L'aquila sostiene l'imperfezione e la limitatezza della ragione umana al cospetto di quella divina; inoltre, dichiara che l'intelletto umano non può pretendere di capire la giustizia di Dio, che è sì giusta, ma nello stesso tempo è oltre le capacità limitate di comprensione dell'uomo, che è solo una creatura. Bisogna aver fede nella sua Potenza e nel Suo amore, come disse Dio a Giobbe. Poi l'aquila ammonisce gli uomini a non essere superbi come Lucifero, e a non pretendere di vedere con la propria vista limitata quelle verità che distano mille miglia da lui. Prende poi spunto dal suo discorso sulla giustizia divina per rivolgere un'aspra invettiva contro i cattivi principi cristiani, che, nonostante abbiano avuto il lume della fede, hanno commesso innumerevoli malefatte.

    Se nel Quinto Cielo di Marte prevaleva l’immagine della croce, simbolo della redenzione, nel Sesto Cielo di Giove si staglia l’immagine dell’Aquila, simbolo dell’Impero: all’Impero infatti la provvidenza di Dio ha affidato l’ordine universale. Dal cielo di Giove deriva quindi la giustizia umana, che l’Impero ha il compito di mantenere nel mondo. Oggi, al posto dell'Impero, ci sono i Governi: ma la sostanza - e la responsabilità, attenzione - non cambia.

    BIBLIOGRAFIA
    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xix.html
     
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    PARADISO CANTO 20 - SESTO CIELO DI GIOVE: SPIRITI GIUSTI: DAVIDE, TRAIANO, EZECHIA, COSTANTINO (prima parte)

    392-393
    Il Sesto Cielo di Giove, descritto da Go Nagai: al posto dell'occhio dell'aquila (descritto in questo Canto) c'è l'occhio del pianeta Giove (la famosa macchia visibile sul pianeta)



    CANTO DEI BEATI; L'AQUILA RIPRENDE A PARLARE

    Dante paragona le luci dei beati che formano l'aquila alle stelle che appaiono in cielo alla sera (che è descritta da Dante come " ‘l giorno d’ogne parte si consuma"). Il Sole ("colui che tutto ‘l mondo alluma", cioè illumina) è ormai tramontato e la sua luce, dice Dante, si riflette negli astri.
    Infatti, era cosa comune nel 1300 pensare che le stelle brillassero della luce riflessa del Sole: se fino ad allora si pensava che il Sole fosse al centro dell'Universo, era normale credere che illuminasse di per sè tutte le stelle, visto che, in questa ipotesi, era l'unica luce del cosmo.
    I beati, paragonati alle stelle di Dante, non appena l'aquila (il "sole") ha smesso di parlare, aumentano il loro splendore, proprio come fanno le stelle dopo il tramonto, e intonano un canto, il cui ricordo è ormai svanito dalla memoria del poeta.

    Dante definisce l'aquila come " ‘l segno del mondo e de’ suoi duci", cioè il simbolo del mondo e dei suoi condottieri. L'ardore di carità degli spiriti beati che compongono l'aquila si manifesta nello scintillio delle loro luci. Quando smettono di cantare, Dante sente in quel momento una specie di mormorio, simile a un corso d'acqua, che scende dal monte; oppure, simile al suono della cetra che vibra; o ancora, alla zampogna, quando emette il suo soffio. L'aquila, infatti, sta riprende a parlare con questo tipo di suono, e stavolta il suono sembra uscire dal suo collo, come se fosse forato, trasformandosi poi in voce e in parole distinte.
    L'aquila, che si è trasformata nel simbolo araldico relativo, caratteristica dell'autorità imperiale, ora invita Dante a osservare con attenzione il suo occhio. Infatti, ora che ha la forma di uno stemma araldico, è vista quindi di profilo: si vede perciò solo uno dei suoi occhi.

    aquila


    E dice, riferendosi al suo occhio, che Dante deve guardare:

    "la parte in me che vede e pate il sole / ne l’aguglie mortali" (la parte di me che, nelle aquile mortali, vede e sopporta il sole)

    Infatti, si riteneva che l'aquila, che è l'uccello che vola più in alto di tutti, avesse la capacità di sostenere a lungo la vista del Sole.

    GLI SPIRITI GIUSTI: RE DAVIDE

    L'aquila dice che gli spiriti giusti che appaiono nel suo occhio sono, fra tutti gli altri che formano il suo corpo, i più degni in assoluto. Colui che è posto al centro dell'occhio, come se ne fosse la pupilla, è il re Davide.
    Davide (nato a Betlemme il 1040 a.C. circa e morto a Gerusalemme il 970 a.C. circa) fu il secondo re d'Israele (il primo fu Saul). Da Davide discende Giuseppe, il padre putativo di Gesù: per questo Gesù è chiamato "figlio di Davide". E' venerato come santo dalla chiesa cattolica e viene festeggiato il 29 Dicembre.

    Davide
    Davide: re, poeta, cantore, santo.


    Colui che luce in mezzo per pupilla, (Colui che splende in mezzo come la pupilla)
    fu il cantor de lo Spirito Santo, (fu il cantore dello Spirito Santo (re Davide)
    che l’arca traslatò di villa in villa: (che trasportò l'Arca Santa di città in città)

    L'aquila chiama Davide "cantor de lo Spirito Santo" perchè, tradizionalmente, è ritenuto l'autore dei 150 Salmi della Bibbia. Davide, in ogni caso, nella sua vita cantò davvero e compose versi: re Saul lo aveva nella sua corte proprio per le sue capacità di canto. Davide poi fu unto re dopo la morte di Saul. Riguardo al cenno de "l'arca traslatò di villa in villa" significa che Davide portò l'Arca dell'Alleanza, lo scrigno dove stava la Presenza Divina, in vari posti, fino a portarla alla fine a Gerusalemme, quando la conquistò.

    ora conosce il merto del suo canto, (ora conosce il merito del suo canto,)
    in quanto effetto fu del suo consiglio, (poiché fu effetto della sua volontà,)
    per lo remunerar ch’è altrettanto. (grazie alla beatitudine che è ad esso commisurata.)

    Qui Dante vuole dire che Davide, ora che è in Paradiso, comprende meglio l'importanza del suo dono di cantare, frutto ("merto") dello Spirito Santo e del suo "consiglio", cioè della volontà di Davide di seguire le ispirazioni divine, che gli davano la capacità di comporre i Salmi. Si tratta, in sostanza, della collaborazione tra Dio e l'uomo, che porta a grandi cose, di cui il canto è un simbolo. L'espressione "ora conosce" sarà ripetuta per sei volte, per ognuno degli spiriti indicati dall'aquila, sempre all'inizio delle due terzine dedicate a ciascuno di loro.

    GLI SPIRITI GIUSTI: L'IMPERATORE TRAIANO

    Nuova-immagine
    L'imperatore Traiano che ascolta la vedova.


    L'aquila presenta poi gli altri cinque beati, che formano il ciglio (o contorno) dell'occhio. Quello più vicino al becco è l'imperatore Traiano, che fece giustizia alla vedova (ne ha già parlato Dante tra gli esempi di umiltà nella Cornice dei Superbi del Purgatorio, nel Canto 10).

    Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, (Dei cinque beati che formano il cerchio che mi fa da ciglio,)
    colui che più al becco mi s’accosta, (colui che è più vicino al mio becco)
    la vedovella consolò del figlio: (consolò la vedovella facendo giustizia del figlio (Traiano)

    ora conosce quanto caro costa (ora sa quanto costa caro)
    non seguir Cristo, per l’esperienza (non seguire Cristo, poiché ha sperimentato)
    di questa dolce vita e de l’opposta. (sia la vita in Paradiso sia quella all'Inferno.)

    L'aquila allude al fatto che Traiano, secondo una leggenda, rimase nel Limbo fino a quando fu portato in Paradiso grazie alle preghiere di un importante Papa del secolo 500: san Gregorio Magno. Infatti, il santo, avendo saputo della bontà di Traiano, che era morto da tempo (Traiano morì nel 117), con le sue preghiere lo avrebbe fatto risorgere, battezzare e mandare in Paradiso. Cosa c'è di vero in questa leggenda? Intanto, come già ho detto, la Chiesa non riconosce l'esistenza del Limbo: anche ai tempi di Dante non era una verità di fede. Ma Dante inserisce comunque il Limbo nella Commedia proprio per ricordare l'importanza del Battesimo, che rende il Cristiano parte del Corpo di Cristo e gli apre la Salvezza, e la differenza quindi tra essere cristiani e non esserlo. E' una cosa infatti che è facile da dimenticare. Il resto, cioè la risurrezione di Traiano e il suo battesimo, è assai forzato, anche se ci sono stati dei casi di risurrezione ottenuti grazie alla preghiera: negli Atti degli Apostoli San Pietro, con le sue preghiere, fece risorgere la cristiana Tabità. E ci sono stati altri casi di risurrezione, anche ai giorni nostri. Comunque, è più probabile che San Gregorio Magno abbia "semplicemente" visto Traiano già in Paradiso.

    San Tommaso d’Aquino nel De Veritate, a proposito delle persone che non hanno avuto occasione di sentire l’annuncio del Vangelo (sia prima che dopo Cristo), partendo dal principio che Dio vuole salvi tutti gli uomini (1 Tm 2,4), scrive:
    “Dal fatto che tutti gli uomini sono tenuti a credere esplicitamente alcune verità per salvarsi, non c’è inconveniente alcuno che qualcuno viva nelle selve o tra gli animali bruti (cioè: nessuno è destinato a vivere nell'ignoranza). Poiché appartiene alla Divina Provvidenza provvedere a ciascuno le cose necessarie per la salvezza: perciò, se uno, educato secondo la ragione naturale, si comporta in maniera da praticare il bene e fuggire il male, si deve tenere per cosa certissima che Dio gli rivelerà, per interna ispirazione, le cose che deve credere necessariamente (e qui lasciamo fare a Lui dirgli quali cose e in che modo) o (nel caso che sia vissuto dopo la resurrezione) gli invierà qualche predicatore della fede, come fece con S. Pietro e Cornelio (San Pietro andò a trovare Cornelio parlandogli di Cristo e rendendolo cristiano col battesimo)” (De Veritate, 14, 11, ad 1).

    Insomma, se un non cristiano è buono, poi Dio lo aiuterà, in vie che sa solo Lui. Non stupisce quindi che Dio, per interna ispirazione, abbia potuto infondere in Traiano, universalmente noto per la sua bontà e la sua rettitudine, le nozioni essenziali per la sua salvezza. È lecito anche supporre che tali persone avrebbero desiderato esplicitamente il Battesimo, se ne avessero conosciuta la necessità: si tratta di quello che la Chiesa chiama "battesimo di desiderio".

    Dante sapeva del fatto che quella di Traiano era una leggenda: ma inserendola ha indicato delle cose fondamentali. Prima di tutto, l'importanza della preghiera (quella di Gregorio Magno), che salva anche le anime degli altri, non solo la propria; e il fatto che chi non è cristiano può salvarsi. Quello che interessava a Dante era l'insegnamento della leggenda, non la sua veridicità.

    GLI SPIRITI GIUSTI: RE EZECHIA

    Ezechia
    Ezechia chiede a Dio di farlo vivere ancora per qualche tempo e viene esaudito.


    L'aquila poi presenta, sempre nel suo occhio, Re Ezechia. Era un re di Gerusalemme: visse tra il 700 e il 600 a.C. Fu un re giusto, che rimosse con forza il politeismo nel regno di Giuda e rinforzò la fede nel Dio unico. E' famoso perchè chiese una grazia a Dio: piangendo ("per vera penitenza" dice Dante ), supplicò Dio di differirgli la morte, che gli era stata annunciata dal profeta Isaia: alla fine ottenne la grazia di vivere diversi anni ancora (quindici, per l'esattezza). La Chiesa Cattolica lo venera come santo e lo festeggia il 28 Agosto.

    E quel che segue in la circunferenza (E il beato che lo segue nel cerchio (dell'occhio dell'aquila)
    di che ragiono, per l’arco superno, (di cui parlo, nella parte alta (cioè: la parte superiore dll'occhio)
    morte indugiò per vera penitenza (ritardò la propria morte con una vera penitenza (re Ezechia)

    ora conosce che ‘l giudicio etterno (ora sa che il giudizio eterno)
    non si trasmuta, quando degno preco (non viene mutato, quando la preghiera di un'anima degna)
    fa crastino là giù de l’odierno. (sulla Terra rimanda quello che è già stato pronunciato.)

    Dante qui vuole dire che il giudizio divino - la morte, cioè - può essere rimandata con la preghiera, come ha fatto Ezechia, ma alla fine avviene.

    GLI SPIRITI GIUSTI: L'IMPERATORE COSTANTINO

    Costantino
    Costantino, con la famosa scritta che vide in cielo: "In hoc signo vinces", "In questo segno (la croce) vincerai"


    Viene dopo di lui Costantino (274-337), l'Imperatore romano che promulgò la libertà religiosa dei cristiani con l'Editto di Milano e spostò la capitale da Roma a Costantinopoli.
    Prima che Costantino diventasse imperatore, ci fu un periodo di guerre civili: Massenzio, di origini imperiali, si proclamò Imperatore di Roma con l'appoggio di tutti: esercito, senato, popolo. Mentre Massenzio prendeva il potere a Roma, Costantino, nominato anche lui imperatore, ma solo di nome, stava combattendo contro i Britanni e i Franchi. Costantino aveva l'appoggio del suo esercito e dei barbari che gli si erano sottomessi: ma questo non sarebbe bastato per battere Massenzio, che aveva in mano Roma e tutta l'Italia, con un esercito di gran lunga superiore al suo. Incerto, Costantino stava marciando col suo esercito verso Roma. Un giorno, al tramonto, Costantino, alzando lo sguardo verso il sole calante, vide sul cielo una croce di luce, sovrapposta al sole, e sotto di essa la scritta "In hoc signo vinces", cioè “con questo segno vincerai”. E non fu solo Costantino a vedere quella visione: anche gli altri soldati con lui rimasero stupiti nel vedere quella misteriosa scena. Insicuro del significato di questa visione, quella notte, Costantino rifletteva nella sua tenda. Gli apparve Cristo, che gli ordinò di usare il segno della croce, sotto forma di cristogramma, contro i suoi nemici, e in questo modo vincerà. Un cristogramma è una combinazione di alcune lettere dell'alfabeto greco o latino che formano un'abbreviazione del nome di Gesù. Nel caso di Costantino, il cristogramma usato fu quello più famoso di tutti: il Chi-Rho. Ha infatti le lettere greche Chi e Rho. "Chi" è la lettera greca "C" di Cristo e "Rho" la lettera greca "R": sono le prime due lettere del suo nome. "Chi" in greco si scrive con una "X" (che richiama quindi la croce) e nell'alfabeto latino corrisponde a "ch"; "Rho" in greco si scrive con una "P" e nell'alfabeto latino corrisponde alla "r".

    cristogramma
    Cristogramma Chi-Rho. Ai lati ci sono le lettere Alfa e Omega, che sono la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco. Significa che Cristo è l'Inizio e la Fine, cioè è Tutto.


    Costantino seguì le indicazioni di Gesù e mise sul suo stendardo e sugli scudi dei suoi soldati il cristogramma Chi-Rho. Massenzio dispose i suoi soldati nei pressi di Saxa Rubra, cioè "grotte rosse" (il luogo era chiamato così per via della presenza di grotte di tufo rosso nella zona. Ma successivamente il luogo sarà chiamato così anche a causa dello scontro sanguinoso tra gli eserciti di Massenzio e Costantino, in cui la terra si tinse di sangue da ogni parte. Laggiù si trova attualmente il centro di produzione più importante della RAI). La zona di Saxa Rubra aveva il fiume Tevere alle spalle, e Massenzio fece costruire un ponte di barche alle sue spalle: il Ponte Milvio. Col fiume alle spalle, Massenzio era convinto che le truppe avrebbero combattuto con maggior furore; inoltre, la località poco pianeggiante avrebbe sfavorito la cavalleria di Costantino. Il 28 ottobre 312 avvenne la battaglia: Costantino attaccò furiosamente i fianchi dell'esercito di Massenzio, guidando personalmente la cavalleria. Il nemico andò in rotta, ritirandosi sul Ponte Milvio, che non poté reggere il peso di tanti uomini in fuga e crollò, facendo annegare tutti i soldati, compreso lo stesso Massenzio. Il giorno seguente, Costantino entrò trionfalmente a Roma, alzando la testa mozzata del suo avversario.

    Ponte-Milvio
    La battaglia di Ponte Milvio. Fu una svolta storica, sia per Roma, che per i cristiani, che per il mondo intero.


    Nel 313, Costantino promulgò l'Editto di Milano, che diede la libertà religiosa definitiva ai cristiani. Non si trattò di "Costantino che appoggia la maggioranza popolare approvando il Cristianesimo", come si dice spesso parlando dell'Editto di Milano: i cristiani a quel tempo erano ben lungi dall'essere la maggioranza. Anzi, erano reduci da una spaventosa persecuzione avuta da uno dei precedenti imperatori, Diocleziano: fu l'ultima, ma anche la più terribile, persecuzione romana dei cristiani, superiore persino a quella di Nerone. Lo stesso Costantino, che era pagano, scriveva di essere stanco e disgustato dalle crudeltà che i carnefici avevano commesso contro i cristiani sotto Diocleziano: infatti la ferocia dei persecutori era tale che anche gli altri pagani ne erano inorriditi. Costantino si fece battezzare sul letto di morte, nel 337.
    L'aquila così presenta Costantino:

    L’altro che segue, con le leggi e meco, (L'altro che vien dopo (Costantino)
    sotto buona intenzion che fé mal frutto, (in base a una buona intenzione che poi diede cattivi frutti,)
    per cedere al pastor si fece greco: (per lasciare Roma al Papa trasferì il governo imperiale a Costantinopoli)

    Costantino infatti trasferì il governo imperiale da Roma a Costantinopoli ("con le leggi e meco...si fece greco". "meco" significa se stesso), lasciando la città in mano al Papa. Una cosa, dice Dante, che diede amari frutti, perchè così l'Italia rimase senza un governo stabile. Infatti, col governo nella lontana Costantinopoli, l'Italia fu soggetta alle invasioni barbariche, fronteggiate con fatica dalla Chiesa e dai vari alleati che riusciva a trovare (Longobardi, orientali, ecc.)

    Tuttavia, la scelta di Costantino (che Dante chiama "bene operar") doveva essere stata fatta in base alle circostanze storiche di allora, perchè, come si vede, non c'è nessuna colpa per quello che ha fatto, visto che adesso è in Paradiso. Resta il fatto che un Impero lontano ha portato a dei pericoli vicini, come nota amaramente Dante ("avvegna che sia 'l mondo indi distrutto"):

    ora conosce come il mal dedutto (ora vede che il male scaturito)
    dal suo bene operar non li è nocivo, (dalle sue buone azioni non gli ha nuociuto)
    avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto. (benché il mondo ne sia stato guastato.)

    BIBLIOGRAFIA

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    PARADISO CANTO 20 - SESTO CIELO DI GIOVE: SPIRITI GIUSTI - GUGLIELMO, RIFEO: LA SALVEZZA DEI PAGANI (seconda parte)

    GLI SPIRITI GIUSTI: RE GUGLIELMO IL BUONO

    Guglielmo-il-buono
    Re Guglielmo Il Buono dedica il Duomo di Monreale a Maria.


    Dante continua ad osservare i beati nell'occhio dell'aquila: dopo Davide, Traiano, Ezechia e Costantino, il beato nella "parte discendente dell'arco" (cioè l'orbita dell'occhio dell'aquila) è Guglielmo il Buono o Guglielmo II di Sicilia (1153-1189), figlio di re Guglielmo I il Malo (depravato e simpatizzante degli arabi). Guglielmo il Buono fu rimpianto da Napoli e dalla Sicilia, attualmente malgovernate. Guglielmo ora comprende quanto sia apprezzato da Dio un buon sovrano.

    E quel che vedi ne l’arco declivo, (E colui che vedi nell'arco discendente)
    Guiglielmo fu, cui quella terra plora (fu re Guglielmo il Buono, che è rimpianto da quelle terre (Napoli e la Sicilia)
    che piagne Carlo e Federigo vivo: (che ora sono governate dai vivi (e ingiusti) Carlo II d'Angiò e Federico II d'Aragona:)

    ora conosce come s’innamora (ora (Guglielmo) sa che il Cielo apprezza)
    lo ciel del giusto rege, e al sembiante (un re giusto, e lo dimostra)
    del suo fulgore il fa vedere ancora. (tuttora con lo splendore del suo aspetto.)

    Infatti, Guglielmo, nel secolo 1100, comandava non solo la Sicilia, ma anche tutta l'Italia Meridionale, Napoli compresa, e il suo regno era chiamato "Regno di Sicilia", perchè aveva come capitale Palermo. Guglielmo faceva parte della casata normanna degli Altavilla. Il suo governo fu giusto e la Sicilia conobbe un periodo di pace e sviluppo. Guglielmo sposò l'inglese Giovanna Plantageneto, sorella di re Riccardo Cuor di Leone: ma non ebbero figli. Per questo, si concluse la dinastia degli Altavilla. Ci fu solo la zia di Guglielmo, Costanza d'Altavilla, citata da Dante nel Primo Cielo della Luna, che diede alla luce un figlio, ma appartenente alla casata degli Svevi, visto che lei sposò Enrico VI di Svevia: Federico II di Svevia (mandato da Dante all'Inferno tra gli eretici insieme a Farinata Degli Uberti).

    Guglielmo fece costruire il Duomo di Monreale, dedicato alla Vergine Maria: secondo la leggenda, Guglielmo si addormentò sotto un carrubo, colto da stanchezza, mentre era a caccia nei boschi di Monreale. In sogno gli apparve la Madonna, a cui lui era molto devoto, che gli disse: “Nel luogo dove stai dormendo, è nascosto il più grande tesoro del mondo: dissotterralo e costruisci un tempio in mio onore”. Dette queste parole, la Vergine scomparve e Guglielmo, fiducioso della rivelazione in sogno, ordinò che si sradicasse il carrubo e gli si scavasse intorno. Con grande stupore, fu scoperto un tesoro in monete d'oro, che furono subito destinate alla costruzione del Duomo di Monreale, che poi divenne cattedrale.

    Laggiù, nel 1270, dopo l'ottava crociata, fu sepolto san Luigi IX, re di Francia. Il figlio Filippo III fece trasferire i resti del padre nella basilica di Saint-Denis: nel Duomo di Monreale rimane un reliquiario che contiene il cuore e le viscere di San Luigi IX. Inoltre, per sdebitare il favore ricevuto, re Filippo III donò alla cattedrale un reliquiario contenente la Sacra Spina, appartenente alla Corona di Spine di Gesù. L'intera Corona di Spine è custodita a Parigi, a Notre-Dame, e fu portata lì dallo stesso Luigi IX. La reliquia è rimasta integra anche dopo l'impressionante incendio avvenuto il 15 aprile 2019, che rovinò gravemente la cattedrale.

    Corona-di-spine
    La Corona di Spine a Notre-Dame (protetta da una teca circolare fatta costruire apposta) e l'albero del giuggiolo della spina di Cristo, comune in Israele, da dove fu fatta la corona di spine.


    GLI ALTAVILLA: LA BREVE DINASTIA NORMANNA

    I Normanni erano gli Uomini del Nord, che si possono identificare coi vichinghi: erano soprattutto scandinavi e scesero in Europa. Il fondatore della famiglia normanna degli Altavilla fu Tancredi (980-1041), che ebbe come figli Roberto il Guiscardo (citato da Dante nel Cielo di Marte), Ruggero I e Guglielmo braccio di ferro: furono soprattutto questi tre figli (Tancredi ne ebbe degli altri) che, insieme ai loro eserciti normanni, combatterono contro i musulmani e gli ortodossi bizantini che comandavano il sud Italia, fondando così il Regno di Sicilia e scacciando via sia i musulmani che gli ortodossi, impressionati dalla loro grande forza e valore. Infatti i Normanni erano talmente combattivi e feroci che il Guiscardo fu chiamato "terrore del mondo".

    Regno-di-Sicilia
    Il Regno di Sicilia, dopo il dominio arabo. All'inizio governarono i normanni Altavilla, poi i tedeschi Svevi, poi i francesi Angioini, poi gli spagnoli Aragonesi. Successivamente, passò agli spagnoli e italiani Borbone di Napoli, e per un certo tempo fu chiamato Regno delle due Sicilie. Fu poi annesso all'Italia nel 1861 dopo la Spedizione dei Mille di Garibaldi.


    La casata degli Altavilla comunque si estinse presto, con la morte della regina di Sicilia Costanza d'Altavilla nel 1198 (ripeto, incontrata da Dante nel Cielo della Luna degli Spiriti che mancarono ai voti). Infatti, lei sposò un re della casata degli Svevi, un ramo tedesco, e il figlio, Federico II di Svevia (che Dante mise all'Inferno tra gli Eretici, scusate la ripetizione), diede inizio alla dinastia degli Svevi. Quindi la casata degli Altavilla durò circa due secoli.

    GLI SPIRITI GIUSTI: RIFEO

    Rifeo
    Rifeo, il compagno di Enea.


    L'aquila conclude la presentazione dei beati nel suo occhio con un gran colpo di scena: fa vedere l'ultimo beato, che non è stato cristiano, ma pagano: Rifeo, il troiano, che ora sa molto più di quello che gli uomini sanno della grazia divina.

    Rifeo è un personaggio minore dell'Eneide: era uno dei compagni di Enea, che era stato con lui la notte della caduta di Troia e morì eroicamente nella difesa della città (quindi non seguì Enea nel suo viaggio). Enea, nel suo racconto alla regina Didone, fa l'unico cenno a Rifeo presente in tutta l'Eneide: "cadde anche Rifeo, che fu tra i Troiani il più giusto e il più osservante del diritto: ma gli dei pensarono diversamente."

    Dante afferma che Rifeo credette nel Cristo venturo, grazie alla sua giustizia e quindi ottenne la salvezza. È probabile che Dante fosse colpito dall'appellativo "il più giusto" ("iustissimus unus") e "osservante del diritto" ("servantissimus aequi") con cui è designato da Virgilio, mentre l'espressione "gli dei pensarono diversamente" ("dis aliter visum") poteva indurre il poeta a credere che il Dio cristiano serbasse per lui un destino ultraterreno in contrasto con la sua precedente vita pagana.

    Chi crederebbe giù nel mondo errante, (Chi, nel mondo errante, potrebbe credere)
    che Rifeo Troiano in questo tondo (che il troiano Rifeo in questo cerchio)
    fosse la quinta de le luci sante? (fosse la quinta delle luci sante?)

    Ora conosce assai di quel che ‘l mondo (Ora sa molto più di quello che gli uomini)
    veder non può de la divina grazia, (conoscono della grazia divina,)
    ben che sua vista non discerna il fondo». (anche se il suo sguardo non può arrivarvi in profondità».)

    Eneide
    Giulio Brogi (Enea) con Olga Karlatos (Didone) dall'Eneide televisiva di Franco Rossi, trasmessa in sette puntate dalla RAI a partire dal 19 dicembre 1971.



    DANTE E' STUPITO DELLA PRESENZA DI PAGANI IN PARADISO

    L'aquila, quando ha finito la sua presentazione, sembra simile all'allodola, che prima vola cantando nell'aria, poi tace, compiacendosi del suo canto, nell'eterna gioia di Dio. Dante, però, è assalito da un dubbio: i pagani Traiano e addirittura Rifeo in Paradiso? E non trattiene un'esclamazione di stupore: "Che cose son queste?". Gli spiriti beati manifestano la gioia di poter rispondere a Dante, aumentando il loro splendore. L'occhio dell'aquila sfavilla: per risolvere il dubbio di Dante, l'aquila dice per prima cosa che Dante crede a ciò che ha udito (la salvezza dei pagani) nel Canto 19, ma non la capisce fino in fondo, come chi conosce una cosa solo per il suo nome, ma senza capirne il senso. Quasi come chi ripete a pappagallo, senza rifletterci sopra.

    «Io veggio che tu credi queste cose («Io vedo che tu credi queste cose)
    perch’io le dico, ma non vedi come; (perché te le dico, ma non ne capisci la ragione;)
    sì che, se son credute, sono ascose. (in tal modo, anche se credute, sono oscure.)

    Fai come quei che la cosa per nome (Tu fai come chi comprende la cosa, dal nome che la indica)
    apprende ben, ma la sua quiditate (ma non ne comprende la sostanza)
    veder non può se altri non la prome. (se qualcun altro non gliela spiega.)

    L'aquila inizia la spiegazione dicendo che "il Regno dei Cieli subisce violenza": cioè, la bontà e la speranza - e ovviamente il comportarsi bene, che viene di conseguenza - fanno sempre breccia nell'Amore divino. Certo, è Dio che rende buoni: ma è l'uomo che diventa buono, accettando l'azione di Dio su di lui. La bontà nasce quindi da una "collaborazione" tra Dio e l'uomo. Anche nel caso dei non credenti, questo avviene per vie misteriose che sa solo Dio. Il Regno dei Cieli, quindi, sopporta violenza dall'ardore di carità e dalla speranza, che può vincere la volontà divina: non come un uomo che ne sopraffà un altro (questa è la violenza umana), ma semplicemente perché essa - la volontà divina - vuole esser vinta e, una volta vinta, vince a sua volta con la bontà.

    Regnum celorum vïolenza pate (Il Regno dei Cieli sopporta la violenza)
    da caldo amore e da viva speranza, (che viene da caldo amore di carità e da viva speranza,)
    che vince la divina volontate: (che vince la volontà divina:)

    non a guisa che l’omo a l’om sobranza, (non come un uomo che ne sopraffà un altro,)
    ma vince lei perché vuole esser vinta, (ma la vince perché essa vuol essere vinta,)
    e, vinta, vince con sua beninanza. (e, una volta vinta, vince con la sua bontà.)

    L'aquila continua, dicendo a Dante: "Tu ti meravigli del fatto che la prima e quinta anima del ciglio del mio occhio (Traiano e Rifeo) siano qui in Paradiso: in realtà essi, dopo la morte, non uscirono dai loro corpi come pagani ("gentili"), bensì come Cristiani: Rifeo, che ha creduto nel Cristo venturo, e Traiano, che ha creduto nel Cristo venuto." Nel caso di Traiano, la sua anima fu evocata dal Limbo, anzi, dice Dante, addirittura dall'Inferno, dalle preghiere di San Gregorio Magno:

    Ché l’una de lo ‘nferno, u’ non si riede (Infatti il primo (Traiano), dall'Inferno, da dove non si torna)
    già mai a buon voler, tornò a l’ossa; (mai a una volontà buona, resuscitò)
    e ciò di viva spene fu mercede: (e ciò fu il premio di una viva speranza:)

    di viva spene, che mise la possa (di una viva speranza, che nelle preghiere)
    ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla, (rivolte a Dio mise la forza per farlo resuscitare,)
    sì che potesse sua voglia esser mossa. (così che la volontà di lui fosse convertita a miglior desiderio (quello di credere in Cristo.)

    L’anima gloriosa onde si parla, (L'anima gloriosa di cui parlo,)
    tornata ne la carne, in che fu poco, (tornata nella carne (una volta risorta), in cui rimase poco,)
    credette in lui che potea aiutarla; (credette in Colui (Cristo) che poteva aiutarla; )

    e credendo s’accese in tanto foco (e, credendo, si accese in un tale ardore)
    di vero amor, ch’a la morte seconda (di autentica carità, che dopo esser morto per la seconda volta)
    fu degna di venire a questo gioco. (fu degno di salire a questa beatitudine.)

    Dante dice che all'Inferno "non si riede già mai a buon voler", cioè, laggiù la malvagità è ormai fissa, è impossibile diventare buoni. E nemmeno le preghiere di San Gregorio Magno possono far tornare indietro un'anima dall'Inferno, come sembra far capire invece Dante, che qui segue la leggenda di Gregorio Magno, che, con la sua preghiera, fece risuscitare Traiano dall'Inferno (o dal Limbo), lo battezzò e così, salvo, poté andare in Paradiso.

    A parte la leggenda, Dante qui fa capire quanto sia importante la preghiera per la salvezza degli altri, non solo per la propria, ma anche per quelli che sono sulla Terra e per quelli che sono in Purgatorio. Nell'Inferno, invece, ogni preghiera è inutile: le anime dannate vogliono restare per sempre lì, non sopporterebbero mai di essere vicine a Dio, che ormai odiano. Maledicono il fatto di essere finite lì, ma non vorrebbero mai andare in Paradiso: sono bloccati nella loro malvagità. Quindi, se Traiano fosse finito davvero nell'Inferno ci sarebbe rimasto, non importa quanto San Gregorio Magno avesse pregato per lui. Per riparare alla "licenza poetica" di Dante, i commentatori sostengono che Traiano era finito nel Limbo, una cosa che Dante, però, non dice.

    Passando poi a Rifeo, l'aquila dice che, attraverso il dono della grazia divina, che Rifeo seguì (la grazia divina c'è su tutti, pagani e non: sta poi all'uomo seguirla o meno), lui fu sommamente giusto in vita e ricevette da Dio la conoscenza della futura Redenzione: egli vi credette e da quel giorno rinnegò il paganesimo, venendo battezzato per infusione diretta delle virtù teologali (Fede, Speranza e Carità), mille anni prima che il battesimo fosse istituito.

    Anche questa è un'invenzione letteraria di Dante, che però in questo modo vuole mostrare come Dio, che è Padre di tutti, vuole la salvezza di tutti, attraverso delle vie che sa solo Lui.

    L'aquila conclude parlando del mistero delle predestinazione, che non significa che alcuni sono predestinati al Paradiso e altri all'Inferno: questa è la visione protestante. Per "predestinazione" qui si intende il fatto che ogni uomo è predestinato ad andare in Paradiso: ma questo avviene in un misterioso incontro tra Dio e l'uomo. Dio sa già chi si salva e chi no, ma, nel saperlo, non pregiudica la libertà di nessuno: ciascuno è libero di scegliere se accettare o meno la salvezza che Dio gli offre. E' il mistero della libertà umana e dell'intervento divino: qui nessuno può entrare, perchè è un mistero al di là della nostra comprensione. Ci basti sapere che Dio è un Padre buono che ci vuole tutti salvi. Altro non serve sapere.

    O predestinazion, quanto remota (O predestinazione, quanto è distante)
    è la radice tua da quelli aspetti (la tua origine da quegli sguardi (dei mortali)
    che la prima cagion non veggion tota! (che non possono certo vedere Dio nella sua interezza!)

    E voi, mortali, tenetevi stretti (E voi, uomini, siate prudenti)
    a giudicar; ché noi, che Dio vedemo, (nel giudicare; infatti noi, che vediamo Dio,)
    non conosciamo ancor tutti li eletti; (non conosciamo ancora il numero esatto degli eletti; )

    Infatti, nemmeno chi è in Paradiso può comprendere tutto di Dio. E' un cammino infinito.

    ed ènne dolce così fatto scemo, (e questa nostra mancata conoscenza ("fatto scemo", cioè carente, mancante) è tanto dolce, per noi,)
    perché il ben nostro in questo ben s’affina, (in quanto la nostra gioia si affina in Paradiso sempre di più)
    che quel che vole Iddio, e noi volemo». (e vogliamo solo quanto è voluto da Dio».)

    Infatti hanno totale fiducia in Dio che è Padre, e Giusto, e Buono, anzi l'unico buono ("Solo Dio è buono", dice Gesù), tanto che quanto lui vuole - ed è il Bene - anche loro lo vogliono.

    L'aquila conclude il suo discorso, che è stato per Dante una "soave medicina". La chiama "medicina", infatti, perchè ha curato i dubbi e i pensieri errati di Dante sul giudizio divino. E, come il bravo citarista accompagna il canto col suono delle corde, rendendolo più piacevole, allo stesso modo, mentre l'aquila parlava, Dante ha visto le due luci che corrispondevano alle anime di Rifeo e Traiano lampeggiare all'unisono il proprio splendore, come due occhi che sbattono simultaneamente. E' come se confermassero le parole di salvezza dell'aquila per tutti gli uomini di buona volontà. E non "per tutti gli uomini che Dio ama": ma per tutti gli uomini di buona volontà, cioè quelli che si impegnano seriamente a raggiungere la salvezza e a comportarsi bene. Il Paradiso è dei violenti. Non dei pigri.

    COMMENTO

    Il Canto completa il dittico iniziato col precedente Canto, dedicato al problema della salvezza dei pagani prima e dopo Cristo, attraverso l'esempio di Rifeo (un pagano prima di Cristo) e Traiano (un pagano dopo Cristo). Il giudizio divino è sì giusto, ma imperscrutabile: nessuno può comprenderlo fino in fondo.

    I sei beati che formano l'occhio, essendo quasi tutti re, fanno pensare che i beati del Cielo di Giove, gli Spiriti Giusti, siano soprattutto dei re o principi che hanno ben governato. Ciò si accorda col senso della scritta formata dall'aquila nel Canto 18°, che esortava le persone potenti, che giudicano sulla Terra, ad amare la giustizia. Inoltre, c'è stata anche la rassegna dei principi cristiani corrotti del 19° Canto, di cui i beati del 20° Canto fanno da contraltare. Cinque dei sei beati che l'aquila nomina sono stati buoni sovrani sulla Terra, a cominciare da Davide.

    DIVINA COMMEDIA DI NAGAI

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    Il Cielo di Giove nel manga è mostrato in quattro pagine, due delle quali mostrano il pianeta di Giove con un occhio gigantesco, al posto dell'aquila; inoltre, non c'è la presentazione di Davide e degli altri santi. Non c'è nemmeno il problema della salvezza per i non credenti, un tema troppo ostico da presentare in un manga. Beatrice presenta così il Cielo di Giove a Dante:

    Beatrice: Il sesto cielo è quello di Giove. Qui dimorano gli spiriti che sulla Terra esercitarono la giustizia.

    Dante incrocia le braccia sul petto, chiude gli occhi e piange di commozione, investito dalla luce. E, nel farlo, pensa:

    Dante: Che luce...così numerose sono dunque le anime dei beati? Il cielo sembra ardere, tanto è il calore del loro amore....aah....sento crescere in me una nuova energia...chissà se anch'io prima o poi diventerò una luce splendente come loro!

    La frase e la situazione è stata completamente inventata da Nagai. Inoltre, il pensiero di Dante che "diventerà luce splendente" non considera la resurrezione dei corpi. Nel Paradiso di Nagai, tutti sembrano delle espressioni luminose e non sono considerati come risorti col corpo. Dante, infatti, sente "crescere in sè una nuova energia", quasi come se lui dovesse diventare energia. Il corpo qui è completamente dimenticato. Eppure, nel Cristianesimo la resurrezione dei corpi è fondamentale. Qui abbiamo ancora un Paradiso orientale simile al Nirvana, che non c'entra nulla con quello cristiano.

    BIBLIOGRAFIA

    https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xx.html
     
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